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LE POLITICHE DI APPEASEMENT

Post n°69 pubblicato il 03 Aprile 2016 da giulio.stilla

LE POLITICHE DI APPEASEMENT

Mi piace riproporre la lettura di un articolo del 23/03/2016 di Sergio Rame, che riporta le accuse  di Enrico Mentana su: "Il nullismo europeo – che -  porta solo altra acqua al mulino dell'Isis, proprio come il lassismo imbelle delle democrazie europee 80 anni fa aprì la strada ai nazisti".

Mi piace ricordare questo articolo per l’eventuale lettore appassionato di Storia Contemporanea, che ama riflettere, a mente fredda, sulle stragi di Parigi e di Bruxelles, sapendo che per le grandi svolte storiche occorre una straordinaria conoscenza della realtà effettuale da cui si parte e una chiara, lungimirante prospettiva verso la quale ci si incammina. Non basta la prudenza dei cosiddetti “progressisti”, che da sola può significare, come osserva il giornalista Mentana, “lassismo” e colpevole, deprecabile inazione.

Non basta temporeggiare e aspettare che la tempesta si calmi per svolgere raccordi diplomatici con barbari sanguinari, che amano lo sterminio integrale della nostra civiltà e non intendono dialogare per cercare la conciliazione e la pace perpetua, ma l’odio perenne e la distruzione dell’umanità in terra e in cielo.

 “Per Mentana l'approccio dei Paesi europei ricorda le politiche di appeasement che aprirono le porte alla Germania di Adolf Hitler. "La pace è il nostro stato di natura, ma non è la condizione dei jihadisti - scrive il direttore del Tg La7 - fare la guerra a chi vive in pace è facilissimo, fare la pace con chi ci ha dichiarato guerra è impossibile". E continua: "Gente che decide di morire per fare una strage tra persone sconosciute e pacifiche. Nulla e nessuno può giustificare questo fanatismo criminale. A questo punto accendere candele e intonare l'ennesimo Je suis... non serve a nulla". A suo dire una risposta identitaria non servirà a salvare l'Europa e l'Occidente. E nemmeno serviranno "le mille dietrologie su 'chi li ha creati', 'chi li sostiene', 'chi li paga'". "Il mito della loro invincibilità sta alimentando altre simpatie nel mondo islamico profondo, specie tra i giovani - incalza nel post - dopo ogni strage facciamo mille proclami, poi dopo due settimane li accantoniamo".

"La pace è il nostro stato di natura, ma non è la condizione dei jihadisti - continua Mentana - fare la guerra a chi vive in pace è facilissimo, fare la pace con chi ci ha dichiarato guerra è impossibile". E a chi va in giro a dire che i terroristi islamici "non cambieranno il nostro modo di vivere", fa notare: "Quello dei disegnatori di Charlie Hebdo, degli avventori dell'Hyper Kacher, dei ragazzi del Bataclan, dell'aeroporto e del metrò di Bruxelles l'hanno cambiato, cancellandolo". E conclude lanciando un appello a tutti i leader occidentali: "Servono risposte vere e condivise, non la retorica della parte giusta".

E’ un sollievo della mente sentire che E. Mentana, dopo essersi emancipato, ormai da molto tempo, dalla dipendenza della RAI, è più incline, oggi, a far uso della sua intelligenza critica per dimostrare di non essere asservito al potere politico di turno. L’altro giorno, infatti, durante il TG di La7,  ha trovato la determinazione di non permettere che una sua giornalista riferisse le opinioni della Presidente della Camera, Boldrini, sulla strage di Bruxelles. La interrompe in modo reciso, dicendo con un certo fastidio: "Passiamo oltre, queste ce le risparmiamo, tanto...con tutto il rispetto...".

Così, adesso, come riporta l’articolo di Sergio Rame del 23/3/2016, Mentana trova il coraggio di uscire fuori del coro e dire ciò che tutti pensano ma non dicono per pochezza di intelligenza, per calcolo politico, per conformismo alle opinioni e ai convincimenti dei politici che governano l’Europa, amanti molto di più della retorica e della ipocrisia che della determinazione di agire con forza per sconfiggere la barbarie che minaccia  e sopravanza ormai la nostra millenaria Civiltà greco-romana e cristiana.

Basti considerare che in Belgio, dove è presente una numerosa comunità islamica, sono state abolite nelle scuole, dal 2013, con un decreto del Governo, le Festività Cristiane del Natale, della Pasqua, di Ognissanti, per non offendere la sensibilità dei musulmani. Sono state sostituite, forzando perfino la lingua, dalle espressioni: “Vacanze d’Inverno”,Vacanze di Primavera” e “Vacanze di Autunno”. Cose paradossali ma non tanto, se solo consideriamo molti tentativi, già esperiti in alcune città d’ Italia, di levare il Crocefisso dalle aule delle scuole e dei Tribunali.

In nome del progressismo nostrano, tipico della maestrina di Montecitorio,  e della barbarie fondamentalistica, noi dovremmo recidere le radici della nostra civiltà e del nostro modo di essere, dovremmo cancellare nelle nostre scuole millenni di riflessione filosofica e scientifica,  dovremmo soccombere ingloriosamente perché “crociati”, cioè marchiati, secondo il linguaggio di queste belve, dalla croce di Cristo, dovremmo  suicidarci per fare spazio e tempo al fanatismo irrazionale più aberrante che la Storia dell’uomo e delle religioni abbia mai conosciuta, peggiore per molti aspetti della criminalità demoniaca dei campi di sterminio nazisti.

 Ma forse già è o tenta di essere una impresa demoniaca, come pensa di ammonirci qualche Padre della Chiesa o come ricorda, a detta di qualche altro, la profezia di Nostradamus, secondo la quale: “Roma sparirà e il fuoco cadrà dal cielo e distruggerà tre città. Tutto si crederà perduto e non si vedranno che omicidi; non si sentirà che rumori di armi e bestemmie. I giusti soffriranno molto. (…) Roma perderà la fede e diventerà il seggio dell’Anticristo. I demoni dell’aria, con l’Anticristo, faranno dei grandi prodigi sulla terra e nell’aria e gli uomini si pervertiranno sempre di più”.

Io, personalmente, sono più ottimista. Non inseguo queste fantasie, anche se molto spesso la fantasia nel divenire della storia ha precorso la realtà. Mi viene in soccorso, per formazione ed educazione, l’ottimismo della ragione e il convincimento della mia “verità cristiana”: “Portae inferi non praevalebunt” (Matteo 16,18): Le Forze del male non prevarranno.

D’altronde, per chi conosce un po’ di storia, sa molto bene che una Civiltà superiore non è stata mai vinta e debellata da una inferiore. Ci si figuri se la nostra Civiltà, di cui meniamo gran vanto e con cui abbiamo civilizzato gran parte delle terre ecumeniche, possa essere distrutta non da un’altra Civiltà ma da una barbarie, per quanto feroce e sanguinaria si manifesti. 

Devono determinarsi i Nostri Governanti d’Europa, unita o disunita che sia, i quali hanno dimostrato a tutt’oggi di essere incapaci di comprendere che a noi è toccato di vivere questa nostra epoca. Essi e non altri hanno l’obbligo soprattutto morale di assumersi tutte la responsabilità dell’ora presente per evitare il ripetersi di una grande tragedia storica, già successa con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Enrico Mentana ricorda, cogliendo un pertinente parallelismo, che furono le politiche di appeasement - cioè di arrendevolezza, di accomodamento  - del Primo Ministro inglese, Neville Chamberlain,  e del primo Ministro francese, Daladier, le dirette responsabili  che diedero origine all’immane conflitto del 1939-1945, cedendo con la Conferenza di Monaco alle folli pretese e all’arroganza di Hitler, che aveva già nei cassetti i piani di occupazione della intera Europa.

 Nella notte, infatti, del 30 Settembre del 1938, a Monaco di Baviera,  Hitler, Mussolini, Daladier, Primo Ministro francese, e Neville Chamberlain, Primo Ministro inglese, firmarono un finto accordo per salvare la pace in Europa.

In verità, fu l’atto più infame ed imbelle che i due Primi Ministri, francese ed inglese, con la complicità e i calcoli, sbagliati ed opportunistici, di Mussolini, potessero compiere per assecondare le mire del dittatore nazista.

Questi, infatti, persuaso dell”arrendevolezza” dei Governi inglese e francese, interpreta cinicamente la favola del Leone, che, assegnando le parti della sua divisione agli altri animali, decide perentoriamente: “Questa è mia perché mi tocca di diritto, quest’altra è mia perché sono il re degli animali, quest’altra ancora è mia perché …., ed infine quest’ultima è mia, perché <guai a chi la tocca>”. 

Così Hitler, nell’arco di undici mesi, a partir dalla conclusione della Conferenza di Monaco, dove le democrazie occidentali gli cedono, seduta stante, il territorio dei Sudeti, scatena la più grande tragedia del Mondo intero, occupando con le sue agguerrite Armate, nel marzo del 1939, la Boemia e la Moravia in Cecoslovacchia.

Dal 1° Settembre 1939, invade poi la Polonia, che spartisce con la Russia sovietica, dopo il Trattato di non Aggressione del 23 agosto 1939, stipulato,  con il consueto cinismo dei tiranni, da Hitler e Stalin e firmato dai rispettivi Ministri degli Esteri Ribbentrop e Molotov. Così, nella Primavera del 1940, in rapida successione, la Germania nazista farà strame dei Paesi Scandinavi, del Belgio, del Lussemburgo e della Francia, allestendo infine l’operazione “Leone Marino”, mirante a invadere, nell’estate del 1940, l’Inghilterra, ma che non porterà mai a buon fine.

Era l’inizio della fine della invincibilità del Nazismo.

Hitler troverà finalmente sul suo percorso inarrestabile di conquista  dell’Europa la intransigenza irremovibile di un solo uomo: Winston Churchill, che, nel maggio del 1940, appena nominato Primo Ministro,  in un suo celebre discorso ai suoi connazionali delineava un programma di “lacrime, sangue, travagli, lacrime e sudore”; ….“la guerra per mare, per terra e nell’aria, con tutte le nostre energie”; ….“la vittoria a tutti i costi ….. per quanto lunga e dura possa essere la strada”.

Così, oggi, alla luce degli esempi più emblematici del passato, anche se la Storia non si ripete mai pedissequamente, ma sempre insegna a non sottovalutare i rischi e a prevenire le tragedie che minacciose si stagliano sull’orizzonte, per spazzare via la barbarie, non abbiamo bisogno di politiche di appeasament.

Abbiamo bisogno di politiche più energiche, reclamate ormai da più parti,  che sappiano orientare le responsabilità dei Governi.  Le guerre e gli scontri fra gli Stati vanno sempre scongiurati, ma la difesa della esistenza dei cittadini e delle genti deve essere un esercizio quotidiano di lungimiranza laica e razionale, che persegue il buon senso e la determinazione coraggiosa a non sopportare i belati e i finti ruggiti di chi azzanna impunemente qua e là, in mezzo alle folle inermi.

 
 
 

SU PADRE PIO

Post n°68 pubblicato il 09 Febbraio 2016 da giulio.stilla

SU PADRE PIO

 

Mi è capitato, in questi giorni di grande manifestazione di devozione religiosa per PADRE PIO, che ha accompagnato la traslazione del Santo del Gargano da San Giovanni Rotondo a Piazza San Pietro, a Roma, di leggere contumelie, volgarità ed imbecillità su certi giornali, riconducibili ad una certa area politica e sociologia di Sinistra. Mi riferisco, in particolare, a spezzoni di florilegi riportati da alcuni giornali:

 

< La folle sinistra anticlericale: "Padre Pio come Isis e Hitler"

La sinistra non manda giù la devozione popolare che sommerge d'affetto la salma di Padre Pio. Toscani paragona i fedeli ai nazisti, mentre il Fatto Quotidiano attacca: "Il Medioevo è questo, non l'Isis" Parte dell'opinione pubblica di sinistra invece, resta allergica a queste espressioni della devozione popolare e non esita a condannarle (con quale autorità, ce lo devono ancora spiegare) come superstizioni e bigottismo. In prima fila fra i fustigatori della morale c'è il (a suo dire) laico Oliviero Toscani. Che, amando sollazzare le folle con gli insulti alla fede altrui, è riuscito nell'impresa di bollare Padre Pio come un "uomo marketing della religione", i cui resti mortali sono "una mummia che fa esteticamente schifo".    

Non pago, ha rincarato la dose tracciando un paragone tra i fedeli del frate santo e i seguaci del nazismo. Di fronte alla domanda di uno sbigottito David Parenzo (il tutto andava in onda sulle frequenze di Radio 24), Toscani insiste: "Cosa c'entra Padre Pio col nazismo? È uguale, preciso, identico".

Questa mattina al fotografo che si vuole iconoclasta faceva il verso il Fatto Quotidiano, che in prima pagina esordiva con un titolo sobrio: "Altro che Isis, il Medioevo è già qui grazie a Padre Pio." Dimenticando che le bandiere nere tagliano le gole. E i fedeli di Padre Pio vogliono solo dire una preghiera.>

 

 

Le risposte critiche di molti "laici", intese a tutelare la civiltà cristiana, compresa, in particolare, la cristianità medievale, ai commenti imbecilli di certi "uomini di cultura" di sinistra, denunciano lo stato di indifferenza, direi comatoso, in cui vengono a trovarsi certi cattolici dei nostri tempi, che non osano più difendere il proprio “credo”, non dico con passione ed energia paolina, ma almeno come timido rispetto del  forte sentimento di devozione per la Santità di Padre Pio, che ha mosso in questi giorni, la sensibilità religiosa di milioni di fedeli in tutto il mondo.

Sembra proprio che tutte le idiozie che vengono pubblicate da certi giornali di Sinistra debbano essere accettate, con sudditanza psicologica e culturale, da un certo orientamento ecclesiale,  come distillati di straordinaria intelligenza critica, dettati dallo stravolto ed abusato Verbo illuministico, per il quale tutto ciò che non è rischiarato dalla "ragione" miscredente, atea, marxiana e comunista deve essere gettato come spazzatura nella discarica maleodorante della superstizione, del bigottismo, del fanatismo, e della incultura medievale.

E’ la triste conferma che la Chiesa di Roma, nel corso della Storia, ha sempre preferito dialogare con gli atei e i miscredenti e mandare al rogo gli eretici.  

Questi strani soggetti, che denigrano il Medioevo, lo fanno, perché sono ignoranti. Non hanno mai studiato la grande Età di mezzo, che ha difeso e conservato nei propri Monasteri e Centri di sana religiosità cristiana la civiltà umanistica greca e romana, resistendo con straordinario eroismo alla furia distruttiva e iconoclastica dei Barbari, che per sette, otto lunghi secoli, fino alla Civiltà dei Comuni, imperversarono in tutta Europa e, in particolare, sulla Penisola italica, facendo quasi terra bruciata della fulgida Civiltà di Atene e di Roma.

Se non fosse stato per la straordinaria Opera teologica, filosofica, storiografica, enciclopedica dei Padri della Chiesa e degli Scolastici, dalla Patristica alla Scolastica  -   dal 200 al 900, dal 900 al 1350, da Origene, Clemente Alessandrino, Giustino, Agostino, Boezio, Giovanni Scoto Eriugena, a Pietro Abelardo, Anselmo d’Aosta, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Duns Scoto, Guglielmo di Ockham, fino al 1500 con Marsilio da Padova e Niccolò Cusano  -   l’Umanità sarebbe stata privata di un immenso ed inestimabile patrimonio di Cultura classica, umanistica e cristiana, donde la consapevolezza fortemente fondata di affermare in tutte le sedi istituzionali europee le radici cristiane dell’EUROPA, nonostante la ritrosia non affatto giustificata ed intellettualmente onesta di certe posizioni antistoriche che persistono nel vecchio nostro continente.

Mi riesce, però, abbastanza facile ricordare a questi smemorati della Sinistra che in nome della Ragione, assetata di certezze e di evidenze dimostrative, furono torturati e mandati al supplizio, prima nel corso del IXX Secolo, al grido della  Liberté, Égalité, Fraternité, milioni di persone, irrorando di sangue tutte le zolle d’Europa, e poi, nel corso del XX Secolo, sono stati trucidate altre centinaia di milioni di persone, in nome della scientifica Ragion di Stato, nazista e comunista.

Personalmente, preferisco il sano bigottismo di migliaia di Gruppi di Preghiera di PADRE PIO, operanti in tutto il Mondo, che in nome della Fede ma anche della Ragione, intrisa di Logica e di Amore  anche per certi miseri di cuore e certi scienziati  Intellettuali di Sinistra, adorano ed invocano le Santità per alleviare le sofferenze di tutti ed allontanare le minacce orribili delle belve dalle sembianze umane che pure non mancano nei nostri giorni.

Altro che bigottismo e superstizione.

La Ragione, quando non è illuminata dal Cuore e dall’Amore, direbbe un altro Santo dei nostri tempi, Giovanni Paolo II, sorretto dalla Fede e dalla conoscenza di grandi filosofi della Storia, brancola nelle tenebre ed è incapace di dare un senso e un orientamento di vita all’esistenza di ciascuno.

Ci si figuri se bisogna lasciarsi intimidire da quattro scriteriati giornalisti, atei e miscredenti, che, abusando della espressione della Ragion Scientifica, si arrogano il diritto di assumere la maschera carnascialesca di persone illuminate ed emancipate dalle diverse forme di superstizione e di bigottismo.

Ma lo scandalo non è di questi stravaganti Soggetti, ammalati di fanatismo pseudo- culturale e pseudo-politico, ma di tutti coloro che, pur predicando il Verbo del Vangelo, non osano bisbigliare una parola di condanna, sui loro giornali cattolici, delle stupidità e degli insulti, che affiorano in particolari aree della cosiddetta Sinistra illuministica. contro la pietas di milioni uomini di fede.

Lasciano volentieri questo compito a persone “laiche” come me, che pure non sono un campione di fede, ma sono, di certo, fortemente rispettoso del sentimento popolare, cioè del sentimento del popolo, attraverso cui si rivela la Storia, la Scienza, l’Umano e il Divino.

 
 
 

LA SCELTA (4)

Post n°67 pubblicato il 02 Dicembre 2015 da giulio.stilla

 

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD  (4)

 

Nasce così la scelta religiosa, il terzo stadio esistenziale; nasce il dono della fede e l'abbandono alla preghiera, in virtù delle quali l'uomo religioso combatte e supera

 l'angoscia e la disperazione, che sono due delle molteplici situazioni d'animo  tipiche dell'esistenza umana: causata, la prima,  dalla coscienza della propria limitatezza, esposta alle possibilità più negative e indeterminate; la seconda, originata dall'assenza di ogni speranza e caratterizzata da uno stato di forte inquietudine.

L'angoscia, argomenta Kierkegaard nella sua opera, "Il concetto dell'angoscia", è strettamente legata al sentimento del possibile, che nella sua assoluta indeterminatezza ed onnipotenza getta l'uomo in uno stato di ansia e di paura non per quello che già è accaduto, ma per quello che potrebbe accadere.

La categoria della possibilità riguarda il futuro e non il passato o il presente, perché quello che è già accaduto non suscita angoscia. Può provocare pentimento. rammarico, sofferenza, ma non angoscia, che insorge nell'animo umano in maniera irrazionale e imprevedibile. Anche quando abbiamo fatto con "accortezza" tutti i calcoli, abbiamo preso tutte le cautele, irrompe l'angoscia, perché essa appartiene alla dimensione 'uomo'. Soltanto gli animali non hanno angoscia, perché il loro grado di consapevolezza di esistere è così inesistente che non fanno progetti e non vivono l'attesa di ciò che si potrebbe verificare.

L'angoscia appartiene all'Umanità. Appartiene alla Umanità di Gesù Cristo, che non ha angoscia nel momento della crocifissione, quando geme e "grida a gran voce: Elì. Elì, lemà sabactàni ?, che significa: Dio mio,  Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Matteo, 27, 45-46).

In questi momenti, ha soltanto sofferenza, che è diversa dall'angoscia che occupa l'animo di Cristo, quando, nell'orto di Getsemani, ossia nell'Orto degli Ulivi, così come spiega Kierkegaard sempre nel Concetto dell'angoscia, si rivolge a Giuda, dicendogli: "Ciò che tu fai, affrettalo!".

L'angoscia regna sovrana e incontrastata nel regno delle possibilità che sono infinite, ma basta pensare a una sola possibilità negativa, perché tutte le altre, per quanto positive e favorevolmente promettenti, vengano angosciosamente vanificate ed annientate. Nello stesso regno delle possibilità alligna come un'erba tossica e mortale la disperazione, la quale, a differenza dall'angoscia, generata dal rapporto che l'uomo stabilisce tra sé e il mondo, si origina dal rapporto che l'Io instaura con se stesso.  

La disperazione è una situazione spirituale che riguarda la struttura interiore dell'uomo. Viene analizzata dal filosofo in due aspetti diversi, ma sempre radicati nel modo di essere dell'io. Esiste la disperazione che scaturisce dalla deficienza di necessità, come quando il proprio "io" vola libero nelle zone della fantasia e dell'immaginazione, senza alcun legame con la realtà. Oserei dire che è l'evasione tipica di che resta vittima della droga. Nel tentativo impossibile di essere autosufficiente, ci si consegna alla fuga verso il miraggio, nell'evanescenza del proprio io, che smarrisce se stesso nel dominio della non speranza.

Esiste poi la disperazione che si origina dalla deficienza di libertà. Cioè, nel tentativo di voler essere quello che non si è, si urta contro se stesso, contro quello che si è. E' la tipica situazione psicologica di chi non si accetta finito e non autosufficiente e, nel desiderio irrefrenabile di voler essere altro da sé, si dispera nell'impossibilità.

La disperazione è la malattia mortale di cui parla Kierkegaard nella sua opera fondamentale che porta, per l'appunto, il titolo programmatico "La Malattia Mortale", che nasce e si sviluppa, in particolare, quando non è contrastata dalla Fede, perché per il filosofo la fede è l'unico antidoto efficace per superare l'angoscia e la disperazione, due facce della stessa medaglia, due componenti della struttura spirituale dell'uomo.

Ci piaccia o non ci piaccia, credenti o non credenti, tutti dobbiamo misurarci con la nostra interiorità. Si assiste spesso all'atteggiamento dell'uomo che coltiva l'ironia, ironia graffiante, in virtù della quale finisce per non considerare tutti gli enti finiti, ma infinitizza il proprio "io". Una operazione assolutamente sbagliata per il Cristiano, perché è il tipico convincimento di chi tenta di essere autosufficiente ed assoluto e precipita poi, come si è detto, nella impossibilità di esserlo e, quindi, nella disperazione.

L'uomo di fede, invece, considerando le cose finite sempre come mezzi e mai come fini, non eleva nemmeno se stesso, il proprio io, a soggetto assoluto ed infinito e, riconoscendo la propria insufficienza, si fa dipendere da Colui al Quale tutto è possibile. E' l'atteggiamento tipico di chi dispone di un grande senso di humor, in virtù del quale svuota di significato ultimo tutti gli enti finiti, sorride di essi e di se stesso si consegna all'unico Ente Assoluto, perché capisce con ragione e crede con fede, sincera e determinata, che con Lui soltanto e per mezzo di Lui può salvare la sua esistenza.

Non è questa, però, la posizione autentica di Kierkegaard, che, come Biagio Pascal, non affida alla ragione, sia pure "umoristica", la sede della fede che "è un dono di dio e non di un ragionamento" (Pascal, Pensieri, 279).

Per il filosofo di Copenhagen la fede è un mistero, che come tale spesso si presenta come assurdità, scandalo, contraddizione e paradosso e fa dire al credente, nonostante tutto : "Credo" e non già "Scio" (Pascal. Pensieri, 248).  Tertulliano.

La figura più plastica e rappresentativa del carattere scandaloso e paradossale della fede è quella di Abramo, che ubbidisce al comando divino di salire sul monte e di sacrificare a Dio il figlio Isacco, il suo unico figlio, in netto contrasto con le leggi di natura e le leggi morali. Ma interviene per tempo l'Angelo di Dio che gli ingiunge: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figlio". (Genesi, 22, 12).$$$$$$$$$$$$$$$$$

A dire il vero, tutti gli articoli di fede, le sue categorie fondamentali, non sono pensabili sul piano della logica, del puro ragionamento. E' assurdo e scandaloso che il figlio di Dio si faccia uccidere sulla Croce. E' assurdo e contraddittorio sul piano logico che il Dio dell'Amore possa permettere l'esistenza del Male nel mondo. E' assurdo, impensabile e contraddittorio che il Dio della Misericordia possa consentire il ripetersi scandaloso delle stragi degli innocenti. Ma nonostante tutto questo, l'uomo di fede crede e si rifugia nel seno di Dio, perché la fede è, si, mistero, ma è anche consolazione, conforto, redenzione, libertà dal male, dall'angoscia e dalla disperazione.

Il Cristianesimo - riflette ancora Kierkegaard -  insegna il senso dell'esistenza, perché come la fede anche l'esistenza è "assurdità", "contraddizione" e "scandalo". Quanto più ci si rifugia nella fede, tanto più s'impara a vivere l'esistenza. Quanto più si ricorre alla preghiera, tanto più abbiamo la inserzione di Dio nel Mondo, nel Tempo, nella Storia, nell'Umano. Sembra proprio che Dio ami talmente il mondo e le sue creature da riporre nel rispetto illimitato per la libertà dell'uomo, creato a sua immagine, il rischio della non scelta della fede ossia la libera iniziativa di non pregare per vincere ed abbattere la presenza del Male fra gli uomini. In altri termini, Dio per il filosofo danese non sarebbe soltanto una grande Epifania di Amore, ma si manifesterebbe altresì tramite la scelta libera dell'uomo, connessa alla sua ragione e alla sua responsabilità, e tramite la preghiera connessa al dono della fede.

 Se Dio non avesse voluto correre questo rischio, il rischio cioè della libertà dell'uomo, non Gli sarebbe mancata la capacità di predeterminare la sua condotta attraverso un sistema di regole, che avrebbero sacrificato non solo la sua libertà, ma anche la sua moralità e la sua responsabilità nel saper discernere il bene dal male. Se Dio non ci avesse creato assolutamente liberi, non ci sarebbero stati né i credenti né i non credenti, né la scelta del bene né la scelta del male, né la ragione né il fanatismo assassino del nostro tempo.

Pe compensare, però, questo rischio della libertà, ci ha dato il cuore che è l'organo della preghiera e della fede, anche se, molto spesso, capita di assistere al sopravvento dell'odio sull'amore, della morte sulla vita, della follia demoniaca sullo spirito del Mondo. " Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre piú che la luce, perché le loro opere erano malvagie" (Giov. III, 19).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Traduzione

Post n°66 pubblicato il 02 Dicembre 2015 da giulio.stilla

 

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD  (3)   

 

 Il filosofo che ha precorso, nella prima metà dell'Ottocento, l'avvento della grande sensibilità esistenzialistica del Novecento, è stato Soren Kierkegaard, nato a Copenhagen, nel 1813. Visse per 42 anni una vita combattuta da drammatiche vicissitudini interiori, generate quasi sempre da un profondo convincimento di portare "una scheggia nelle carni", inferta da un inspiegabile destino famigliare, che lo rendeva incapace di decidere, di operare una scelta, perché qualsiasi scelta avesse intrapreso, anche la più piccola e insignificante, gli sembrava carica di terribili incognite e di oscure minacce, che lo tenevano fermo al "punto zero".

Al "punto" senza scelte, drammaticamente inchiodato in una sorta di paralisi psicologica, senza via di scampo, in un fervido contesto di profonde riflessioni sulla vita degli uomini, sempre avvertita come esperienza assurda e contraddittoria.

Tuttavia, se a lui le possibilità assolutamente negative dell'esistenza gli impedivano la "scelta", una qualsiasi scelta che fosse foriera di altre prospettive in una sequela di tappe e di conquiste, tutta la sua opera meditativa  -  racchiusa in libri   come "Aut-Aut", "Timore e Tremore", "Il concetto dell'angoscia", "La malattia mortale"  -   è concentrata sui concetti caratterizzanti l'esistenza, intesa e definita come "singolarità", "possibilità", "scelta", "angoscia", "disperazione" e "fede".

Sono le sei grandi categorie fondamentali dell'esistenza, con le quali ogni singolo uomo deve misurarsi, perché ogni uomo nella sua assoluta singolarità e in solitudine, tra le innumerevoli possibilità, deve maturare quotidianamente le sue scelte, sempre drammaticamente esposte al rischio.

Le scelte dell'esistenza, ovvero gli stadi più importanti, che ogni singolo è chiamato a percorrere dalla visione complessiva che egli ha della vita, sono: a) lo stadio estetico, b) lo stadio etico, c) lo stadio religioso.

Lo stadio estetico è la scelta esistenziale del Soggetto che si orienta a vivere la vita in maniera estetizzante, secondo la componente più accentuata di una certa sensibilità dacadente, direi dannunziana o oscar wildiana. Perseguire, cioè, l'impegno raffinato di vivere la vita come arte e l'arte come vita. Una vita eccezionale e non ripetitiva, finalizzata a rendere se stessa una esclusiva forma d'arte, dotata di particolare sensibilità per la bellezza, superiore ad ogni forma di razionalità e sorda a qualsiasi richiamo alle istanze elementari del realismo filosofico e morale.

Il principio fondamentale di chi è impegnato a vivere una vita estetica è "l'arte per il gusto dell'arte". E' l'estetismo tipico delle opere di Oscar Wilde o dei personaggi dei romanzi del D'Annunzio, come quello dell'esteta Andrea Sperelli, che, nel romanzo "Il

Piacere", "era per così dire tutto impregnato d'arte [...]. Dal padre appunto ebbe il

culto delle cose d'arte, il culto spassionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizi, l'avidità del piacere." (G. D'Annunzio, Il piacere, libro I, cap. II)

Interpretava "vita come si fa un' opera d'arte... La superiorità vera è tutta qui... La volontà aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Codesto senso estetico...gli manteneva nello spirito un certo equilibrio...Gli uomini che vivono nella Bellezza, ... che conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della bellezza è l'asse del loro essere interiore, intorno a cui tutte le loro passioni ruotano". ( G. D'annunzio, il Piacere, libro II, cap, II).

E' l'estetismo che il vate di Pescara intendeva rappresentare nell'apparato scenico del "Vittoriale degli Italiani".

E' il Don Giovanni, il seduttore, " Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni" - opera lirica dell'austriaco Wolfgang Mozart - il quale, animato da un amore estremamente sensuale, vive la sensualità con immediatezza e infedeltà, momento per momento, escludendo la ripetizione e la noia. Per lui vale la raffinata ricerca del piacere, così come scrive il filosofo Nicola Abbagnano: <"Godi la vita e vivi il tuo desiderio" insegna l'esteta, per il quale "ogni donna non è che uno spunto poetico" messo al sevizio della propria raffinata ricerca del piacere>. ("Itinerari di filosofia", vol.3°, Paravia, pag.39).

 Per il Don Giovanni, il seduttore, non ci sono valutazioni etiche che possano ritardare il piacere. Egli esclude ogni riflessione ed ogni ripensamento di carattere morale. La sua scelta estetica è una scelta senza impegno, vuota di significato, senza senso e senza progetto e, perciò, priva di responsabilità. Ma una scelta non dettata dalla responsabilità non è una scelta di libertà. Non esiste, infatti, libertà senza responsabilità, che orienta verso una meta etica e opera discernimento, sinderesi, capacità di distinzione tra il bene e il male. Lo sbocco finale di una scelta estetica è la noia che introduce alla disperazione. Una scelta cioè senza speranza, tipica di certi "amanti", che, avendo perduto il fascino della giovinezza, in preda al disincanto e alla disillusione, approdano, come dopo una navigazione burrascosa, sulla sponda della inquietudine e delle disperazione. Mi sovviene alla mente l'aforisma dei nostri padri, che, ben conoscendo, per memoria empirica, la dispersione dei valori morali nella conduzione di una vita esteticamente sensuale, erano soliti affermare: "Puttane e cavalli di carrozza, buona gioventù e mala vecchiezza". Anche se, in verità, l'esteta di Kierkegaard, in balia della disperazione, non aspetta il sopraggiungere della vecchiaia per accorgersi che una vita senza progetto morale non è degna di essere vissuta.

Ecco allora il salto di qualità dallo stadio estetico a quello etico. Questo passaggio, argomenta il filosofo danese, non è un passaggio di carattere evolutivo. Cioè, non si passa dalla vita estetica a quella etica per induzione graduale. C'è bisogno di rottura, di ribellione alla vita precedente, priva di senso, e saltare nel campo della scelta radicale e definitiva della vita etica, dominata da responsabilità ed animata da valori assiologici e leggi morali, che portano alla scelta assoluta, tipica della vita normale.

 



 

 

Non è più la vita dell'amante infedele, che come un'ape sugge di fiore in fiore il nettare del piacere, per l'affermazione di una vita eccezionale. Per la scelta etica la eccezionalità risiede nella vita normale di tutti, che scelgono il matrimonio, sapendo che questo è regolato dall'impegno quotidiano di essere padre e marito fedele.

Questi per una scelta di libertà si sottopone alle leggi della responsabilità e della moralità, perseguendo costantemente l'impegno a realizzare il progetto che si è dato per la edificazione della famiglia etica.

La scelta etica è una scelta assoluta, non permette deroghe e deresponsabilità, si vive per essa fino a quando la consapevolezza dell'impegno etico non si traduca in anelito di Infinito, che è latente nel cuore di ogni uomo. Se la scelta etica è una scelta assoluta, allora l'uomo etico che anela all'Infinito non può non pentirsi della presenza del male nel mondo. Per la sua storia di appartenenza al genere umano non può non sentirsi in colpa per tutti i crimini che hanno irrorato di sangue le zolle tutte della Terra. Egli si avverte corresponsabile di tutti gli orrori della Storia. Non può chiamarsi fuori, per es., dallo genocidio degli Ebrei. Non può sentirsi estraneo alla esaltazione, ideologica o pseudo-religiosa che sia, della barbarie jihadista e della volontà demoniaca della morte che sprezza violentemente la vita, come avviene, in tutta Europa e nel mondo, in questi terribili giorni battuti da minacciosi venti di guerra. Per l'appartenenza allo stesso genere umano vittime e carnefici, martiri ed aguzzini, sono accomunati allo stesso beffardo destino, che getta l'uomo etico nella fucina rovente del pentimento.

Quando Kierkegaard maturava e scriveva questi pensieri, essendo vissuto nella prima metà dell'Ottocento, non poteva conoscere gli orrori delle due Guerre Mondiali e la truce barbarie jihadista del nostro tempo. Ma penso che se avesse conosciuto, in particolare, l'assurdità che migliaia di giovani ventenni, nati e cresciuti nel cuore della vecchia Europa  - in Francia, in Inghilterra, nel Belgio  -   sono stati assoldati da forze demoniache per diffondere il terrore nelle capitali europee e imbrattare di sangue innocente le coscienze più evolute della nostra civiltà laica e cristiana..... io penso che il filosofo di Copenaghen avrebbe indugiato con più forza sul concetto che l'uomo etico,

Il filosofo avrebbe rimarcato, certamente, il concetto del pentimento, che occupa il cuore e la mente dell'uomo etico, costretto a chiedersi in quale ambito, educativo, formativo, sociale e spazio-temporale, avrebbe sbagliato tanto da popolare la Terra di mostri. E, non trovando alcuna risposta convincente a questo drammatico interrogativo, l'uomo etico capisce che il pentimento non cancella le colpe, l'angoscia e la disperazione. Che ben venga, però, il pentimento e tutto ciò che ne consegue, riflette Kierkegaard, perché con il pentimento nasce quella rottura profonda con il proprio passato e il salto sicuro e definito dallo stadio etico a quello religioso. (Continua)

 

 

 

 

 
 
 

La secelta 2

Post n°53 pubblicato il 01 Dicembre 2015 da giulio.stilla

 

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD     (2)

 

Certo, bisogna scegliere. La scelta è una strada a senso unico, è d’obbligo. Non si può non scegliere. Anche la scelta della non scelta è una scelta. Ogni scelta comporta un rischio. Personalmente, ritengo di aver scelto, riducendo il rischio a zero. Cosa rischia, infatti, si domanda Pascal, l’uomo di fede? Rischia forse la sua libertà di fare il male a se stesso e agli altri? Rischia forse di privarsi di una vita fatta di sfrenate passioni materiali, di insaziabili cupidigie, di irrefrenabili ansie per l’esercizio delle    prepotenze,  delle violenze, dei soprusi, ecc. ecc., che, messi tutti insieme, non hanno mai edificato la felicità di nessuno? Bisogna avere una intelligenza opaca, molto obnubilata o, comunque, assai compromessa dalla corruzione dei retti costumi per non accorgersi della stupidità di imbroccare sentieri che non portano da nessuna parte, perché sono interrotti dalle autolimitazioni di chi li percorre, sono senza speranza, sono senza prospettive extratemporali e, chiusi dentro gli angusti orizzonti di tutte le entità finite, non consentono di volare per l’Infinito.

Ma l’uomo è nato per l’Infinito; ad Deum creatus, scrive Pascal nei suoi “Pensieri”, per spiegare l’ansia di immortalità e di libertà che hanno forse tutte le creature e, in particolare, l’uomo, anche l’uomo che non ha il dono della fede, perché anche lui cerca  l’immortalità ovvero la libertà dal male e dall’ignoranza, ma la cerca nelle cose finite, dimentico che la dimensione dell’Infinito è già presente nel suo cuore, nell’esprit de finesse, che tutto comprende ed intuisce, anche se nulla dimostra.

Mi vengono in mente le sofferte parole scritte dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer nella poesia “Stazioni sulla via verso la libertà” (in ID, Resistenza e Resa, Quiriniana, Brescia, 2002, 531), poco tempo prima di essere ucciso, all’età di 39 anni, nel campo di Fossenburg, in Germania, dove era rinchiuso per aver preso parte alla cospirazione, organizzata dall’ammiraglio Canaris per assassinare Hitler.

La poesia a me sembra essere stata scritta profeticamente per le nostre giovani generazioni cosi desolate e prive di orizzonti, in tempi così stravolti da tante tragedie pubbliche e private, corrotti da tanti scandali, seviziati da gravosi malcostumi, e resi cupi e minacciosi da belve bramose di sangue, che vagano per la nostra vecchia Europa, diffondendo terrore e stragi di persone innocenti, come è accaduto recentemente a Parigi e in Mali,  per trucidare la nostra millenaria civiltà, la nostra grande tradizione umanistica, così laica e cosi cristiana.

Ma le forze del male non prevarranno: “… et portae inferi non praevalebunt”  (Matteo 16,18).

Nessuno può pensare che taluni branchi di mentecatti possano distruggere con atti demenziali di guerriglia terroristica millenni di Civiltà greco-romana, cristiana, umanistico-rinascimentale ed illuministica, emblematicamente riassunti dalla musica e dal canto della Marsigliese e di “Va, pensiero, sull’ali dorate” dal Nabucco di Giuseppe Verdi, a Place de la Republique, a Parigi, per la commemorazione dei caduti del 13 Dicembre,  e dalla musica dell”Inno alla Gioia” dalla Sinfonia n.9 di Beethoven, a Piazza San Marco, a Venezia, per commemorare la giovane studiosa italiana, Valeria Solesin, anche lei colpita a morte dai barbari jihadisti.        

 

 

La poesia di Bonhoeffer è uno straordinario inno alla Libertà, indirizzato, dicevo, quasi profeticamente alle nostre generazioni, e raccolto idealmente nella stessa notte della strage dai giovani parigini che, uscendo dallo stadio di calcio, sconvolti dalle notizie del terrore jihadista, intonavano la Marsigliese, un altro glorioso inno alla Libertà della Francia.

La libertà - celebra Bonhoeffer -  è una conquista quotidiana, bisogna lottare per essa ogni giorno attraverso l’esercizio della “Disciplina”, dell”Azione”,  della “Sofferenza” e, infine, della “Morte”: Libertà, a lungo ti cercammo nella disciplina, nell’azione e nella sofferenza. / Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.

 

 

 

 



STAZIONI SULLA VIA VERSO LA LIBERTÀ

 

Disciplina. Se tu parti alla ricerca della verità, impara soprattutto / la disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri / e le tue membra non ti portino ora qui ora là. / Casti siano il tuo spirito e il tuo corpo, a te pienamente sottomessi / ed ubbidienti, nel cercare la meta che è loro assegnata. / Nessuno apprende il segreto della libertà, se non attraverso la disciplina.

Azione. Fare ed osare non qualsiasi, ma il giusto / non ondeggiare nelle possibilità, ma afferrare coraggiosamente il reale / non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà. / Lascia pavido esitare ed entra nella tempesta degli eventi / sostenuto solo dal comandamento di Dio e dalla tua fede / e la libertà accoglierà giubilando il tuo spirito.

Sofferenza. Straordinaria trasformazione. Le tue forti, attive mani / sono legate. Impotente, solo, vedi la fine / della tua azione. Ma tu prendi fiato, e ciò che è giusto poni / silenzioso e consolato, in mani più forti, e sei contento. / Solo un istante attingi beato la felicità / e poi la consegni a Dio, che le dia splendido compimento.

Morte. Vieni, ora, festa suprema sulla via verso la libertà / morte, rompi le gravose catene del nostro effimero corpo e della nostra anima accecata, / perché finalmente vediamo, ciò che qui c’è invidiato di vedere. / Libertà, a lungo ti cercammo nella disciplina, nell’azione e nella sofferenza. / Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.

 

Sono, queste,  importanti “stazioni” di vita che richiedono un normale impegno etico e una straordinaria fedeltà alla responsabilità, perché non esiste Libertà senza Responsabilità, verso se stesso e soprattutto nei riguardi degli altri.

Raccontano le biografie di Bonhoeffer che questo sacerdote di rara fede cristiana era solito affermare che era inevitabile aggredire il conducente che, alienato mentale, lanciava la sua automobile sul marciapiede per fare una strage di passanti. La esistenza di ciascun di noi è inconcepibile senza l’esercizio incessante della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. La nostra esistenza è coesistenza, che richiede giorno dopo giorno la necessità di progettarsi verso gli altri e in mezzo agli altri, per la edificazione di una società fatta di uomini liberi e razionali.

La nostra Libertà è fatta di scelte quotidiane, di piccole scelte ma che richiedono sempre grande senso di responsabilità e di fedeltà ai valori dell’Amore, della Giustizia, della Cultura, della Tradizione, della Religione, della Tolleranza, in altri termini, della Razionalità.

Ogni scelta, grande o piccola che sia, è sempre legata ad un rischio, tengono a sottolineare i filosofi dell’esistenza, che, sconcertati dalle sue infinite possibilità, concepiscono il rischio come possibilità sostanzialmente negativa. Si rischia nascendo, ma si rischia esistendo giorno per giorno anche prima di morire. Mutuando l’espressione “Il mestiere di vivere” – che non si apprende mai bene -  dal diario di Cesare Pavese, morto suicida nell’agosto del 1950, colgo l’occasione per ricordare non solo la tragica solitudine di un grande scrittore, a cui la vita era diventata un rischio insopportabile, senza senso, ma anche l’impegno che ogni uomo deve profondere ogni giorno per imparare ad interpretare e a vivere le grandi scelte dell’esistenza. (Cpntinua)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

La scelta

Post n°52 pubblicato il 01 Dicembre 2015 da giulio.stilla

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD    (1)

 

Se ci fermassimo a riflettere solo per alcuni minuti, in questi primi giorni di Avvento, in cui la speranza sta per diventare effettualità, sulla costrizione a scegliere nella nostra vita quotidiana per tutte le nostre necessità, i nostri bisogni, i nostri progetti, capiremmo subito che la intera nostra esistenza la si svolge sul piano inclinato della “scelta”. Non ne possiamo fare a meno. La nostra natura, la nostra emotività, la nostra razionalità è chiamata a scegliere. Noi possiamo decidere anche di non scegliere. Ma anche questo è una scelta. E’ la scelta della non scelta. Fin da quando il nostro “Io” raggiunge la consapevolezza di se medesimo, in particolare, nella fase più accentuata del suo egotismo, la scelta diventa una ragione obbligata di sopravvivenza o di non sopravvivenza. Tutte le nostre libertà sono strettamente legate alle nostre capacità di scelta. Spesso, durante la nostra esistenza, ci capitano circostanze in cui vorremmo non scegliere. E’ il nostro dramma. Dobbiamo scegliere, perché anche la non-scelta comporta un coinvolgimento totale della nostra persona, al quale è impossibile sottrarsi. Il nostro destino è tutto qui. La scelta è la nostra libertà. La nostra libertà è la struttura ontologica della nostra esistenza. La nostra libertà, però, non è soltanto un primato o un privilegio del nostro modo di essere, è anche un onere, perché ogni nostro atto è strettamente legato alla nostra intenzionalità, che ci richiama alla nostra responsabilità.

 Non esiste una libertà senza responsabilità. Noi possiamo anche rifuggire dalle nostre responsabilità e desiderare di vivere una vita di tedio, inconsapevoli del proprio destino, proprio come la “greggia” di pecore, invidiate dal Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, ma dovremmo rinunziare alla nostra natura, strutturata ontologicamente come “libertà”. Libertà di scelta ma anche scelta di libertà come scelta di responsabilità. Libertà e responsabilità sono le prerogative dell’essere uomo, distinto dall’animale il cui comportamento è strettamente legato alla sua natura istintiva.

 In verità, anche nell’uomo l’istinto svolge un ruolo importante sia nelle scelte irrazionali sia nelle scelte consapevolmente razionali. La natura dell’uomo è bidimensionale. E’ fatta di sensibilità e ragione, direbbe Kant. Ma alla base di ambedue le dimensioni vige incontrastato il criterio della scelta. Si sceglie per soddisfare il nostro appetito, si sceglie in funzione del nostro olfatto, del nostro senso tattile, dei nostri gusti, si sceglie, cioè, in funzione della nostra sensibilità, che sempre esige di essere razionalizzata, perché, sempre, ciascun di noi ha bisogno di giustificare le proprie azioni. Francesco Guicciardini direbbe che l’uomo, specie l’uomo italiano, persegue sempre il suo “particulare”, che non sempre collima con la scelta razionale. Atteggiamento tipico della cultura storica del nostro Paese, donde deriva il carattere individualistico di noi Italiani, sempre pronti a fomentare le più esasperate litigiosità e divisioni, volte a creare particolarismi di tipo politico, sociale, religioso e localistico. E’ il carattere collettivo di un popolo allo stadio ultimo della sua storia millenaria, fatta di tante sovrapposizioni culturali e linguistiche, che non hanno mai consolidato o amalgamato le opposte differenziazioni in una superiore e comune intelligenza che conservasse e tramandasse tutti gli aspetti positivi delle diverse influenze storiche.

Ma forse è stata proprio questa eterogeneità di storie particolari e diversità culturali a creare il temperamento tipico dell’Italiano, sempre pronto a coltivare la fantasia, l’inventiva, la creatività, che genialmente si esprime in molte forme della vita civile: nella moda, nell’arte, nella ricerca scientifica, ma anche nella politica, che, oggi, in verità, non viene più considerata come attività nobile della nostra società per via della dilagante corruzione degli apparati dello Stato e della burocrazia, che mette in serio pericolo la nostra fragile democrazia.

In democrazia, però, si sceglie. La scelta è l’anima della democrazia. Il cittadino che non ha la possibilità della scelta non è nemmeno un cittadino ma uno schiavo. Organizza la sua esistenza in maniera angusta, non si espande in libere attività di pensiero e manifestazioni di spirito, perché, intimorito da una volontà estranea alla sua intelligenza, non è libero e soffoca le sue ansie di creazione e di operosità, con gravissime conseguenze negative sulle linee evolutive del progresso e dello sviluppo sociale ed individuale.

La scelta è a fondamento della esistenza dell’uomo, perché scegliere significa progettare e progettare significa esistere, come ci insegna la filosofia esistenzialistica, la quale, risalendo all’etimo latino exsistere con il significato di emergere, saltar fuori, progettare, trova la consonanza semantica e concettuale tra scegliere, progettare ed esistere. Difatti, non esiste una esistenza senza scelta e senza progetto, a meno che non sia la vita di una pianta o di un animale che si lascia nascere, crescere e vivere dalla forza naturale dell’istinto. Tutti gli esseri vivono, ma soltanto l’uomo esiste, come riflettono le filosofie esistenzialistiche del Novecento.

L’uomo, fin dall’età della consapevolezza di sé, del proprio “io”, cioè della propria autocoscienza, della propria appercezione trascendentale, direbbe Kant, prospetta e progetta a livello più o meno razionale il suo futuro. Si prende cura di sé: della sua vita quotidiana, del suo lavoro, della sua salute e del suo benessere spirituale, dei suoi piaceri e delle sue stagioni esistenziali. Progetta la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. Progetta anche la sua morte, se il senso del tempo che scorre e la volontà dell’Eterno lo inducono a riflettere.

Vivendo insieme con gli altri, nella famiglia e nella società, l’uomo si prende cura degli altri e delinea così la sua coesistenza. Cerca una compagna, crea una famiglia e lavora per sé e per gli altri in un contesto sociale dove si situano le abitazioni, le strade, i servizi, gli agglomerati urbani, le città, i luoghi di cura e le previdenze sociali. Esistere significa quindi coesistere. Nemmeno Dio ha inteso vivere da solo. Per Amore ha creato l’uomo e la sua libertà, progettando la Croce per una scelta di Eternità. Poteva anche non scegliere e non creare l’uomo a sua immagine, cioè a immagine della sua Intelligenza, della sua Spiritualità e della sua infinita Libertà. E’ stato costretto a farlo dal suo Amore. Deus Caritas Est. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato un Dio immobile, come il Dio di Aristotele, di una immobilità fredda, glaciale, simile alla indifferenza. Questo Dio, si, che ci avrebbe spaventato e ci avrebbe gettato fra le braccia della disperazione e del dolore.

 Il Dio di Gesù, invece, ha raccolto su di Sé tutto il male del mondo per condividere con l’uomo la sua finitudine e i suoi limiti in prospettiva dell’Infinito e della sua redenzione dal male. L’uomo si redime attraverso la sofferenza, condizione ontologica della sua esistenza e della sua Libertà. Nel Dio dell’Amore è riposta ogni nostra consolazione, ogni nostro conforto. Errano dalla retta via quelle creature che non hanno fede, che non credono nell’Amore di Dio, in nome di una loro presunta intelligenza matematica ed atomistica, in nome di una loro presunta superiorità intellettuale, che suggerirebbe loro di affermare la solitudine dell’uomo e la razionalità del Caso o del Caos. Una contraddizione in termini e in forme concettuali. O c’è Razionalità e Ordine o c’è Disordine e Caso. Delle due l’una è quella valida. Tertium non datur. Non c’è la terza soluzione. Se c’è o c’è stato Ordine e Razionalità, la ragione matematica ha un senso, perché si configura così la deduzione da una Intelligenza.  Ma se c’è o c’è stato Disordine e Caso, la ragione matematica non ha motivo per esistere, perché non deduce da un principio ordinante ma dal disordine.

E questo è una contraddizione in termini e in concetti.

 La ragione matematica, in altri termini, lungo i versanti dello scetticismo e dell’agnosticismo non ha mai spiegato l’uomo, la sua dimensione mentale e le sue sofferenze. La ragione matematica non ha mai spiegato il dolore del mondo, che ha una sola voce, un solo lamento, un solo belato, come la capra di Umberto Saba, poeta dell’Ermetismo italiano, il quale, per l’appunto, nella lirica che porta il titolo “La Capra” canta con struggente tristezza la universale condizione di dolore in cui vengono a trovarsi tutti gli esseri del mondo. Mi piace riportare alcuni significativi versi della rinomata poesia del Saba, che riprende in forma più sintetica ma con lo stesso patos il tema del dolore cosmico, già celebrato dal Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Dice la lirica del Saba:

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

 

La condizione del dolore è sostanza a tutte le creature, come canta il Leopardi nella chiusa del Canto notturno: “O forse erra dal vero, / Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / Forse in qual forma, in quale/ Stato che sia, dentro covile o cuna, / E’ funesto a chi nasce il dì nata le.

Forse, è funesto a chi nasce il dì natale; forse!  E il belato della capra, elevato dal Saba a simbolo del dolore cosmico, è fors’anche il lamento dell’Umanità che non sa spiegare la presenza del male nel mondo? Certo, se ci si affida alla ragione matematica, non ci si va da nessuna parte. L’agnosticismo, o meglio lo scetticismo, o meglio la negazione assoluta di un principio razionale, atto a spiegare l’assurdità del male e della sofferenza nel mondo, resta la strada obbligata.

Ma la ragione matematica non riesce spiegare nemmeno se stessa. L’esprit de géométrie, chiamato in causa da Blaise Pascal, non riesce a spiegare il principio primo del numero che resta di carattere intuitivo. Perché 2 + 2 fanno 4 ? Esiste una logica in tutto ciò? Si, è la nostra dimensione mentale, che la ragione matematica non riesce a spiegare. Figuriamoci, se riesce ad interpretare la sofferenza, a dare una spiegazione razionale alla presenza del male nel mondo, alla sua assurdità o al belato-lamento di una capra? L’Esprit de géométrie può, potrebbe, potrà spiegare o riprodurre il nostro cervello, ma non la nostra dimensione mentale, la nostra logica, che all’interno del male e dell’assurdo si muove con lo stesso criterio con cui procede nella ricerca scientifica. Se l’acqua bolle a cento gradi, la spiegazione è di carattere fisico-matematico. E’ l’Esprit de géométrie che opera la deduzione fisico-matematica.  Se insorge il male nel mondo è l’Esprit de finesse, cioè il Cuore, che ha una sua logica, una logica metarazionale, vocata a suggerire la spiegazione più confacente alla logica della mente. Se la ragione confessa i suoi limiti, dopo la ragione la spiegazione più razionale è data dal cuore, perché è il cuore, la saggezza del cuore, che conforta e che consola, che ama e che comprende, che palpita per l’Infinito.

Ogni uomo è inchiodato alla sua Croce, che bisogna imparare a portarla senza dar segni di cedimenti e di rivolta, prodigando aiuti e solidarietà alle croci degli altri in un cammino corale quasi sempre irto di difficoltà, di egoismi, di prepotenze, di usurpazioni. Esistono evidenti i segni della nobile dignità dell’uomo, che sopporta i mali del mondo, senza spirito di rivolta prometeica, come avviene per l’uomo del Camus, ma con lo spirito dell’Amore e il forte senso del Trascendente, come avviene per il Cristo sulla Croce.  (Continua)

 
 
 

La Società aperta (3b)

Post n°51 pubblicato il 11 Settembre 2015 da giulio.stilla

 

 

“LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI”       (3 b)

   ( MARX )                   di    K. R. POPPER

 

In conclusione della terza parte della disamina critica condotta sul pensiero di Marx, intendo dire che in  Inghilterra  nasceva e si consolidava lo Stato Sociale,  per tutto il 1800 e il 1900. La prima Legge sui poveri (Poor Law) risale al 1601. In tutto l’Occidente poi, via via con il progredire della Rivoluzione industriale si assiste ad uno straordinario stato assistenziale, cioè al “welfare state”, che in questi ultimi anni sembra essere entrato in crisi. Non, però, nell’Europa del Nord, a partir dalla Germania, dove il livello di sicurezza sociale resta semplicemente invidiabile ed è un miraggio per la nostra strisciante e illiberale democrazia catto-comunista italiana.

Marx aveva previsto, invece, una sorta di “utopia“  che potesse e dovesse diventare realtà in Inghilterra, nel Paese più industrializzato del Mondo, in omaggio dommatico al sua “Legge dell’opposizione e della corrispondenza”, che, interpretata come un dogma religioso dai suoi seguaci, darà luogo a quella convinzione storicistica altrettanto dogmatica, la vera responsabile del totalitarismo moderno e, in particolare, di quello comunista.

Non è in discussione, quindi, per Karl Popper la spiccata vocazione umanistica di Karl Marx, ma la sua fede nelle leggi della Storia, concepita  -  lì dove non fosse emerso chiaramente da tutto quello che si è detto finora  -  come sviluppo necessario e costante tanto da rendere prevedibile il futuro, a prescindere dalle finalità e dalle azioni dei singoli uomini. E’ questo il cuore della intransigente critica di K. Popper al materialismo storico e dialettico di Marx, accomunato a tutte quelle filosofie idealistiche (Platone ed Hegel), evoluzionistiche e materialistiche, che preludono poi al totalitarismo politico moderno. Il vero protagonista della storia è l’uomo che si autodetermina liberamente sotto la spinta dei suoi bisogni e dei suoi problemi pratici.

“….lo storicista non ammette che siamo noi a selezionare e ordinare i fatti della storia ma crede che la storia stessa e la storia del genere umano determini, per effetto delle leggi ad essa immanenti, noi stessi, il nostro futuro e anche il nostro punto di vista.  Invece di riconoscere che l’interpretazione storica deve rispondere a un bisogno che scaturisca dalle decisioni e dai problemi pratici di fronte ai quali veniamo a trovarci, lo storicista crede che nel nostro desiderio di interpretazione storica si esprime la profonda intuizione che, contemplando la storia, possiamo scoprire il segreto, l’essenza del destino umano”. (Op. cit., pag. 353).

La visione storicistica della storia è, pertanto, un attentato alla libertà e alla ragione dell’uomo, come, d’altronde, si è sempre verificato nella storia, ogni qualvolta, si è voluto introdurre e giustificare   tramite essa il totalitarismo politico di tutte le tinte, e in particolare, quello comunista, scaturito dalla “ideologia” marxiana, accettata ed interpretata dogmaticamente come una religione salvifica.

L’utopia è bella e ricca di fascino, quando viene intesa come idea regolativa verso la quale tendere per il nostro comportamento, ma, quando viene tradotta in praxis, in azione politica, che è sempre realtà, allora perde il sua fascino e diventa azione criminale per la uccisione di centinaia di milioni di persone, per la diabolica creazione di universi concentrazionari, stermini, olocausti di popoli e genocidi scientificamente programmati.

La concezione storicistica della realtà, così come viene intesa da Popper, è la menzogna dell’uguaglianza, della giustizia e della libertà, ma è anche una svergognata negazione della ragione dell’uomo, - consapevole dei suoi limiti e, quindi, finita e concreta -  la quale stranamente viene annullata e precipitata nel sonno da una costruita Ragione metafisica ed infinita, che s’immanentizza di volta in volta nelle passioni dei popoli, nelle dittature politiche, nel socialismo scientifico.

“Kant aveva ragione a fondare la regola d’oro sull’idea di ragione. [….] Noi abbiamo anche il dovere di rispondere, di replicare, laddove le nostre azioni toccano gli altri. In conclusione, il razionalismo risulta in questo modo connesso con il riconoscimento della necessità di istituzioni sociali atte a proteggere la libertà di critica, la libertà di pensiero, e così la libertà degli uomini. Ed esso impone una specie di obbligazione morale a sostenere queste istituzioni. Questa è la ragione per cui il razionalismo è strettamente connesso con la richiesta politica di una ingegneria sociale pratica  -  ingegneria gradualistica, naturalmente  -  in senso umanitario, con la richiesta di razionalizzazione della società, di pianificazione per la libertà e per il controllo di essa mediante la ragione; non mediante la scienza, non mediante un’autorità platonica pseudo-razionale, ma mediante quella ragione socratica che è consapevole delle proprie limitazioni e che quindi rispetta gli altri uomini e non aspira a coartarli, neanche al fine della felicità”. ( Op. cit., pp. 313-314)

Già Giovanni Amedeo Ficthe, scrivendo, sul finire del 1700, della missione sociale dell’uomo e del dotto, pensava che lo scopo fondamentale dell’uomo è la sua libertà. La qual cosa impone a ciascuno di noi di lottare strenuamente anche e soprattutto per la libertà degli altri, perché l’io sociale ha un senso solo se è in relazione con gli altri, dai quali è stimolato a realizzare se stesso per la “unificazione del genere umano”, cioè per la formazione di una società di uomini liberi e razionali.  L’Io Spirituale si definisce e si risolve nel Noi Spirituale.

All’interno di questa società, opera in maniera del tutto speciale il dotto, l’intellettuale, il maitre à penser,  che ha il compito morale di guidare gli altri a prendere coscienza dei propri bisogni e della necessità insopprimibile di esercitare liberamente i propri diritti naturali e razionali. (Cfr.: G. A. Ficthe, “Sistema della dottrina morale”, 1798, e “Lezioni sulla missione del dotto”, 1794).

Questa è la società aperta di cui parla  Karl Popper e di cui furono i principali nemici Paltone, Hegel e Marx, ma anche quei sistemi sociali o pseudo-democrazie atti a manipolare la pubblica opinione di massa attraverso il potere della televisione.

Poco tempo prima di morire, il filosofo della scienza, infatti, prende una netta posizione contro l’esercizio del potere della televisione, scrivendo il saggio “Cattiva Maestra Televisione”, pubblicato in Italia da Marsilio Ed., in cui propone che gli operatori televisivi abbiano una sorta di patente per esercitare un potere così delicato e pericoloso come quello televisivo: pericoloso e nocivo non soltanto per la crescita corretta dei bambini e dei giovani, ma anche per le sorti della democrazia.

In Italia, oltre modo, questo pericolo è quotidiano, il potere esercitato dalla Televisione Pubblica Italiana non ha mai celato il proposito di tele-ammannire a milioni di ignari tele-utenti programmi noiosi, al fine di servire il potere politico, che ancora in questi giorni non riesce a varare una riforma della RAI, che possa consentire una libera informazione, autonoma e non succube del partiti politici. Ma, forse, questo non avverrà mai, perché gli Italiani hanno paura della libertà critica e preferiscono soggiacere alle pratiche imbonitrici di molti politici di mestiere, che vendono anche tramite la Televisione di Stato posti di lavoro, carriere aziendali e professionali e circuiti clientelari al limite della sopportabile liceità.

 Il grosso, poi, della tele-utenza viene addormentato da telenovelle, programmi soporiferi e repliche di spettacoli di trenta, quarant’anni fa, soprattutto in questi mesi estivi, durante i quali torturano le persone anziane e disabili, che non possono evadere da casa per cercare distrazioni lontano dalla televisione. Altro che “cattiva maestra televisione”, che metterebbe in pericolo la democrazia della società aperta! Qui, in Italia, carissimo maestro Popper, non c’è mai stata la democrazia, teorizzata dal suo pensiero, e il potere televisivo dei politici e delle loro corporazioni e il sistema politico dei mestieranti hanno creato un popolo di sudditi, di poveri, di pezzenti, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, privi di coscienza critica e della pur minima libertà di pensiero, perché hanno bisogno di essere lusingati, imbrogliati e turlupinati dalle cosche mafiose di ogni colore. Il motto è: tu non devi pensare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

La società aperta e i suoi nemici (3a)

Post n°50 pubblicato il 10 Settembre 2015 da giulio.stilla

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI”       (3 a)

   ( MARX )                   di    K. R. POPPER

 

Con la filosofia sociale di Marx, Karl Popper si mostra abbastanza comprensivo delle ragioni che spinsero il filosofo di Treviri a scoprire le leggi fondamentali che regolano lo sviluppo storico, travestendo lo storicismo hegeliano con la conversione dello “Spirito” in “Materia”, del processo triadico razionale in lotta inesorabile di categorie economiche e sociali fino alla estrema sintesi della dittatura del proletariato.

Lo storicismo di Marx, però, aveva una scaturigine motivazionale diversa da quella dello storicismo hegeliano. Tutte e due hanno la presunzione di dettare le regole in virtù delle quali si sviluppa la storia degli uomini, ma Marx,  a giudizio critico di Popper, è mosso da una profonda carica umana, volta a liberare l’uomo dalla schiavitù e dall’alienazione da se stesso, dal proprio lavoro e dal prossimo, in cui l’aveva precipitato il capitalismo moderno.

Marx amava la libertà ed odiava tutto ciò che avesse il potere di rendere schiavo l’uomo. Non odiava la ricchezza o la povertà in termini assoluti, ma, sospinto da una necessità etica, detestava la libertà formale delle democrazie liberali che emarginavano il povero e lo sfruttato soprattutto dalla gestione politica della società.

Egli, quindi, amava la società aperta, ma non si avvide dell’errore che ereditava dalla  filosofia “oracolare” di Hegel: cioè, la pretesa di predire il corso della storia e la fiducia nel corso inarrestabile del progresso umano, quasi fosse una legge immodificabile di madre natura.  Non esistono leggi scientifiche immodificabili ed universali che possono mettere al riparo l’uomo da una inversione di tendenza involutiva fino a regredire nello stato ferino di partenza. L’ottimismo storicistico di Hegel e di Marx è assolutamente ingiustificato.

Alla lista dei tesori spirituali ereditati da Hegel, certo, bisogna ascrivere la convinzione di Marx che una dottrina scientifica o filosofica deve produrre necessariamente risultati concreti, altrimenti non serve a niente. Un’attività mentale fine a se stessa potrà avere un senso sul piano delle pure elucubrazioni o immaginazioni, ma, se non trasforma la realtà, se non ha conseguenze pratiche, resterà sempre una costruzione teorica assolutamente priva di validità scientifica. La meta ultima del pensiero di Marx era quella di conciliare realtà e razionalità, che Hegel aveva solo meditato, ma che Marx ritiene che si debbano incontrare sul terreno della prassi per costruire la società socialista, aperta, senza alienazione e senza sfruttamento.

 L’interesse del filosofo-scienziato doveva essere quello di trasformare la realtà, non solo di interpretarla.

Nel sottolineare i limiti del pensiero di Ludovico Feuerbach, a cui riconosce grandi meriti, soprattutto quello di aver superato criticamente la dialettica hegeliana, rimprovera al vecchio maestro di essere rimasto, tuttavia, catturato dalla vecchia filosofia contemplativa e speculativa e di non aver capito che “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo” (XI tesi delle “Tesi su Feuerbach”).

E nell’Ideologia Tedesca, opera scritta a quattro mani da Marx e da Engels, per comprendere ancor meglio che l’obiettivo di Marx non era neppure quello di essere considerato un filosofo-scienziato della rivoluzione, ma semplicemente un “rivoluzionario”, impegnato a risolvere la teoria nella prassi, i due filosofi del materialismo storico e dialettico svolgono  una critica serrata soprattutto nei riguardi degli “Ideologi” della sinistra hegeliana, che non ebbero la ventura di capire che non sono le “idee” a trasformare il mondo, ma le lotte economiche e sociali a determinare il corso della storia.

 Il socialismo utopistico doveva maturare la risoluzione di abbandonare i vecchi arnesi della “ideologia” e di farsi socialismo scientifico e rivoluzionario, consapevole del fatto deterministico che a determinate cause storiche succedono determinati effetti e che, pertanto, delineare una predizione storica, una “profezia” scientifica degli eventi non solo era possibile, ma doveroso.

Sotto questo rispetto, osserva Popper, il materialismo storico non è da considerarsi nemmeno una teoria scientifica, perché non avrebbe il collaudo del principio di verificazione né quello della fallibilità, ma sarebbe soltanto un metodo, ridotto e inteso come tale soprattutto da Benedetto Croce, che in “Materialismo storico ed economia marxista”, un’opera del 1900, argomenta che il marxismo è accettabile “come semplice canone d’interpretazione storica”.

Karl Popper rincara la dose e in ossequio ai suoi convincimenti epistemologici scrive che un metodo di indagine, per quanto possa essere considerato corretto, resta sempre un metodo, non esente dal fatto di essere passibile di critiche. “Credo che sia assolutamente corretto sostenere che il marxismo è, fondamentalmente, un metodo. Ma è sbagliato credere che, in quanto metodo, debba essere al riparo di ogni attacco. La verità è, più semplicemente, che chiunque intenda giudicare il marxismo, deve metterlo alla prova e citarlo in quanto metodo, cioè deve valutarlo in base a criteri metodologici. Deve insomma chiedersi se è un metodo fecondo o sterile, cioè se è o non è capace di favorire il compito della scienza. I criteri in base ai quali dobbiamo giudicare il metodo marxista sono dunque di natura pratica. Definendo il marxismo come la più pura forma di storicismo, ho implicitamente affermato che ritengo il marxismo estremamente povero”. ( Op.cit. pagg. 112-113).

Il marxismo, quindi, non è nemmeno una teoria, essendo questa nella scala delle “certezze”, posizionata su un gradino appena al di sopra di una ipotesi, ma a maggior ragione non può essere considerato una lettura oggettiva di presunte leggi che sottendono al corso degli eventi storici. Per Karl Popper, anzi, anche la legge scientifica, per quanto convalidata dai fatti, resta una legge fino a quando non sia smentita da un’altra legge, che della prima sancisce la sua falsificabilità.

 Si figuri se lo storicismo di tutti i tempi e di tutte le peculiarità, e, quindi, anche   lo storicismo economico di Karl Marx, che avrebbe la pretesa di aver individuato le leggi   che dipanano i processi storici, potesse avere una pur minima considerazione da parte del filosofo della scienza, Karl Popper.

Il Manifesto del Partito Comunista”, scritto da Marx su incarico della”Lega dei Comunisti”, si rivela una sintesi estremamente efficace e chiara della sua interpretazione storicistica del mondo. In esso il filosofo di Treviri, in collaborazione con Engels, sviluppa soprattutto la tesi delle “lotte di classi”.  Il soggetto fondamentale che fa girare la ruota della storia è “la lotta di classe”.  Scrive nel Manifesto: “La storia di ogni società, esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori ed oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”.

Un criterio siffatto d’interpretazione della storia non sarebbe stato uno scandalo per nessuno, se fosse stato presentato da Marx come uno dei metodi, in mezzo a tanti, per la ricostruzione degli eventi storici.  Invece, per Marx, l’unica chiave di lettura per conoscere realmente la storia era il suo materialismo dialettico. Hegel aveva avuto il grande merito di capire che il motore della storia è la lotta delle forze che scendono in campo, ma il grande torto di non aver capito che queste forze non sono ideali  o spirituali, ma concrete e produttive; non è  lo Spirito che muove lo svolgimento della storia, ma sono le classi sociali ed economiche che determinano i processi dialettici degli avvenimenti storici.

Le forze produttive, diventando sempre più estese e più dinamiche, finiranno fatalmente per confliggere con i rapporti di produzione o di proprietà, che in contraddizione con le prime restano gestiti da una classe proprietaria sempre più statica e conservatrice. Scoppierà allora la rivoluzione sociale che non ha bisogno di essere provocata dai forconi di una piccola minoranza, ma sarà il risultato naturale ed inevitabile delle dinamiche sociali.

Sarà la legge interna al progressivo andamento delle masse e della tecnica a decretare la nascita della società comunista.  E’ la legge immanente della storia, la legge ineluttabile della “corrispondenza e della contraddizione”, a stabilire la morte della borghesia di tipo capitalistico e la formazione di una società più umana e più giusta, la nascita della società comunista.

In verità, Marx  non ha mai delineato, in tutta la sua grande mole di Scritti, i caratteri puntuali e precisi della futura società comunista. Ha trattato, sì, compiutamente di una prima e seconda fase della nascita e dell’avvento del Comunismo e della  transitoria ma necessaria Dittatura del Proletariato per parare all’inizio i contraccolpi della reazione della Borghesia, ma non ha mai definito i profili e la configurazione di questa società comunista, se si prescinde da quello che dice, per un breve tratto, nella “Critica del programma di Gotha” , scritta nel 1875, per criticare, per l’appunto, la scarsa vocazione rivoluzionaria dei socialisti tedeschi, che a Gotha avevano sancito la loro unificazione.

 In questo Scritto, Marx sintetizza le sue idee fondamentali sulla futura società comunista: senza Stato, senza sfruttamento, senza alienazione, senza distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, senza proprietà privata  -  neppure quella degli affetti famigliari  -  causa diretta e principale di tutte le ingiustizie perpetrate dalla società proprietaria e capitalistica.

 Al di là, però, della mera “Utopia”, ravvisabile per tanti aspetti nel pensiero di Marx e in maniera concettualmente   simile a quella scritta da Tommaso Moro, questa “Critica” a me piace molto di più di tutti gli altisonanti programmi politici dei nostri Partiti Politici del Novecento italiano, che  hanno sempre predicato, retoricamente,  ma mai attuato quello che Marx auspica che venga scritto sulle bandiere della futura società comunista: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Chi potrebbe essere avverso a questo principio, così carico di amore per l’umanità e bastevole da solo, se realizzato nella prassi politica, a risolvere tutti i problemi connessi al sistema dello “stato sociale” (welfare state), oggi, particolarmente, in crisi nelle nostre democrazie?  Purtroppo, la storia del Comunismo, quale si è realizzato in alcune parti del mondo, nel corso del XX secolo, non è andata avanti secondo gli auspici e la profezia scientifica di Karl Marx. Solo con la Rivoluzione Comunista del 1917, in Russia, e la successiva costituzione della Unione Sovietica, con la feroce Dittatura del Proletariato, prima di Lenin e, poi di Stalin e dei loro epigoni, fino alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, la Storia del Comunismo nel Mondo ha fatto registrare decine e decine di milioni di morti e nefasti primati di miseria morale e materiale assolutamente inauditi. Una società-formicaio senza il minimo rispetto per la dignità della persona e in assoluta assenza di diritti civili e razionali.

Altro che la futura società comunista di Marx, popolata da persone disalienate e capaci di lavorare in piena libertà creativa, senza costrizione e senza sfruttamenti capitalistici, per la realizzazione di una sorta di umanismo onnilaterale, perfettamente ateo e scristianizzato, laicamente consapevole di dare secondo le proprie capacità e di ricevere secondo i propri bisogni. Dobbiamo condannare Marx per queste “idee” e per questi pensieri? Assolutamente, no! Per tutti resta un grande pensatore che lottò per il riscatto dell’umanità e la liberazione dell’uomo dalla schiavitù e dalla estraneazione dalla sua essenza. Ma questi pensieri, io direi liberali, mal si conciliano con l’assioma della “dittatura del proletariato”, sia pure transitoria, e con l’avvento del “socialismo scientifico, che, a giudizio di Karl Popper, è stato ampiamente contraddetto dal “socialismo reale”, perché non esiste “scienza” che non possa essere smentita dai fatti o resa infallibile dall’asseverazione di una teoria che, nel caso della filosofia di Marx, aspettava di diventare una legge scientifica.

La sua “Legge dell’opposizione e della corrispondenza” spiegherebbe al massimo come sono andate le cose per il passato, ma nulla di certo avrebbe potuto preconizzare per l’avvenire. In tutti quei Paesi, infatti, in cui è stata portata a termine la rivoluzione comunista, il Sol dell’Avvenir non è mai sorto, ma una lunga notte è calata sui loro popoli, arrestando il progresso civile e gelando la naturale vocazione dell’uomo a migliorare la propria esistenza.

 Marx aveva profetizzato che l’esito inevitabile del socialismo si sarebbe verificato in Inghilterra, ovvero in un Paese ad economia industriale più sviluppata, in rispondenza alla sua teoria che il capitalismo moderno porta nel suo seno il socialismo, perché le forze produttive, diventando sempre più sociali, finiranno per fare esplodere le relazioni di proprietà ovvero i rapporti di produzione. Nulla di tutto questo si è mai verificato nella capitalistica e borghesissima Inghilterra.

 La Rivoluzione comunista si è avuta, invece, nella società arretrata della Russia zarista, dove un regime autocratico ed assolutistico con una nobiltà latifondista e militarizzata era il diretto proprietario della terra, che veniva lavorata dall’80% della popolazione in una condizione di schiavitù e di servitù della gleba. Ma nemmeno con questa marea sterminata di disperati della terra sarebbe scoppiata la rivoluzione del 1917, se non ci fosse stato l’intervento determinante dell’esercito, che reduce sconfitto dalla guerra del 1914-1918 collaborò per il successo della rivoluzione sociale.

Lenin, con il suo formidabile tempismo, svolgerà un ruolo da protagonista nei mesi successivi alle tesi d’aprile del 1917, fino all’occupazione dei punti nevralgici di Pietroburgo e all’assalto del Palazzo d’Inverno nei giorni 24 e 25 ottobre, senza colpo ferire.

Era questa la Rivoluzione Comunista preconizzata da Karl Marx?  Io direi di no, Era l’inizio della feroce Dittatura Sovietica di Lenin prima e poi di Stalin, in un Paese dell’Est europeo, che non conoscerà mai, forse nemmeno nei giorni di Putin, gli esiti della Rivoluzione borghese del 1789, in Francia, né tanto meno le libertà democratiche delle Rivoluzioni, incruente almeno nelle seconde, vissute in Inghilterra dal 1628 al 1688-1689, che diedero vita secolare alla monarchia costituzionale.

 
 
 

La società aperta (2)

Post n°49 pubblicato il 09 Settembre 2015 da giulio.stilla

“LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI”        (2)

              ( HEGEL)            di  K.R. POPPER

 

Le filosofie essenzialistiche e finalistiche di Platone e di Aristotele, oltre a bloccare lo sviluppo della ricerca scientifica, avviata dalla filosofia meccanicistica e causalistica di Democrito, gettavano le premesse teoriche, perché dopo venti secoli si affermasse la possente filosofia storicistica di Hegel, concepita dal filosofo tedesco per finalità anche queste politiche, per giustificare l’autoritarismo totalitario dello Stato Prussiano.

Ancora una volta, secondo Karl Popper, la filosofia si metteva al servizio dell’autocrazia per impedire la nascita della democrazia e delle libertà critiche ed arrestare lo sviluppo delle scienze, che come metodi di indagine hanno sempre bisogno di confutazioni e congetture, di correzioni ed interpretazioni, perseguibili ed inevitabili nel progresso delle conoscenze.

La ricerca non ha mai fine e non può mai essere limitata da regole predeterminate che guiderebbero il divenire storico, sempre imprevedibile e non definibile da filosofie storicistiche, che erano state prima di Platone e di Aristotele e poi di Hegel.

Karl Popper, infatti, nella prima parte del secondo tomo della sua opera “La società aperta e i suoi nemici” conduce una critica serrata e sprezzante contro Hegel, che avrebbe costruito una sistematica filosofica ingegnosa per delineare una visione storicistica della realtà, che con le capacità e le funzioni della effettiva conoscenza della storia non ha nulla a che fare.

 Lo storicismo di Hegel, dimostra Popper per lunghe e dettagliate analisi, è il progenitore responsabile di tutti i totalitarismi contemporanei.  Mosso da interessi spiccatamente politici, il filosofo di Stoccarda ripescò le idee e i pensieri che erano stati propri di Eraclito, di Platone e di Aristotele, nel senso che il Logos di Eraclito, le Sostanze ideali di Platone e le Essenze con le cause finali ricercate da Aristotele, diventati “Ragione” con Hegel, governerebbero il Mondo e traccerebbero i percorsi lungo i quali si svolgerebbero gli eventi storici.

L’autocrazia di Federico Guglielmo III, re di Prussia, aveva sempre manifestato l’esigenza di trovare una ideologia che servisse a giustificare la sua idea di Stato. Hegel rispose in misura brillante a questa richiesta, teorizzando la Idea di Stato come la Essenza Divina che entra nel Mondo. Lo Stato è la idea Etica che non scaturisce né dalla volontà dei cittadini né dal popolo, in quanto i cittadini e il popolo nascono all’interno dello Stato e dopo lo Stato.

 Senza Stato non ci sarebbero né cittadini, come soggetti di diritti, ma singoli, né popolo, come sovranità, ma una moltitudine informe. In altri termini, viene prima lo Stato, sia sul piano storico-temporale sia sul piano assiologico, e poi i cittadini e il popolo, la cui sostanza etica si esprimerebbe soltanto attraverso lo Stato.

Si è molto discusso sulla natura peculiare dello Stato hegeliano; basti ricordare gli studi specifici condotti dal filosofo torinese Noberto Bobbio, che ha particolarmente illustrato la concezione organica dello Stato di Hegel, nel senso che esso non è da considerarsi né uno Stato liberale né uno Stato democratico, ma uno Stato sovrano, che tuttavia governa attraverso le leggi.

Popper ritiene, invece, che lo Stato di Hegel sia uno Stato dispotico, concepito a giustificazione dello statalismo prussiano, racchiudente in sé il Bene supremo dei sudditi e l’organizzazione tribale della società, contro le libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino e contro la conoscenza razionale dei problemi della storia.

L’Idea di Stato deriva da se medesima, cioè dalla sua Essenza, che diventa Esistenza nel divenire della Storia. E’ la Ragione che si fa Realtà, donde l’equazione: Ragione = Realtà. Tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale e razionale. Lo Spirito Assoluto s’incarna nello Stato e si serve delle passioni degli uomini per realizzarsi attraverso gli avvenimenti storici. Contro questo storicismo si rivolta la ragione scientifica di Popper, accusando Hegel, alla stessa stregua di Schopenauer, di cialtroneria e di ciarlataneria. Vale la pena riportare alcuni rilievi scritti da Schopenauer e riportati da Popper a pag. 48 de “La società aperta e i suoi nemici” (Op. cit.) : “Hegel, insediato dall’alto, dalle forze del potere, come il Grande Filosofo autentico, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato che raggiunse il colmo dell’audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi.  [….]  Doveva anche la filosofia, dopo che Kant l’ebbe rimessa in onore, ben presto diventare lo strumento di secondi fini; fini di stato dall’alto, fini personali dal basso…..il vero primum mobile, l’ascosa molla di tal movimento, malgrado tutte le solenni arie e atteggiamenti, è unicamente un fine positivo, non ideale; che cioè sono interessi personali, d’ufficio, di Chiesa, di stato, in breve materiali”. Insomma, anche per Popper, Hegel è il classico intellettuale, ingegnoso e fantasioso quanto si voglia, che suona il piffero sotto il Palazzo di Cesare, mistificando la realtà e perseguendo volgari fini personali, che distolgono dalla corretta ricerca razionale della verità.

Hegel non sarebbe nemmeno un filosofo originale, perché, utilizzando gli schemi mentali degli antichi nemici della società aperta, avrebbe concepito l’Essenza dello Spirito Oggettivo che si concretizza nello Stato per regolare il corso del Mondo, cosi come Eraclito aveva concepito il Logos inteso come Legge universale che governa il divenire e l’unità degli opposti. “Tutto muta, ma vi è una legge del mutamento che non muta”, Il suo Logos o Ragione sarebbe, dunque, in anteprima di 23 secoli – essendo Eraclito vissuto tra il VI e il V secolo a,C. -  la Ragione hegeliana o Spirito Assoluto, che attraverso lo Spirito prima Soggettivo e poi Oggettivo assicurerebbe l’armonia universale. Lo Storicismo eracliteo sarebbe, pertanto, un degno e lontano precorritore dello Storicismo hegeliano.

Lo stesso movimento di pensiero, con ininfluenti varianti, esprimerebbe, secondo Popper, la Dottrina delle Idee di Platone, che avrebbe “fantasticato” una piramide metafisica di modelli ideali, riflessi poi nelle esistenze di questo mondo, con il vertice coronato dalla Idea del Bene, a cui partecipano, in particolare, le Idee-Valori della Bellezza e della Giustizia.

Questa trama metafisica di Sostanze Ideali assicurerebbe la scienza – epistéme -  stabile e immutabile, perché la conoscenza delle Idee  -  stabili, immutabili, perfette  - è la scienza, riservata in modo sapiente soltanto ai Filosofi- Governanti.

Questo concetto della stabilità e immutabilità della scienza è l’esatto contrario di ciò che afferma la epistemologia di Karl Popper, per il quale il carattere fondamentale della scienza è quello della provvisorietà e della mutabilità, costantemente regolato dal principio della fallibilità.

Le Idee di Platone imporrebbero, quindi, un corso obbligato agli avvenimenti storici, catturando la libertà degli uomini, imprigionando il libero pensiero critico e riservando alla ragione al potere la saggezza di governare la Città.

Una concezione tribale e mostruosa  -  analizza Popper  -  sarebbe stata ereditata anche da Aristotele, il quale, pur avendo fatto scendere le Sostanze-ideali dall’Iperuranio di Platone sulla Terra, avrebbe fatto di esse l’oggetto specifico della Scienza, senza mai riuscire a spiegare in che cosa consistessero, arrestando la ricerca scientifica, avviata da Democrito di Abdera, per molti secoli, fino a Galileo Galilei e ai filosofi empiristi, i quali decretarono che la ”Sostanza” di Aristotele, semplicemente, non esiste.

Il filosofo di Stagira avrebbe, per molti aspetti, peggiorato la visione epistemologica di Platone, perché di ogni esistenza si sarebbe dovuto trovare non solo la “sostanza” ma anche la causa finale, percorrendo il passaggio dalla potenza all’atto e dall’atto a potenza, ovvero dalla materia alla forma, fino alla “entelechia” suprema, perfezione ultima, senza più materia, atto puro, cioè Dio, lo scopo del movimento, lo scopo del divenire e del processo storico in questo mondo.

 Si capisce subito che la “scienza” per Aristotele era la sua “Metafisica” o “Filosofia Prima” in cui parla dell’Essere e della Sostanza. La metafisica a fondamento della fisica e della biologia, la sua Ontologia a fondamento della Logica. Essere=Pensiero. E’ lo stesso movimento di pensiero di Hegel, per il quale, posta la identità tra Ragione e Realtà,  tra Logica (o studio del pensiero) e Metafisica (o studio dell’essere), era ovvio che  i concetti o i pensieri fossero ad un tempo anche i “concetti” della realtà. Leges mentis e leges entis.

 “Essenzialismo e  Finalismo, quindi, oltre ad impedire la insorgenza della logica delle scoperte scientifiche,  in senso moderno e galileiano nonché popperiano, erano chiamati da Aristotele a regolare la vita dei cittadini nella comunità attraverso un programma politico strettamente correlato a quello etico-educativo, nel senso che anche per Aristotele lo Stato non poteva non essere il depositario di tutti i Valori per la realizzazione del buon governo e della giustizia, finalizzati all’ordine e alla felicità dei suoi cittadini. Uno Stato etico che escludeva dalla politìa gli individui schiavi per natura e che tutti i cittadini liberi, per così dire, fossero distribuiti in tre classi sociali a seconda delle loro attitudini e funzioni ad essi assegnate, sull’esempio del progetto della “Repubblica” di Platone. Non era di certo una democrazia, ma tutto doveva concorrere a magnificare le Virtù dello Stato, il cui fine sarebbe stato la felicità dei cittadini, fondata sulla Giustizia, intesa quest’ultima come conformità alle Leggi.

Severo, pertanto, è il giudizio di Popper anche sullo statalismo di Aristotele, al quale attinge, oltre che a Platone, il genio menzognero di Hegel.

“La loro dottrina è che lo Stato è tutto e l’individuo nulla; infatti quest’ultimo deve tutto allo stato, sia la sua esistenza fisica che la sua esistenza spirituale. Questo è il messaggio di Platone, del prussianesimo di Federico Guglielmo e di Hegel”. (Op. cit., pag. 46).           (Continua)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

La società aperta (1b)

Post n°48 pubblicato il 08 Settembre 2015 da giulio.stilla

 

 

“LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI”        (1 b)

“PLATONE TOTALITARIO”    di  K.R. POPPER

 

In verità, Platone avversava il relativismo conoscitivo e morale dei Sofisti, che aveva creato nella città di Atene un pericoloso clima di relativismo politico, distruggendo l’assolutezza delle verità nel conoscere e nell’agire degli uomini, che il filosofo fa risiedere nelle sostanze ideali. Non sono più gli uomini i soggetti interpretanti le verità in questo mondo, non è più “l’uomo” di Protagora di Abdera la misura di tutte le cose, ma sono le “Idee” iperuraniche ad orientare il portamento dei cittadini nella polis.

Le “Idee” -  di cui sono detentori illuminati i filosofi, perché soltanto le anime razionali dei filosofi le hanno conosciuto bene nel mondo “vero”, prima di incarnarsi in questo “apparente” -   hanno validità assoluta per tutti gli uomini. Non c’è più spazio alcuno per il dibattito democratico dei Sofisti sui problemi della città. Questa deve essere saggiamente governata dai filosofi, coraggiosamente difesa dai guerrieri, proficuamente approvvigionata dai cittadini, che con le loro diverse attività produttive possono disporre di proprietà, negate alle prime due classi. I filosofi-governanti sono privati perfino delle proprietà degli affetti, non creano famiglie e si congiungono in amplessi con donne particolarmente selezionate per la nascita di figli eugeneticamente programmati, che vengono poi accolti ed educati in appositi istituti statali.

Nella Società Chiusa di Platone tutto il potere è demandato allo Stato, che pervade la società intera: il cittadino, la famiglia, le organizzazioni sociali, la proprietà, le attività produttive, le tre classi sociali, regolate dalla natura degli uomini e rigorosamente definite in bronzea, argentea, aurea.

“Lo scopo nel fondare lo Stato   - scrive Platone (Repubblica, 420 bc)  -  non è di rendere felice un unico tipo di cittadino, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità  […..]. Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti”.

E’ il motivo ricorrente di tutti i totalitarismi, antichi e moderni, che con il richiamo incessante alla felicità di tutti hanno finito per identificare, in misura totale, lo Stato dittatoriale con la Società, le autocrazie con le libertà, i formicai con le democratiche istituzioni sociali. Eppure, Platone non esita un istante a manifestare tutta la sua aspra contrarietà contro la democrazia di Pericle. Lo accusa di aver corrotto la città di Atene. Trova la maniera per mettere sulla bocca di Socrate, che si rivolge a Callia, nel “Gorgia”, (515 e)  le seguenti parole: “Dimmi soltanto se è voce corrente che gli Ateniesi siano stati migliorati da Pericle o, al contrario, ne siano stati corrotti. Io sento dire che Pericle ha reso gli Ateniesi pigri, vili, chiacchieroni e avidi di denaro, istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici”.

Lascio immaginare ad un mio probabile lettore che cosa direbbe, oggi, Platone, al cospetto degli stipendi, delle indennità, dei vitalizi e di tutte le prebende, che amano portare a casa i rappresentanti del popolo in Parlamento e nei Consigli Regionali, Provinciali e   Comunali.

Ma, tornando alla Società Chiusa del filosofo delle “Idee” e al suo Stato sofocratico o noocratico, perché retto dai governanti-filosofi, la cosiddetta “ragione” al potere, molto vivo è stato sempre il dibattito critico sulla “Repubblica “, attraverso i secoli e fino ai nostri giorni. Di fronte alle diverse interpretazioni di segno politico opposto, di grande rilievo è stata considerata la posizione critica dei filosofi britannici, che non hanno mai condiviso la esagerata importanza spesso attribuita alla utopia politica di Platone.

Karl Popper, che visse in Inghilterra dal 1945 fino alla morte, con un’analisi lucida e minuta, scrive l’intero primo tomo de “la Società aperta e i suoi nemici”, per denunciare la scandalosa visione politica di Platone, antidemocratica, non liberale e totalitaria, ispiratrice di altri totalitarismi, che hanno segnato a periodi e in modo tragico, diabolicamente tragico, la storia dell’Umanità.

Non a caso, si racconta che gli ufficiali nazisti, nell’ultimo conflitto mondiale, portassero nello zaino di guerra la “Repubblica” di Platone.

Ora, la tesi centrale del primo volume di K. Popper, intorno alla quale ruota un’analisi attenta e logicamente consequenziale di tutti gli aspetti del programma politico di Platone, risiede nell’assunto di dimostrare in maniera inoppugnabile, a mio modesto parere, il totalitarismo perfetto concepito e scritto da Platone, nella “Repubblica” e nelle “Leggi”, il quale,  come tutti i profeti e gli esecutori delle tirannidi, di tutti i tempi, afferma di costruire un progetto politico per garantire a tutti i cittadini giustizia e felicità. E’ questo il vero intento di Platone? Certamente, si!, se si considerano realistici e non utopici gli interrogativi che seguono.

Scrive, infatti, il Popper: “Che dire dell’ardente desiderio di Platone della Bontà e della Bellezza, del suo amore per la Sapienza e la Verità? Che dire della sua richiesta che i sapienti, i filosofi, debbano governare? Che dire delle sue speranze di rendere i cittadini del suo stato virtuosi e, nello stesso tempo, felici? E che dire della sua pretesa che lo stato sia fondato sulla Giustizia? Anche studiosi che criticano Platone sono convinti che la sua dottrina politica, nonostante certe somiglianze, si distingua nettamente dal totalitarismo moderno proprio per le finalità che persegue: la felicità dei cittadini e il regno della giustizia”.  (Popper, “La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario”, Vol. I, Armando Armando Editore, Roma, 1977, pag. 130).

Ma Popper non ci sta. Non si fa minimamente assalire da questi interrogativi, da questi dubbi, che hanno sempre incantato, in ogni epoca,  le masse organizzate dai demagoghi e private dagli autocrati della necessità di costruirsi una consapevole, autentica formazione politica liberal-democratica,  criticamente individualistica ed anticollettivistica, attraverso il libero dibattito sociale e culturale sulle tematiche di una società aperta alle idee, che realizzano le riforme,  e non vessata dalle ideologie, che trasformano gli uomini nati liberi in servi dello Stato totalitario.

Prosegue ancora Popper: “…. ritengo che il programma politico di Platone, lungi dall’essere moralmente superiore al totalitarismo, sia fondamentalmente identico ad esso”. (Op. cit., pag. 131).  [….] “Platone riconosce soltanto un criterio supremo di giudizio, l’interesse dello stato. Ogni cosa che lo rafforza è buona e virtuosa e giusta; ogni cosa che lo minaccia è cattiva e perversa e ingiusta. Le azioni che servono ad esso sono morali; le azioni che lo mettono in pericolo sono immorali. In altre parole, il codice morale di Platone è strettamente utilitario; è un codice di utilitarismo collettivistico o politico. Il criterio della moralità è l’interesse dello stato. La moralità non è altro che igiene politica. Questa è la teoria collettivistica, tribale, totalitaria della moralità. – Buono è ciò che è nell’interesse del mio gruppo o della mia tribù o del mio stato”.(Op.cit., pag.  156). 

Convinto che il compito dello Stato sia quello di realizzare un programma di giustizia, il filosofo delle “Idee” fa risiedere questa nella stretta osservanza dei compiti fondamentali spettanti a ciascuna delle tre classi, ripartite dalla natura in classe aurea, argenta e ferrea o bronzea.

Uno Stato che si regge su solide fondamenta della “Giustizia” non può non essere che uno Stato Etico, che racchiude in sé tutti i valori morali, e uno Stato Etico non può non essere che uno Stato Vero, Bello e Buono, che assicura Felicità e lunga vita a tutti i suoi cittadini. Ma uno Stato Etico non può non essere che uno Stato Totalitario.

“La vera felicità – insiste a dire Platone – si consegue solo mediante la giustizia, cioè mantenendo il proprio posto. Il governante deve trovare la felicità nel governare, il guerriero nel guerreggiare; e, possiamo concludere, lo schiavo nel servire”. (Popper, Op. cit. pp. 239- 240).  In altri termini, la vera felicità non va cercata sul piano individuale, perché vi sarebbe licenza e “democrazia” sofistica, ma assicurata alla società nella sua totalità dallo Stato, dal collettivo sofocratico e dal libero suicidio civile dei suoi sudditi. 

 In tempi storici in cui la civiltà di Atene si esprimeva nel massimo del suo splendore, attraverso la filosofia, la poesia e l’arte in  tutte le dimensioni dell’architettura, della scultura, della pittura, della musica, del teatro con i  più grandi talenti drammatici che la storia dell’arte possa ricordare (Aristofane, Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide), lo Stato etico e giustizialista, teorizzato da Platone per finalità eminentemente politiche, trovava la sua giustificazione nella crisi dei  valori fondanti le democrazie  e dissolti dalla corruzione morale, dalla mollezza degli spiriti, dalla sfrenata cupidigia e dalla guerra civile, succedutasi in seguito al governo oligarchico dei Trenta Tiranni.

Evidentemente, la spiccata sensibilità estetica dei grandi talenti non era sorretta da una appropriata coscienza morale della classe egemone e da un’etica sociale evoluta, molto più interessata ai commerci e ai facili guadagni che a perseguire un progresso intellettuale e culturale della città.  (continua)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 

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