Creato da ugoabate il 31/07/2008
desidero dare a tanti la possibilità di ricevere qualcosa di buono e da Dio la Sua Benedizione.

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CHI AMA E'.....

Post n°566 pubblicato il 06 Aprile 2013 da ugoabate

CHI AMA IN SILENZIO E' COME IL SOLE SOTTO LE NUBI, SEMPRE PRONTO A SPUNTARE E AD ILLUMINARE I CUORI BISOGNOSI DI LUCE E DI AMORE!

Ugo Abate Teologo - Roncofreddo, 21-12-2012

 
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PAROLE DI MIA MOGLIE MARIA

Post n°563 pubblicato il 04 Aprile 2013 da ugoabate

GRAZIE DIO DI QUESTO DONO CHE MI HAI DATO...GESU' MI E' VICINO E LO SENTO.....TI HO INCONTRATO NEL MIO CAMMINO...GRAZIE DI NON AVERMI ABBANDONATA E DI STARMI VICINO COME STA FACENDO MIO MARITO UGO, IL MIO DOLCE AMORE.      MARIA

 
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Cesena, 10 Giugno 2002 DIECI ANNI DI VITA RELIGIOSA NELLA COMUNITÁ DI MAMMA GIGLIOLA( DAL LIBRO: UN FIGLIO DI UN GRANDE ALBERO)

Post n°560 pubblicato il 03 Aprile 2013 da ugoabate

 

 

Cesena, 10 Giugno 2002 

 

In questo che seguirà, cercherò, per averlo vissuto in prima persona, di descrivere e far conoscere ciò che era veramente la vita nelle Comunità di Mamma Ebe, dei laici che componevano uno dei tre rami della Pia Unione, delle consacrate o suore con voti semplici, di castità, povertà, obbedienza e particolare obbedienza al Papa, dei consacrati o seminaristi, anch’essi con gli stessi voti privati e destinati all’Ordine Sacro, secondo l’iter stabilito dalla Santa Madre Chiesa.

Per questioni di privacy, ometterò di nominare, quasi del tutto, le persone ancora in vita e nominerò chiaramente solo il nome del sottoscritto e di pochi altri.

Quinto di otto fratelli, tutti maschi, una vera benedizione di Dio e grande prova di coraggio dei miei genitori e di mia madre innanzitutto, che in tutto, di figli ne ha fatto, in realtà, dieci e tutti maschi, solo che ha avuto un aborto spontaneo e morto il decimo, sempre maschio, di morte bianca, nel 1978, a 24 anni, stando nella cittadina che mi ha dato molti natali, Aversa - Caserta, sull’Appia, nel mezzo tra Napoli e Caserta, nell’allora fertilissimo agro campano, studente del IV anno di Medicina presso il II Policlinico, vivevo la triste situazione del forte esaurimento nervoso del settimo dei miei fratelli, J., al quale nessun medico aveva saputo dare un’adeguata cura per ristabilire la normalità della sua salute.

Le cose che avvenivano in casa erano catastrofiche e, proprio in quell’anno, J. doveva dare l’esame di Maturità Scientifica che, a causa di questi gravi motivi di salute, saltarono puntualmente.

 
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CONTINUAZIONE COME INCONTRATA E CONOSCIUTA M.E.

Post n°559 pubblicato il 03 Aprile 2013 da ugoabate

Un giorno, una mia zia, zia P., moglie di un fratello di mia madre, che tempo addietro aveva conosciuto Mamma Ebe per cercare di trovare una cura per la sua figlia, affetta, fin dalla nascita, da una ipotrofia emilaterale di tutto il corpo, indicò appunto a mia madre questa persona, quale fu l’ultima possibilità e carta da giocare per poter trovare una eventuale adeguata cura che facesse al caso di J..

J., non appena sentì nominare tale persona, non faceva altro che rammentarla continuamente, pur non avendola mai conosciuta di persona. E, continuamente, chiedeva di essere condotto da lei. A questo punto, mia madre e mio fratello, che non ricordo se a quel tempo già medico o solo prossimo alla laurea, decisero di condurre J. da questa “donna” che, settimanalmente, il venerdì notte, dopo aver lavorato per tutto il giorno e tutta la settimana nella propria Villa Gigliola, in San Baronto - Pistoia, scendeva, insieme al suo medico e a qualche volontaria, a Sacrofano - Roma, ove aveva affittato una villa per visitare e curare gli ammalati che provenivano dal Centro, dal Sud e dalle Isole, venendo loro incontro, non facendo loro percorrere così tanti chilometri per giungere fino a San Baronto, in Toscana.

Quel giorno, che fu deciso di portare J. a Roma, io restai a casa. Certo, stavo già male, ma l’affezione della quale soffrivo era già passata alla fase sub-cronica o persino cronica credo e, quindi, sintomaticamente meno appariscente per molti versi, anche se il male stava lavorando anche nel sangue.

Al ritorno da Roma, J. già si presenta più sereno, più aperto al dialogo e, di colpo, erano sparite quelle manifestazioni aggressive verso le cose, che aveva provocato non pochi danni a casa: letti, armadi, porte distrutte!

Trascorsa qualche settimana, J. aveva incominciato a recarsi a Roma da solo. Stava sempre meglio, al punto che, nel Settembre di quello stesso 1978, fece domanda per sostenere l’esame di Maturità in sessione straordinaria. La domanda fu accolta e J. superò la prova col voto 46/60, cosa di non poco conto, e, inoltre, egli aveva dimostrato che, ormai, stava bene! Incominciava, infatti, a recarsi anche in Toscana da solo e, poi, faceva ritorno ad Aversa.

Fu proprio in quel periodo che decisi anch’io di recarmi da Mamma Ebe e per due motivi, essenzialmente. Il primo, per conoscere di persona questa “donna” della quale sentivo parlare in modo contraddittorio: chi in bene, chi in male, ed anche da persone che non l’avevano mai conosciuta.

Giunto un sabato a Sacrofano di Roma, con due dei miei fratelli, J. e S., vidi tante persona provenienti da mezza Italia. Dopo alcune ore di attesa, venne il nostro turno. Fummo fatti accomodare in una stanza e ci fu chiesto, da un’inserviente, di spogliarci e restare solo in mutandine.

Giunta che fu Mamma Ebe, visitò A. e gli disse che era affetto da linfatismo (cosa che era perfettamente vera) e gli prescrisse delle erbe. Si recò, poi, dal suo medico, che sempre l’accompagnava, e gli fece prescrivere delle iniezioni per il linfatismo.

Toccò poi a me. Mi fece sdraiare sul lettino e, senza che io le avessi detto una sola parola, mi visitò lì dove da tempo era partito il male e mi disse chiaramente quello che avevo, cosa che è risultata vera.

Mi diede un impacco di pomata a base di ittiolo e mi disse di metterlo sui genitali per quattro notti successive. Di poi, si congedò dopo averci salutato.

Ritornati a casa, giorno dopo giorno cominciavo a stare sempre meglio, fino al punto che non accusavo più alcuno dei sintomi che per mesi avevo avuto.

Intanto, mia madre, che prima della guarigione di J. non ci vedeva chiaro su Mamma Ebe poiché di costei ne aveva sentito parlare ora bene ora male, visti, però, i risultati, incominciava ad aver fiducia in questa donna, che molti dicevano avere anche le Stimmate, come Padre Pio, del quale era figlia spirituale.

Un giorno J. ci telefonò dalla Toscana per farci sapere che il Venerdì Santo alla Mamma Ebe le si sarebbero aperte le ferite e che avrebbe dato la benedizione a quanti si sarebbero recati da lei.

Come, non saprei di preciso, mia madre ed io, insieme ad una signora di Castellammare di Stabia, organizzammo, per questo evento, un pulman di malati. Fra di essi c’era pure un ragazzo di Castellammare, di circa trent’anni, paralizzato e costretto da anni su di una sedia a rotelle.

Si partì la mattina prestissimo di quel Venerdì Santo del 1979 e giungemmo alla villa dove abitava Mamma Ebe, a San Baronto, in mezzo alle colline pistoiesi, nel primo pomeriggio. Il cielo era cupo e minacciava persino di piovere. Fuori la villa c’era una lunga fila di persone, che si snodava dalla strada fin giù per le scale esterne della stessa villa, scale che portavano in un locale attiguo, chiamato “stireria”. Era lì, infatti, che ogni anno, e sempre lo stesso giorno, il Venerdì Santo, che, dalla mattina alle 9 alla sera alle 18, Mamma Ebe, adagiata su di un lettino, coperta da un lenzuolo bianco, le ferite tutte aperte e piene di sangue, accoglieva, benediceva, dava risposte, consigli, sostegno e speranza ad ogni sorta di ammalati e di persone. E così fu anche per me! Mi misi in coda come tutti, avendo dietro a me proprio mia madre.

L’aria era piena di devoto silenzio ed, insieme, di continua preghiera. Si procedeva lentamente, ma minuto dopo minuto, la fila scorreva e mentre persone uscivano dalla “stireria”, altrettante continuavano ad accodarsene in fondo, su per le scale e fin sulla strada Provinciale, che passa proprio di lì.

Ancora pochi passi e sarebbe toccato a me! Ero sereno ma anche un po’ curioso in verità: volevo portare via un ricordo tangibile di quell’incontro che stavo per fare! Mi sono preso, perciò, nella mano destra, un fazzoletto pulito che avevo in tasca: l’avrei intinto nella ferita della mano, che, a pochi passi ormai da lei, vedevo essere fuori del lenzuolo, adagiata lungo il corpo e che si alzava faticosamente, un attimo, solo per una benedizione o per imporla sul capo o su di un’altra parte del corpo, su ciascuno che giungeva davanti a lei.

È toccato finalmente a me! Mi sono inginocchiato affianco al lettino, come facevano tutti, e, nello stesso istante, ho adagiato delicatamente il fazzoletto su quella ferita, affinché portasse con sé il ricordo tangibile di quel sangue. Invece…! In quello stesso istante Mamma Ebe, rivolgendo il suo sguardo dolce e mesto verso di me, disse: ”Abbi fede!”

Per un attimo restai senza parole! Poi, ancora lei, mi disse: ”Ugo, vuoi seguirmi?” Ed io, senza alcuna esitazione, le risposi, a lei o a Chi per essa: “E a lei (intendevo la mia ex) chi ci pensa?” “A lei - mi rispose - ci penso io!” E mi diede la benedizione.

La risposta fu per me una certezza, anche senza un motivo razionale e di lì a poco ne ebbi la conferma.

Presa la benedizione, riposi in tasca il fazzoletto, che mi accorsi essere rimasto senza alcuna macchia di quel sangue e mi alzai, riprendendo la via d’uscita da quella stanza.

Di poi, mia madre ebbe a dirmi che, nonostante fosse stata a pochi centimetri da quel brevissimo colloquio e, pur avendo prestata la massima attenzione, non era riuscita a capire una sola parola.

 
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RITORNO A CASA DOPO INCONTRO CON MAMMA EBE

Post n°558 pubblicato il 03 Aprile 2013 da ugoabate

Facemmo ritorno a casa la sera stessa, ma, un’altra cosa ho da ricordare di quel viaggio: il ragazzo paralitico, non appena salito in pulman, incominciò a parlare in aramaico! Certo, nessuno di noi lo capiva, ma quello di cui molti di noi erano certi era che quella lingua era quella stessa parlata da Gesù. Eppure quel ragazzo non era mai uscito dalla sua cittadina, tantomeno aveva mai studiato lingue ed, ancor meno, l’aramaico, poiché aveva un’istruzione scolastica media. Altro non ricordo.

Dopo quel viaggio passò un po’ di tempo. Un mattino, mentre mi trovavo in cucina a fare colazione, mi si presentò mio fratello R., che mi disse: ”Ugo, ha detto la Mamma Ebe perché non vieni a studiare a San Baronto?” A quelle parole restai come preso di sorpresa! E si che era quasi un anno e più che non davo un esame ed ero fermo su quello vastissimo di Patologia Medica, anche perché, proprio in quell’anno, era finito, senza quasi un motivo, uno splendido rapporto durato quasi sette  anni. Ero, in effetti, in piena crisi esistenziale, anche se non avevo ancora toccato il fondo, cosa che si sarebbe verificata da lì a pochi mesi, dopo la morte di un carissimo mio zio, Orazio, che ogni anno, essendo senza figli, mi aveva sempre ospitato per tutti i mesi estivi, cosa che, per periodi molto più brevi, faceva anche con altri suoi nipoti. Era uno zio dal cuore d’oro, come lo era, del resto, anche sua moglie Assuntina, sorella maggiore di mio padre. Erano pieni di soldi e di proprietà ma affatto attaccati a queste cose. Privi di figli, perché non ne erano venuti, ma con una casetta con tanta pace e sempre piena di parenti, nipoti, che non partivano da lì senza prima che la zia avesse riempito di vettovaglie il bagagliaio della propria macchina!

Ritornando a quell’invito fattomi da Mamma Ebe attraverso mio fratello J., la mia risposta fu immediata ed impulsiva: ”No, io lì, in cima a quelle montagne, non ci andrò mai!” Ed J., di rimando, rispose: ”Eppure, ha detto la Mamma Ebe che, tra un anno, tu sarai lì!”

A tali parole mi sentii come sfidato, io, che ero ancora dedito ad una vita alquanto libertina, oltre che allo studio, che del resto non andava più come all’inizio. Ed a questa “sfida” mi venne da rispondere: ”Se è volontà di Dio, tra un anno sarò lì! Ma se non è volontà di Dio, io lì, in cima a quelle montagne, non ci verrò mai, nemmeno morto!”

J., intanto, dopo aver sostenuto l’Esame di Stato, aveva deciso di entrare nella Comunità di Mamma Ebe. Era il 1978. Nel frattempo mi ero trasferito da mia zia, a Termini di Massalubrense, estrema punta della Penisola Sorrentina, a cavallo tra il Golfo di Napoli e quello di Salerno. Mi ero trasferito da mia zia, Assuntina Abate, che, proprio allora aveva perso suo marito, il Maresciallo Maggiore dei Carabinieri in pensione Orazio Balsamo. Morto lo zio, ella mi aveva chiesto di andare ad abitare da lei, che mi aveva sempre tenuto come un figlio. In effetti lei era per me come una seconda mamma!

Lì, a Termini, avevo incontrato i miei vecchi amici d’infanzia e me ne ero fatti anche di nuovi.

Frequentavo la scuola di Teatro, a Sorrento, ma, a riprendere a studiare medicina, non se ne parlava nemmeno lontanamente!

Eppure, non mi mancava proprio nulla! Soldi ne avevo quanti ne volevo, libertà, tutto e ragazze a volontà, pur non riuscendo più ad innamorarmi, nemmeno della più simpatica e disponibile tra esse!

Un giorno di fine Primavera del 1979, mentre ero in camera da letto, dove ammiravo, come in quadro di Paradiso, lo splendido panorama dell’isola di Capri e dei suoi Faraglioni, baciati dal sole e lambiti dal verde mare, avevo, aperto tra le mani, uno dei quattro tomi di Patologia Medica. Ma non riuscivo a concentrarmi. Tutto era sempre fermo! D’un tratto, un pensiero orribile mi ha sfiorato il cervello: il suicidio! Mia zia era ignara di tutto. Per lei la mia vita era tutta rose e fiori.

Eppure…lei, felice di vivere con me, che mi aveva sempre tenuto come un figlio e mi trattava come un figlio. Io, invece, ero nell’Inferno!

Per un attimo provai la sensazione del baratro ma, d’un colpo, un altro pensiero altrettanto forte, ma positivo, si sovrappose al primo e prese il posto di questo: ”Solo Mamma Ebe mi può salvare!”

I giorni che seguirono passarono veloci. Mi misi in contatto telefonico con S. Baronto e presi un appuntamento per incontrare Mamma Ebe, a Roma, un Sabato. Non ne feci parola alcuna con mia zia, che continuava ad essere ignara di tutto.

Partii, dunque, da Termini, un Sabato di mattina presto, dicendo a mia zia che mi recavo in gita a Roma e che sarei ritornato la sera di quello stesso giorno. E così fu.

Giunto a Sacrofano, incontrai Mamma Ebe, che mi accolse con la sua solita semplicità austera. Le parlai e lei mi disse che, se volevo, potevo stare con lei il Sabato successivo ed avrei potuto seguirla nella visita agli ammalati. Detto fatto! La sera fui di ritorno a Termini. Mia zia sembrava come se intuisse qualcosa e mi fece delle domande, alle quali rispondevo evasivamente, per non farle capire nulla. Il Sabato successivo ripartii alla volta di Roma, e, giuntovi che fui, la Mamma mi fece portare subito un camice bianco e mi disse di seguirla nelle stanze ove stavano in attesa gli ammalati.

Tutto il giorno lo trascorsi così, dalle nove del mattino alle ventitré, io, con una breve pausa per il pranzo, lei nemmeno questa, ma solo un buon caffè ogni tanto, dopo qualche boccone di un  panino al prosciutto!

E fu così per altri due Sabati successivi.

In quei pochi incontri maturarono in me due sentimenti: il primo, quello di riprendere gli studi di Medicina; il secondo, un amore particolare verso gli ammalati e le persone bisognose tutte.

 
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