Creato da pantouffle2011 il 28/09/2011

JAMBOREE

dove parlo, sparlo e soprattutto sproloquio

 

 

DJANGO UNCHAINED – Ovvero l’amore ai tempi della schiavitù

Post n°191 pubblicato il 19 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

 

Non volevo fare un altro post su un film, lo dico subito. Ma poi ho visto questo pippone di quasi 3 ore, roboante, violento e circense e non ho potuto farne a meno. Perché?

Perché è bellissimo, perché ha un ritmo che ti cattura, ti ingroppa le budella e non te le molla più, perché dentro c’è tutto Tarantino (che piaccia o dispiaccia, è uno che il cinema lo sa fare e non  ci sono giuggiole che tengano), perché ha una colonna sonora che sembra una raccolta di cover ficcata a forza nella cassettina del mangianastri. Perché è glamour (“Come sarebbe a dire non sei uno schiavo… vorresti dirmi che ti vesti così per scelta?!”), perché è brillante, pungente, divertente, splatter quanto basta e con dei dialoghi essenziali ed eleganti insieme, in un parlato semplice ma intelligente che vorrei sentir parlare al telegiornale.

La storia d’amore c’è, ed è la molla che spinge Django a ribaltare condizionamenti sociali, pregiudizi e pessime tradizioni dure a morire; ma resta inevitabilmente sullo sfondo, perché è privata, privatissima, come solo le vere storie d’amore possono essere; e perché non c’è nulla da dire, alla fine, perché dell’amore tutto è già stato detto e scritto: l’amore è originale e unico solo per chi lo vive in quel momento.

No, il concetto chiave del film non è l’amore che smuove le montagne ed esalta i cuori, ma la concezione che si nasca con un futuro già scritto, un destino già geneticamente segnato.

E se vi sembrano cazzate d’altri tempi venite a fare un giro dalle mie parti, dove le etichette si danno via come il pane: il marocchino è inaffidabile e poi non ha voglia di lavorare; il polacco è bravo a fare il muratore e l’idraulico ma caspita quanto beve, l’albanese ti ammazza anche il gatto, il cane e la suocera per 2 euro, il rumeno si ubriaca, fa casino e ti ruba anche la biancheria che indossi; e la rumena… be’, diciamo che è brava a fare altre cose.

Ma niente è scritto, nel bene e nel male, e la genetica non può essere una giustificazione per i nostri errori. Come non possono essere giustificazioni le circostanze, gli umori, le reazioni altrui e i momenti sbagliati. Siamo quello che siamo, inteso come quello che ogni giorno scegliamo di essere. E quello che siamo, fortunatamente, non è necessariamente quello che saremo: perché il margine di cambiamento esiste sempre.

E non so voi, ma questo a me mi fa stare serena. (Le sgrammaticature un po’ meno).

Vai Django, che sei tutti noi!

 

 

 
 
 

Quando hai paura

Post n°190 pubblicato il 16 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

Son giorni bui, son giorni di attesa. Attesa di un qualcosa che si sa che accadrà, qualcosa di inevitabile e già scritto. Ma non da me.

Come mi giro sento parlare di licenziamenti, tagli, ristrutturazioni aziendali. Parole diverse, che però conducono tutte ad un unico futuro possibile: a breve perderò il lavoro. Di nuovo.

Mesi passati ad imparare un lavoro che non era il mio, tempo impiegato a farmi accettare da chi pensava non ce l’avrei mai fatta. Colleghe, colleghi, capi, capetti e lacchè: mille caratteri diversi, approcci diversi, situazioni diverse. Ogni giorno uno sforzo per venire incontro a tutti, nella convinzione che il lavoro non sia fatto solo di quello che fai quando sei alla scrivania, ma anche di rapporti  personali, contatti e disponibilità.

Ma non era vero niente: alla fine sei solo un numero, una cifra, quella che compare nella tua busta paga. Se è troppo alta, sei solo un peso.

Quando si è sparsa la voce dei licenziamenti ci siamo sentiti vicini, solidali uno con l’altro. Dopo un paio di giorni sono cominciate le crisi di pianto, le accuse e le recriminazioni reciproche.

 Oggi, a due settimane dalla notizia, ci si guarda in cagnesco, cercando di carpire informazioni, di conoscere i nomi dei condannati per poter tirare un respiro un sollievo. Per poter dire che ti dispiace ma che in fondo meglio a lui che a te. E che alla fine un po’ se lo meritava, con tutte quelle lagne per ogni cosa.

Perché è questo che fa la paura: mette uno contro l’altro, tira fuori il peggio delle persone in una guerra fra poveri che non potrà mai vedere nessun vincitore. Solo vinti.

 “Certo che tu non perdi mai il sorriso – ha osservato con una puntina di cattiveria una collega dell’accettazione – eccerto, voi del piano nobile avete contatti importanti… non vi tocca nessuno. Sono i poveretti come noi ad andarci di mezzo. Al tuo posto me la riderei anch’io… oh come riderei.”

Avrei potuto risponderle che non ho proprio nessun motivo per ridere. Che la vita mi sta regalando sberle tutti i giorni, e non solo sul lavoro. Che sono ad un quarto d’ora dall’esaurimento nervoso. E che forse quel sorriso è l’unica cosa che mi resta.

Avrei potuto dirle mille cose, non ultima che dovrebbe badare meno a me e curarsi di più di suo marito, troppo spesso in giro per i bar, ma è un gioco cui non voglio partecipare, perché il mio destino è già scritto, so che il mio nome è su quella lista: ma se non posso evitare di essere licenziata, so che nessuno mi potrà mai obbligare ad essere anche meschina.

E restare la stronza di sempre mi sembra una scelta infinitamente migliore.


 
 
 

Jack Reacher - La prova decisiva

Post n°189 pubblicato il 08 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

JACK REACHER – La prova decisiva. Dove la prova decisiva è questa: prima di entrare al cinema dovete fare un respirone, prendervi tutto il tempo che serve e chiedervi con sincerità: sono pronta per affrontare Tom Cruise? O meglio, sono davvero pronta ad affrontare 2 ore con questo strano incrocio tra uno 007, un santone televisivo e il testimonial di un discount di pancere?

Perché se la risposta è no, o anche solo se non è un sì pieno e convinto, lasciate perdere. Perché il film (simpatico, divertente, ben sceneggiato), è come una cena a base di ostriche: antipasto di ostriche, risotto di ostriche, ostriche al gratin… dessert a forma di ostrica: buono, buonissimo, ma se le ostriche vi fanno impressione, è meglio lasciar perdere. Quindi, se non vi piace Tom Cruise, andate a vedere  qualcos’altro, perché tutto, in questo film, è intriso di lui, del suo personaggio e della sua presenza. All’inverosimile.

Se sia un bene non saprei dire. Di sicuro non sono mai stata una sua fan, lo vedrei bene con un badile in mano mentre torna al tramonto dopo una dura giornata di lavoro nei campi, per dire. Ma non credo nemmeno sia il peggior attore in circolazione, e la sceneggiatura riesce a mettere le pezze sulle sue bravate da bullo di periferia.

Quindi che dire, è un film – un bel film – che ti fa venir voglia di leggere il libro di Lee Child da cui è tratto. Di leggerti magari tutta la saga, perché la storia è avvincente, sorprendente, ti invita a guardare oltre a ciò che vedi. Non succede tutti i giorni. Nemmeno tutti gli anni.

Poi offre spunti interessanti: ad esempio come sia possibile sparire, pur essendo sotto gli occhi di tutti, se non si ha la patente, se non si possiede una macchina, una carta di credito, un conto corrente bancario. Non occorre nemmeno più dire “Scusa amore, esco un attimo a prendere le sigarette…”. Superato, non serve più: basta bruciare la tessera del bancomat, e addio belli.

L’aspetto su cui nutro invece delle riserve, è un altro: è il messaggio lanciato dal film. E’ un inno al farsi giustizia da soli, una consacrazione dell’inutilità dei tribunali, il riconoscimento della corruzione delle forze dell’ordine anche ai massimi livelli. Roba forte. La giustizia viene lasciata al protagonista, che è un concentrato di forza fisica e di tecniche di combattimento, ma con una lucidità mentale da fare invidia a Sherlock Holmes.. Certo il mondo è pieno di gente così. Però nella vita fanno i contractors, hanno una busta paga che rende legali le loro pulsioni da serial killer e di romantico non c’è nulla. Men che meno di disinteressato e di giusto.

Insomma, a me gli eroi testosterone e mazzate piacciono quando sono poco credibili, sopra le righe come 007, duri fuori e teneri dentro, come Bud Spencer e Terence Hill. Sennò, se vogliamo fare i seri, se vogliamo lanciare messaggi al mondo forti come questo, parlando di verità e giustizia, abbiamo almeno il coraggio di farlo fino in fondo, evitando di nasconderci dietro a paladini fintissimi e involontariamente comici. Perché come dire, la faccia di Top Gun non giova alla causa. Soprattutto se è invecchiato di 20 anni.  Capito McQuarrie?

 

P.S. Tutti coloro convinti – a torto - che il sig. Cristopher McQuarrie, regista del film, non legge – né leggerebbe mai il mio blog manco morto – sono solo dei rosiconi. Ecco.


 
 
 

La miglior difesa...

Post n°188 pubblicato il 02 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

 

Non è che io la mattina sia proprio da mangiare di baci, lo ammetto. Anzi, direi che di prima mattina sono simpatica come un controllo della finanza, socievole come Polifemo e che mi esprimo con una lingua in cui le parole più lunghe sono bhof… mah… uhm… mmh… eeh…

Potendo, mi eviterei anch’io. Non potendo, ho imparato a non darmi confidenza, almeno non prima di una certa ora. Ma non sono aggressiva, anche perché non ne avrei la forza: sono semplicemente amorfa. Basterebbe lasciarmi stare, far finta di non vedermi, ignorarmi.

Invece no. La gente se ne approfitta. Ti vede in difficoltà, debole, poco reattiva, e cosa fa? Parla.

Parla di tutto, di qualsiasi cosa. Tu stai lì, boccheggiante davanti alla macchinetta del caffè, e diventi inevitabilmente vittima dell’esuberanza verbale altrui. E vieni aggredita dal racconto dettagliatissimo dell’ultima operazione alla cistifellea, dolorosissima, ma mai quanto la colica renale piombata a tradimento proprio durante i fanghi a Montecatini con la sorella Santina, che fatalità proprio quell’anno era stata operata all’alluce valgo.

Perchè la gente sente la necessità di parlare, di blaterare, di dar aria alla bocca: quasi mai di comunicare. E scambia il silenzio altrui per genuino interesse. Ma non è così. Non lo è mai.

Ma stamattina, stanca di sopportare la logorrea di tutti, ho deciso di difendermi. Quando ho visto arrivare l’Oreste, noto attaccapezze aziendale sulla filosofia zen e le soddisfazioni della vita da camperista, son partita all’attacco. Neanche “a” gli ho fatto dire. Ho cominciato a parlare del tempo, del ghiaccio,  dell’umidità, e di quanto vorrei starmene su una spiaggia ai Caraibi a mangiar banane tutto il giorno. Poi ho continuato ricordandogli l’afa dell’estate scorsa, eccezionale, ma sempre meno di quella del 2003 – Te la ricordi Oreste, quell’estate terribile? – e avrei continuato ancora se non mi avesse interrotto per dire:

“Ehhhh… ma che chiacchiera che c’hai… Qui al caffè abbisogna che si sta il tempo che serve, non tutta la vita. Che c’ho del lavoro, io.”, e mi ha lasciata sola.

Capito quanto sono furba? Felice come una giuggiola stavo prendendo il mio bicchiere di caffè e andare in ufficio, quando la collega dell’accettazione mi fa:

“Anche da me c’era tanto ghiaccio stamattina… ma te te la ricordi la gelata dell’’85? Pensa che proprio quell’anno m’avevano operato di cataratta… me lo ricordo perché il Paolo aveva appena finito le medie, mentre la Linda era ancora le elementari…sì, mi aveva perso l’anno per via di una bronchite…”

E… ma vaffan… però.

Qualcuno di voi sa come si fa per essere riconosciuta come specie protetta? Quale? Quella di quelli (come mi esprimo bene vero?) che vorrebbero farsi i fatti propri. Perché sembrerà impossibile, ma ce ne sono ancora. Perché conoscere le persone è bello, ma scoprirle a poco a poco, gustando i loro lati migliori è ancora meglio.

Grazie a chi mi vorrà aiutare.

 


 

 
 
 

Dicevamo..?

Post n°187 pubblicato il 29 Dicembre 2012 da pantouffle2011
 

 

Tornare a Parigi è come rivedere una vecchia amica: pochi minuti e ritrovi le stesse sensazioni che hai lasciato, come sei il tempo non fosse mai trascorso, come se non fossi mai andata via. Ma il tempo passa, e niente resta mai uguale a sé stesso. Nemmeno Parigi: infatti l’ho trovata meno caotica di come la ricordavo, molto più povera di come me l’aspettavo.

La joie de vivre se n’è andata sotto la scure della crisi. Mendicanti e clochards, presenti ovunque, ne sono solo la testimonianza più evidente, ma non è che la punta dell’iceberg. Negozi semivuoti, locali chiusi e mai riaperti, i cartelli con la scritta “vendesi” fanno invece capire come la grandeur francese abbia conosciuto tempi migliori.

Dicembre non è mai stato il mio mese preferito per visitare Parigi: dico sempre che la preferisco d’estate, perché mi piace fare tardi in qualche bistrot, crogiolarmi al sole del lungosenna o perder tempo nei giardini des Tuileries, ma la realtà è che mal sopporto l’allegria forzata di questo periodo. Non la sopporterei da nessuna parte, a dire il vero, ma qui, nella Ville Lumière, l’insofferenza è totale. Troppe luci, troppa gente, troppo di tutto a ricordare che è Natale: ma se Natale non ce l’hai nel cuore, tutto quello che te lo ricorda non può che dar fastidio.

Ma Parigi è come una vecchia amica anche in questo: la ami per quello che è, pregi e difetti compresi, anzi, forse proprio per questo, per quel mix che la rende davvero unica al mondo.

E passeggiare tra le gallerie d’arte del Marais, vedere che la creatività umana non è stata del tutto piallata dal Grande Fratello, dalle rate del mutuo da pagare e da una quotidianità ogni giorno più difficile da affrontare, ti rimette in pace con il mondo. Ti fa capire che non tutto è spazzatura. Che si può ancora pensare senza tempo e senza limiti. Lo sappiamo, lo so, ma ogni tanto è bello averne la conferma.

Ecco perché so che tornerò ancora a Parigi. Per l’atmosfera, per le gallerie d’arte, per il pain au chocolats e per l’immancabile turista italiano che scendendo dalla Tour Eiffel ha esclamato:
“Ahò, ma io ancora non ho capito… ma chi è che l’ha costruita ‘sta tore?!”

E ditemi voi se questo da solo non vale il biglietto del viaggio.

 


 

 
 
 

Auguri auguri auguri

Post n°186 pubblicato il 22 Dicembre 2012 da pantouffle2011

 

 

Vado via per qualche giorno, ma poi torno, eccome se torno. Nel frattempo fate i bravi, mi raccomando. O almeno non fatevi scoprire con le mani nella marmellata, che non sta bene, soprattutto per le feste.

Comunque sia, ciao guys, un milione di baci e di auguri a tutti.

Buon Natale!

 

 

 

 

 
 
 

Se mi parli m'innamoro

Post n°185 pubblicato il 17 Dicembre 2012 da pantouffle2011
 

 

Che poi io questa cosa delle voci l’ho sempre avuta. La fissazione, intendo. Credo sia cominciata con le favole dei Fratelli Grimm, Andersen, Perrault e tutta l’allegra banda, quando infilavo a forza i 45 giri nel mangiadischi arancione per ascoltare un milione di volte A mille ce n’è…nel mio cuore di fiabe da narrar. Venite con me, nel mio mondo fatato per sognar…  . Ci passavo le ore. La voce del narratore mi portava via, verso mondi sconosciuti e incantati,  e mi metteva addosso un certo non so che, tanto che poi per tornare alla realtà avevo bisogno di fare qualcosa di assolutamente fisico, come scatenarmi per ore con Il Ballo di Simone. Batti in aria le mani… e poi falle vibrar… se fai come Simone… non puoi certo sbagliar… Avete presente no? Ecco, quello.

Poi le favole le ho messe via, ma anche quando il soldatino di stagno avrei potuto portarmelo a casa in carne, divisa e fucile, la fissazione per le voci m’è rimasta.

Era ancora bella forte nel mio primo lavoro, quando io e una collega ci strappavamo la cornetta a vicenda per parlare con un cliente dalla voce meravigliosa, fantasticando su questo personaggio mai visto, ma sicuramente fascinoso e suadente che ci avrebbe senza dubbio portato al galoppo sul suo cavallo berbero in un tramonto profumato di vento e giaggiolo. Il fatto che non si fosse rivelato all’altezza delle aspettative aveva tolto poesia alla cosa, ma la mia passione per le voci ne era uscita indenne.

E lo era ancora quando perdevo le mie giornate ad ascoltare Alessandro Baricco che leggeva Gabriel Garcìa Marquez in tivù. E lo è ancora adesso, quando riconosco un doppiatore dopo le prime due battute. Anzi, arrivo a dire che alcune voci hanno cambiato lo scenario cinematografico. Perché sarà anche vero che in Thelma&Louise Brad Pitt ci ha messo un culo che faceva ombra, ma la voce gliel’ha prestata Massimo Lodolo, e se chiudo gli occhi, non riesco a visualizzare il primo, ma in compenso sento benissimo la seconda.

E Ralph Fiennes? Sarebbe stato lo stesso spietato ufficiale nazista di Schindler’s List senza la voce di Roberto Pedicini? Non credo proprio.

Perché le voci, quelle belle e calde sono così: ti arrivano dritte al cuore, te lo avvolgono e non lo lasciano più. Ti evocano sensazioni, smuovono l’ormone e lasciano un ricordo che è come una malìa: difficile scrollarsele di dosso. Soprattutto se non si ha a portata di mano il 45 giri de Il Ballo di Simone.

Siamo dotati di 5 sensi e mi viene naturale usarli tutti, però mi chiedo una cosa: non sarò mica la sola a sentire le voci, vero? Vi prego, ditemi che non sono pazza. O siate carini,   ditemi almeno che non sono la sola.

Grazie, ve ne sarò per sempe grata. Ciao guys.


 

 
 
 

E' proprio allora che...

Post n°184 pubblicato il 08 Dicembre 2012 da pantouffle2011
 

Brutta cosa la noia.

L’ultima volta che mi è capitato ho colorato di rosa tutta la casa. Doveva essere un rosa antico finissimo, che parlasse di eleganza, calore e felicità: ma lo spirito non era quello giusto, e men che meno il colore, e se guardavi da giù sembrava che le fiamme lambissero i muri; se guardavi da dentro sembrava una pizzeria. Pizzeria dalla Michi, specialità porchetta. Gli amici mi han preso in giro una vita. L’imbianchino chiamato per ridipingere i muri continuava a fissarmi senza parlare, passando lo sguardo da me alle pareti e viceversa: sono ancora convinta che stesse valutando la possibilità di avere tutti i suoi soldi prima che mi caricasse l’ambulanza.

Un’altra volta, volendo rallegrare una serata con tanti amici e poca allegria ho comprato un tubo di kabuki: non so come mi sia venuta, ma far esplodere dei coriandoli in casa m’era parsa una bella idea. Almeno fino a quando lo scoppio del tappo non aveva fracassato il lampadario di cristallo di mia madre e quasi staccato un orecchio a mio fratello. Il gatto spaventato dal botto aveva fatto il resto.

Ma adesso che gli anni sono passati ho la sensazione che potrei fare sciocchezze maggiori.

Perché la noia è come una ciucca: se la prendi a 20 anni fai il fenomeno con gli amici, ma se ti ubriachi più tardi ti prende la balla triste e diventi molesto.

Perché lo scopo non è più far passare le ore, ma dare uno scossone all’esistenza, sentire che ancora puoi cambiare le cose, nel bene e nel male. E poi perchè è facile mantenersi virtuosi quando sai di avere davanti tutta la vita per sbagliare, pentirti e rimediare, più difficile farlo quando cominci a pensare che non potresti avere un’altra occasione. O quando realizzi che non ci saranno premi per i più meritevoli.

E ti crogioli in questi pensieri, ci pensi e ripensi. E poi ci pensi ancora.

E’ proprio allora che potresti fare sciocchezze e pentirtene poi per tutta la vita.

Ma per fortuna c’è sempre il tuo vicino di casa – quello filosofo - che si attacca al campanello e senza dire né ciao né vaff… ti grida da giù:

“E alòra… che c’è un metro di neve… vieni mo’ a darmi una mano che c’ho un badile anche per te.”

Bello il senso pratico, che ti fa affrontare la vita senza fronzoli né incertezze.

E che brutta cosa la noia. Certi vicini anche di più però.

 


 
 
 

Maschere e mascherati

Post n°183 pubblicato il 02 Dicembre 2012 da pantouffle2011
 

 

Sono ansiosa di natura, dormo poco, mi stresso assai. Tutto mi sciocca a morte e mi sconvolge il quotidiano: l’indifferenza non mi appartiene. Il distacco meno ancora.

Ad essere normale ci ho rinunciato da tempo, mi accontento di sembrarlo; non per fare chissà quali furbate – di cui non son capace - semplicemente perché l’essere vulnerabile è un problema solo mio, non può essere del prossimo; quel prossimo che se va bene si spaventa, se va male ne approfitta. E il primo che mi dice che l’importante è essere e non apparire giuro che lo carico sulla 206 e lo mollo nella nebbia in mezzo ai campi. O lo faccio entrare un giorno intero nei miei panni, che è peggio ancora.

Va da sé che se il neurone mi si concentra full time sul “sono ma non sembro”, anche a fargli fare gli straordinari non si può pretendere che abbia pure senso pratico. Per cui se dimenticare le chiavi è la normalità, mettere 2 lenti a contatto nello stesso occhio è quasi inevitabile. E non vi dico cosa succedeva al gatto.

La nota positiva è che so riconoscere a pelle i fintoni, chi come me sta bluffando, chi ci fa ma non lo è.  In altre parole, i miei simili.

Riesco ad andare “oltre”. Oltre le parole, oltre i gesti, oltre il detto e il non detto. Mi succede anche senza volerlo, ogni giorno, con tutti, da sempre.

Collega1, sempre così severa, acida e insopportabilmente perfetta? Tutta apparenza. Solo una crosta che si è costruita per le troppe mazzate prese dalla vita. La difesa di chi sa che non si può permettere di sbagliare di nuovo. E’ bastato portarle un libro che parlava di troppa solitudine e di seconde occasioni mancate, dicendo “Quando l’ho letto mi ha ricordato te” e ha pianto per ore. Come una 12enne. Come un fiume in piena. Ed è stata la fine dei miei problemi con lei. Oltre all’inizio di una bella amicizia, fatta di quella complicità che si nutre di sguardi d’intesa e di silenzi eloquenti.

Lo squallido vicino che si venderebbe anche il pelouche del figlio 4enne su e-bay se pensasse che potesse ancora avere un mercato? Tutta crosta? Pura apparenza? No, è solo la dimostrazione che i pezzi di merda esistono. E che la sensibilità in certi casi non serve.

Insomma, ogni giorno è un impegno e una fatica, e non sempre per quello che vorrei. Ma si può dire che io viva più intensamente, più attenta a chi incrocio sulla mia strada; e se è vero che l’amore è concentrazione, forse l’essere permeabile alla vita fa di me una persona che non è venuta al mondo solo per pagare le bollette. Sicuramente fa di me una persona migliore di quello che avrei potuto essere se non lo fossi stata.

E poi, detto tra noi, covo una segreta speranza: chissà che non sia questa l’arma che mi impedirà di essere piallata dalla vita, di mettere su famiglie assurde e di distinguere un giorno dall’altro solo per il colore delle pillole da prendere.

In fin dei conti noi tutti indossiamo una maschera, e se proprio la debbo portare, che non sia solo per farmi bella agli occhi del collega del secondo piano.

(Ovviamente mentre sto parlando con voi potrebbero avermi portato via la macchina lasciata aperta, in zona rimozione, con i tergi in funzione e le chiavi dentro. Ma sugli aspetti pratici ci debbo ancora un po’ lavorare, lo ammetto.)

 


 

 
 
 

Rossa come una moleskine, grigia come la noia

Post n°182 pubblicato il 29 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

Aprendo un cassetto m’è caduta la moleskine. Rossa, gualcita, vissuta. L’ho usata per anni, c’è dentro una vita.

Appartiene ad un mondo diverso, fatto di corse, riunioni e tassì. Un tempo in cui non annotare all’istante un’idea poteva fare la differenza tra un cliente contento, una paccata di soldi o un magnifico flop. O forse semplicemente un tempo in cui mi venivano idee che valesse la pena annotare.

Non so quando sia cominciato. Non ricordo un giorno preciso, un momento, un perchè.

Ma un minuto preciso ci deve essere stato, solo che ero assonnata, occupata, perché non può essere che apri un cassetto e ti accorgi di colpo di quanto poco sia rimasto di te.

Ma ti ritrovi con una vita piena di cose da fare, problemi e persone, una vita che tu stesso hai contribuito a creare. Ma che poco ricorda quello che eri, poco o nulla somiglia a quello che pensavi saresti poi diventato.

Sogni, speranze, gratificazioni, tutto mediato e piallato in nome di quello che è meglio, di un mutuo e della stabilità. La crisi ci ha poi messo del suo.

Ne è valsa la pena? Sì, penso di sì. Razionalmente sì. Mille volte sì.

Ma se agendo con il cuore spesso si trovano i guai, con la ragione subentra sempre la noia. Quella vera, che non puoi riempire con cose da fare.

Un lavoro decente, emergenze domate, gli affetti di sempre. Ci si può lamentare? No. Chiaro che no. Chiedere di più vorrebbe dire sfidare la vita.

E allora che fai? Butti via la moleskine e ti vai a fare una corsa.

Sperando che possa bastare.

 


 

 
 
 

Sciao bbello

Post n°181 pubblicato il 25 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

Mai detto niente contro gli stranieri. Mi vanno bene, mi stanno bene, viva viva l’integrazione e cincin.

Quello che invece non mi sta bene, o per meglio dire che mi incuriosisce alquanto, è come si comportano gli italiani. O meglio gli italiani con le straniere.

No perché io vorrei capire cosa avete voi uomini nella testa, e dico davvero. Ma senza polemica, giusto per capire.

Voglio dire, la camerierina carina, magari un po’ procace e scollata in un locale ci sta. Fa parte del pacchetto, come la gara a chi le spara più grosse, le olive e lo spritz.

Ma del pacchetto fa parte anche che la camerierina sappia scherzare con tutti, tenere a bada i galletti e fare il caffè. Soprattutto quest’ultima parte. Perché diciamocelo, anche se ti presenti per un posto da schiavo etiope devi avere un minimo di professionalità, saper fare 2 cose. Perché le cameriere straniere no?

Che poi c’è un motivo perché questa cosa mi dà da pensare: alle 2 e mezza vado a mangiare con i colleghi; prima si andava un po’ di qua e un po’ di là – lì no perché c’è troppa gente, là no perché sì, si mangia bene ma il mokaccino me lo fa sempre troppo schiumato e a me piace con la panna lo sai, e via così -  ma da qualche settimana si va sempre nello stesso baretto di fronte all’ufficio. Di andare da un’altra parte neanche a parlarne: perché? Perché è arrivata una straniera, credo cubana o giù di lì.

Ma neanche un granché poi: un po’ forte di cosce, seno piccolo… oddio seno: diciamo 2 calzini con dentro una moneta da 1 euro, via. E noi donne ci siam già capite.

Ma ha 2 occhioni che ci vedi il futuro, un sorriso che scalda e la grazia nel cuore.

In compenso non capisce quello che chiedi, non porta mai quello che hai chiesto. Lascia bruciare la piadina, te la serve lo stesso, se la ride di gusto e ti dice:

“Ahahahah… thezorro, ben cotta, sì?”

Capita una volta e ci ridi su. Capita 2 volte e lasci correre. Ma alla terza volta ti vien voglia di invadere tutta Cuba. O di mandarci 2 missili se proprio sei pigro.

E invece alzi gli occhi e vedi che ridono tutti, e il tuo collega – quello che con gli stranieri ci giocherebbe a freccette – che si sfrega la pancia e dice “Gnam gnam”.

Gnam gnam? Ma come, scassi le ventole tutti i giorni con la professionalità, mi fai fumare le orecchie con la serietà nel lavoro e poi arriva una così, che non parla nemmeno italiano e ti trasformi in Topo Gigio? Ma dài essù. E le lasci pure la mancia.

Che poi la colpa non è nemmeno della ragazza, bisogna dirlo. Lei è così e non lo fa neppure apposta.

E’ che quel suo essere “così” riempie il bar e soprattutto la cassa. Alla faccia della professionalità, di chi si fa un mazzo tanto e di chi nella qualità si impegna e ci crede.

Cos’avete voi uomini nella testa, avevo chiesto prima. Ma la risposta la conosco già. Perché a noi tutti – uomini e donne - piace piacere, e a qualcuno che ride alle tue battute perdoni ben altro che una piada bruciata. Se poi a farlo è un sorriso esotico di fronte ad un uomo alle prese con mutuo e famiglia, l’effetto decuplica.

Triste? No, perché alla fine non ci sono né vincitori né vinti: la ragazza ha il suo lavoro senza dover per forza imparare un mestiere, gli uomini si credono Gabriel Garko per una buona mezz’ora e le donne italiane… be’, le vere fortunate son loro: perché guardare un uomo che fa il giuggiolone è come vedere qualcuno che cade: fa sempre ridere.

Gli uomini delle altre, si intende.

Sciao belli.


 
 
 

A me piace così

Post n°180 pubblicato il 21 Novembre 2012 da pantouffle2011
 
Tag: uomo

 

Ma come ti piace un uomo? Mi chiede da un po’ di tempo in pvt un raffinato signore.  Non esattamente con  queste  parole, e nemmeno in questo senso.  Il riferimento è a una parte precisa di un uomo e a una ancor più specifica funzione. Ma perché limitarsi, alziamo la posta, e se devo rispondere, buttiamoci dentro l'universo maschile. E poi la domanda m’ha fatto pensare.

E’ vero che mi piace il bello del mondo ma non mi piacciono i belli. Mi seduce la voce, un odore, le spalle. Un sorriso accennato, uno sguardo sfuggito, l’intimità di un gesto apparentemente casuale.  

Mi piacciono giacche, cravatte e maglioni. Mi perdo per ore nei reparti maschili.

Mi piace la sensualità di un corpo normale, che parli di vita, di brio e di poche rinunce.

Mi piace chi bacia, chi si lascia baciare, chi è di corsa ma poi il tempo lo trova, chi si fa rincorrere ma si fa sempre afferrare.

Non voglio dover dire “Ma dimmi qualcosa”, molto meglio “Ma che caspita dici?!”. Mi piace chi parla per dire e che ha qualcosa da dire. Anche se non necessariamente a parole.

Mi piace chi sa fare il padre, anche di figli non suoi. Chi ha le sconfitte dipinte sul viso ma la vittoria nel cuore. Chi fa lo sbruffone per gioco e poi prende tranvate.  Chi fa il pagliaccio ma pagliaccio non è. Chi fa il serio e serio lo è.

Chi non ti promette il sole e la luna ma resta a guardare le stelle con te.

Mi piace chi non ha bisogno di mentire, nascondersi e giustificarsi. Mi piace chi sa litigare con forza perché vuole chiarirsi.

Ma soprattutto mi piace chi non ha riserve, chi nei rapporti si impegna,  ci crede ed insiste.

Chi non ha  più difese e ti dice: Son qua.

 

Chi non mi piace? Chi manda cazzate in pvt.

 

 


 

 
 
 

Happy Hour? Anche no.

Post n°179 pubblicato il 18 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

“Ti porto a bere un aperitivo. Conosco un posto, ma un posto, che neanche te l’immagini.”, dice Gianluca amico mio carissimo.

E invece me l’immagino, eccome. Perché io Gianluca lo conosco: se io son semplice, dammi un prosecco, 2 amici e son felice al mondo, lui no: ci deve essere la musica giusta, la gente giusta e devi poter bere “qualcosa di raffinato ma di non pretenzioso”.

E anche stavolta non si smentisce. Mannaggia a lui e mannaggia a me che ancora gli dò retta.

Arriviamo e all’esterno del bar c’è una fiumana di gente. Ma non gente qualsiasi: sembrano tutti vestiti per un provino di Uomini e Donne. Par dare un tono alla cosa un ebetone con il ciuffo è li che grida “Bella vita qui all’Evìta, su i bicchieri e giù le dita”. E lo pagano anche. Per fare l’ebete? Sì, ma per salvar la faccia lo chiamano vocalist.

“Non è bellissimo?”, mi chiede Gianluca, ma io lo sento appena, sto già artigliata alla maniglia della macchina per andare via. Gli va bene che non ho le chiavi. E nemmeno la macchina. E poi perché il proprietario mi sta guardando allibito. Vabbè, anche lui però. Mai sbagliato auto in vita sua? Essù.

“Sembri mia nonna Eusebia – mi apostrofa Gianluca – ma fatti una serata diversa, che sarà mai.”

Obietto che più che fare una serata diversa dovrei fare la baby sitter, data l’età dei clienti, ma quello non si smuove.

“Sono giovani va bene. Non puoi far la giovane anche tu per un paio d’ore?”

E vada per la giovane. Mi rassegno e torno sui miei passi.

Come sempre lui si muove come Mosè tra la folla, un saluto a questo, un abbraccio a quell’altro e baci a tutte. Sembra uno spacciatore di chiara fama.

Ad un certo punto mi arriva una gomitata pazzesca sulla schiena. Mi giro, un cirulino phonato a mille mi fa:

“T’ho fatto male, te lo faccio un massaggino?”

Un massaggino?! A parte che con quei capelli lì l’avrei preso a sberle solo per il gusto di spettinarlo, a parte che è talmente giovane che ancora dormirà con la lucetta di Topolino, ma voglio dire, chiedere scusa pare brutto? E fa pure lo spiritoso.

Non faccio a tempo a litigare che Gianluca arriva con i bicchieri.

Poi non lo so, sarà stato che mi sono rilassata, sarà stato che 2 prosecchi a stomaco vuoto hanno reso tutto un po’ confuso, fatto sta che mi sono divertita. Ho chiacchierato con un tipo, uno che è “tra un progetto e l’altro”, cioè disoccupato, un consulente, (ndr quando diventerò regina abolirò questa parola per legge, sappiatelo). Mi hanno anche invitato a una festa che spacca, che voglio dire, son soddisfazioni. Insomma, alla fine della fiera far la giovane m’è piaciuto.

Poi non so come sia andata: sarà stata l’umidità, sarà stato che ero poco vestita, sarà che esser giovani è diverso dal farlo, fatto sta che il giorno dopo, durante un movimento particolarmente ardito – come appoggiare lo spazzolino da denti sul lavello – mi è partita una fitta alla schiena che m’ha fatto veramente vedere la Madonna.

Conclusione: una giornata bloccata a letto.

Morale: la prossima volta che voglio far la giovane mi compro un ciddì di Justin Bibier. E l’aperitivo vado a berlo al chiosco di Gino Varechina. Che almeno lui c'ha un bel tendone che ti ripara dall’umidità.

Caramente Vostra, Nonna Eusebia.


 

 
 
 

Non guardare indietro, ci sei già stato. Charlie Brown

Post n°178 pubblicato il 14 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

L’ho incontrato un po’ di anni fa, l’ho rivisto stamattina. Non ero dove avrei dovuto essere, mi sono ritrovata dove avrei potuto forse essere se le cose fossero andate diversamente. Cioè con lui.

Stessa faccia un po’ così, quel sorriso di chi lo sa che non gliene puoi raccontar di giuggiole. Quella testa rasata (quasi calva?) che tante volte ho accarezzato, chiedendo:

“Senti ma, com’eri da normale?”

E lui ciumbia se si arrabbiava, perché se io sono principessa lui è il re dei permalosi. Ma era solo un pretesto per poi far pace.

E’ finita perché eravamo diventati altro rispetto a quando ci eravamo conosciuti, perché era solo il ricordo di noi e di quello che era stato a tenerci insieme. E chi ha avuto tanto non si può accontentare di poco, sicuramente non dalla stessa persona.

Inevitabile che finisse, e che finisse male, perché le storie veramente importanti solo così si possono concludere. Ci siamo massacrati anche per il nulla, spinti dalla frustrazione di non saper più far funzionare un sogno. Perché per mettere una fine, hai bisogno di frapporre delle cose brutte tra te e quell’assurdo desiderio di far rivivere un passato che altrimenti ti incatenerà per la vita. Perché solo così potrai tornare a vivere.

Rimpianti non ne ho, ma uscirne è stata dura. Tornassi indietro, lo lascerei di nuovo.

Ma per un attimo, un solo attimo, mi son ritrovata a chiedermi chi gliel’accarezzava adesso quella testa. E la tentazione di farlo io è stata grande.

 


 

 
 
 

Il vero, il falso e ARGO

Post n°177 pubblicato il 12 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

In un paese lontano lontano chiamato Iran viveva una volta uno Scià dal nome Reza Pahlavi. Avrebbe potuto uccidere i genitori per averlo chiamato così, è vero, ma poichè alla fin fine era un bravo ragazzo, preferiva uccidere i suoi oppositori. Oppure li torturava. Ma non tanti, neanche 3.000, impossibile vederci della cattiveria. Era più che altro una festa sfuggita di mano, ecco.

Reza Pahlavi aveva una fissa: la  modernizzazione del paese. Anche la bella vita, spendere spandere e le belle donne vabbè, ma chi può dargli torto. Sei Scià e ti prendi una cessa? E chi ci crede… E poi lo dice anche il proverbio: Chi divide il bene e non se ne tiene, neanche il diavolo gli vuol bene. Essù.

Che poi lui era convinto che tutto il paese vivesse come lui: andava nei ristoranti ed era tutto pieno, andava a Cortina e non c’era un buco libero… pensa un po’, è dal ’78 che sentiamo questi discorsi.

Succede allora che ti scoppia una rivoluzione che essendo tale – e perdipiù iraniana voglio dire – non era propriamente a colpi di raccomandate e velate minacce di chiamare un avvocato. Manco per niente, si andava giù di impiccagioni e decapitazioni in piazza. Ma sereni, proprio.

In questo bel clima da pic nic domenicale capita quindi che un centinaio di sciamannati facciano irruzione nell’ambasciata americana e sequestrino 52 persone.

“Rivogliamo lo Scià”, gridano.

Per rimetterlo al loro posto? Macchè. Per ammazzarlo a martellate e seppellirlo in giardino per processarlo civilmente con tutti i crismi. E poi ammazzarlo a martellate.

Intuendo chissà come che l’aria era come dire, un po’ pesante, 6 funzionari americani riescono a fuggire proprio un attimo prima dell’irruzione e trovano rifugio nella casa dell’ambasciatore canadese.

Da questo prequel che ho fatto durare quanto una quaresima (ma quanto simpatica sono?), parte il film vero e proprio che può essere riassunto con 2 frasi di Alan Arkin, (lui sì che ha il dono della sintesi):

“Avete 6 persone nascoste in una città dove in 4 milioni cantano morte all’America per tutto il santo giorno. In una settimana volete un film, volete mentire a Hollywood, la città dove si mente per vivere, poi far entrare lo 007 qui presente in un paese che beve sangue della CIA per colazione e far poi uscire la famiglia Brady dalla città più controllata del mondo. Tutto qui?”

Tutto qui. Non male vero?

Non male no e il film scorre via che è un piacere. Avvincente la trama, dialoghi d’effetto, ironia a gogò, suspence a 1000 fino all’ultimo fotogramma, anche se già conosci il lieto fine; aggiungici che è una storia vera – anche se romanzata – e ti trovi un gioiellino come non se ne vedevano da anni.

Quindi, se avete occasione, fatevi un regalo: andate a vederlo.

Poi non dite che non ve l’ho detto. Ciao guys.


 

P.S. Le dichiarazioni pubbliche durante la rivoluzione erano spesso lette da donne. L’ambasciata americana è stata presa d’assalto anche da donne. Le manifestazioni in piazza erano piene di donne che urlavano e chiedevano libertà. Visto com’è andata a finire, mi sa che è ora di finirla con questa menata dell’intuito femminile.

 
 
 

In ufficio passa un corriere

Post n°176 pubblicato il 09 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

In ufficio passa un corriere, di quelli che consegnano pacchi e pacchetti. Ogni 2-3 giorni, a volte anche più spesso.

Non è brutto, ma è piccolo, sgraziato e parecchio trasandato. Credo si lavi a cadenza semestrale, come le auto. Chi entra dopo di lui ci chiede spesso se non nascondiamo un cadavere da qualche parte.

Ogni volta butta lì i pacchi con malagrazia, manca solo che li prenda a calci.

Ogni volta lo saluto e gli chiedo come sta, lui mi grugnisce che ha fretta. Firmo veloce la bollettina di consegna, lui bestemmia sottovoce perchè “scrivo che non si capisce un’ostia”

Il caffè invece lo accetta sempre, ma non ringrazia mai. Lo butta giù di corsa, come una medicina; mi guarda appena, poi scappa via.

“Buon fine settimana, riposati”, gli ho detto oggi.  

“Anche a te” – ha bofonchiato lui. 

O “Vaffanculo”, non lo so, con lui sono possibili entrambe le risposte.

“Tu sei scema – dice sempre Collega 1 – una volta o l’altra mi stufo e mando una lettera di reclamo alla sua sede.”

Sarebbe facile, in effetti; anzi, probabilmente sarebbe anche giusto; perchè di gente meglio di lui è pieno il mondo.

Il fatto è che io quel corriere lì lo so chi è.

Suo padre la sera chiudeva a chiave in casa lui e i suoi 4 fratelli e poi usciva con la madre.

Per andare a ballare il tango? Per passar 2 ore spensierate all’apericena? No. L’accompagnava sulla statale a battere. Tutte le sere, per anni. Fino a quando la poveretta non ce l’ha fatta più e ha abbandonato marito,  figli e la fila di camionisti che per anni avevano assistito al suo tormento.

Troppo piccolo il paese, troppo grandi i pettegolezzi perché lui non ne abbia mai saputo nulla. Ma ha avuto il coraggio di non andarsene e la dignità di trovarsi un lavoro onesto.

Chi se ne frega se non è gentile. Che m’importa se non mi sorride. E’ già bravo a non essersi attaccato a una bottiglia. Forse al posto suo me ne starei sul divano, ubriaca, a guardare il TG4 in replica.  Chi può dirlo.

Non credo che le difficoltà passate possano giustificare il presente di nessuno, siamo sempre e solo quello che decidiamo di essere. Ogni giorno. Sono allergica ai pietismi, intollerante ai buonismi e la compassione facile mi fa venir le rughe.

Perché lo faccio allora? Perché sono gentile con lui?

Perché magari non gliene frega niente, perché probabilmente non se ne accorge nemmeno, ma mi piace credere di potergli dare qualcosa che non ha mai avuto: qualcosa gratis, qualcosa che non si è dovuto guadagnare.

Magari da stornare dal debito che la vita ha con lui.

 


 

 
 
 

The best is yet to come

Post n°175 pubblicato il 07 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

Io non so se Barack Obama sia il miglior presidente possibile. Non so nemmeno fino a che punto in un momento come questo, di crisi e compromessi, l’elezione di un presidente, per quanto importante, possa ancora fare la differenza. Però… ciumbia che uomo!

A parte che è un tocco di figo che quanto a eleganza ha da insegnare a tutti noi, a parte che ha un fascino che io con lui 2 capriole sulla Stars and Stripes me le farei eccome e poi chi ci pensa più, ma voglio dire: come parla quell’uomo lì? Avete mai ascoltato i suoi discorsi? Io sì, in lingua originale of course. Perché sennò ti perdi tutto il brivido.

Mio papà dice sempre che la maggior parte delle persone conosce solo 300 parole; ma che chi ne conosce 320 comanda il mondo. Mai cosa fu più vera con Obama. Perché lui è un oratore nato, uno che con le sue parole ti porta via; ti butta lì nomi come Franklin Delano Roosevelt, Abramo Lincoln, (era dalle medie che non sentivo questo nome), ti cita insieme Martin Luther King, Richard Wright, James Baldwin e Eisenhower: è uno che fa discorsi ispirati e ispiratori, che ti fanno sentire migliore. Se di mestiere non facesse il Presidente, sarebbe sicuramente un predicatore, un trascinatore di folle, un fondatore di sette. Per non dire di come ti venderebbe i set di pentole.

Noi partiamo deboli, va detto, perchè se sei abituato a politici che ti parlano del Pulcino Pio o del Pupazzo Gnappo, poi per forza che il primo che se ne esce con un nome un po’ diverso già ti mette in soggezione. Non vedi l’ora di fare un figlio per chiamarlo come lui.

E poi è una vittoria non scontata, che arriva alla fine di una campagna elettorale più adrenalinica di un inseguimento di James Bond.

Non che abbia mai ritenuto Mitt Romney un degno avversario, sia chiaro. Con quelle camicie da ragioniere, quell’aria da fanatico del barbecue domenicale, non lo so, non m’ha mai convinto. Troppo barzotto, solo la sua arroganza era presidenziale. E poi son sicura che di preciso preciso non sappia nemmeno dove stia l’Italia. O la Spagna. O la Libia. Ma non era lui l’avversario che Obama ha dovuto affrontare, non lo è mai stato.

L’unico vero avversario di Obama è sempre stato sé stesso. Anzi, il sé stesso di 4 anni fa: quando era ancora più bello, più giovane, più nuovo: quando ancora ti raccontava le favole e ci potevi credere. Perché, diciamolo, Obama è uno che ti regala il sogno, ti porta nella fiaba. Il problema semmai è che questa favola non finisce esattamente con “e vissero felici e contenti”. E di felici e contenti, fra disoccupati e disperati, ce ne sono davvero pochi. E a un Presidente tutto puoi perdonare - guerre finite male, bugie e maneggiamenti vari – ma non puoi passar sopra al fatto che dopo averti promesso il mare la luna e le stelle ti dice non ha fatto in tempo. Che ha bisogno di altri 4 anni. Come se Babbo Natale ti dicesse di aspettarlo il 6 gennaio.

Ma ha vinto, e questo è l’importante. E se l’ha fatto, è stato grazie alla cattura di Bin Laden, a una storica riforma sanitaria e a un discutibilissimo Nobel per la pace.

Chissà che entro 4 anni non arrivino anche il sole la luna e le stelle.

 


 

 
 
 

Quella gente là

Post n°174 pubblicato il 05 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

Lavoro in un bel posto. Dico davvero. Gente simpatica, divertente. Un Capissimo che definire informale è poco. Solo oggi, incrociando me e le mie colleghe all’uscita se n’è uscito con: “Mamma che belle ragazze che c’ho.. avessi 20 anni di meno, tutte e 3 vi tromberei!”

Anche 50 anni in meno, ma non stiamo sempre a guardare il pelo. Comunque non diresti mai che gira in elicottero, che mantiene uno skipper, e che ha più case lui di quanti scarpe abbia io. E non parliamo di numeri piccoli, sia chiaro.

L’unico neo di questo lavoro, l’avrò detto 1000 volte, è il capufficio. Più che un uomo una rogna, una zavorra, una colica renale. Simpatico come il portone di un cimitero. Affabile come Polifemo. E poi litiga con tutti. Con il postino, il personale, con la macchinetta del caffè.

Adesso ha intrapreso una personale crociata contro i lavori in corso sotto l’ufficio. Non è che abbia tutti i torti, sia chiaro, perché non puoi chiudere 500 metri di strada da oltre un mese. Si stanno affossando attività, mettendo in difficoltà chi in quella zona ci abita e ci lavora. E con questa storia di appalti e subappalti sarebbe anche ora di finirla. Per questo capisco che vedere solo 2 operai – e sottolineo 2 operai – che ci lavorano, faccia salire la pressione. Condivido invece molto meno il suo modo di affrontare la questione.

Ti dà fastidio il fanghino che sollevi con la bici e hai paura che la polvere ti opacizzi lo zainetto porta pc che ti metti sulle spalle? Fai un reclamo in Comune. Ti dà fastidio la ruspa con la benna imbizzarrita che sembra volerti spalmare sul selciato te e la tua bici? Fatti delle domande e chiediti perché il mondo ce l’ha con te. Invece no. Lui non si pone domande e soprattutto non le pone agli altri. Perché lui “non si mette al livello di quella gente là”. Inutile dire che la categoria “quella gente là” comprende operai, extracomunitari e chiunque non possa esibire una laurea. Perché dietro quell’aria da fighetto urbano si nasconde una malcelata nostalgia per elmi cornuti, clave, forconi e quant’altro necessario per ricacciare indietro l’invasore becero e ignorante.

Per questo stamattina l’abbiamo improvvisamente visto rianimarsi; un mega suv parcheggiato in mezzo alla strada, un telefonino che squillava con insistenza e un omone apparentemente indaffarato: in poche parole, un capo. Un suo simile. Uno con cui parlare.

Per farvi capire quanto fosse alta la sua stima, vi dico solo che per parlargli non si è nemmeno messo a  urlare dalla finestra, come fa di solito, ma è addiruttura sceso nella via. È o non è un gentiluomo?

Gli ha spiegato le sue ragioni, gli ha motivato le sue proteste, gli ha mostrato la bici inzaccherata.

Il capo cantiere ha continuato ad annuire – ma soprattutto a telefonare – concludendo il tutto con una calorosa pacca sulle spalle (uno spintone?), e salutandolo con un cordialissimo:

“Ho capito tutto dottò, ma adesso levati di ‘ulo che m’hai già scassato ‘a minch...”.

Povero capufficio, vita dura per gli intolleranti. Tradito anche dai suoi simili.

Mi sa che il file “quella gente là” s’è allargato un altro po’.

 


 
 
 

Jumping the line

Post n°173 pubblicato il 04 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

 

“Se metti paletti troppo alti intorno a te, finirai per restarne prigioniera tu per prima.”, mi ha ripetuto per anni la mia amica Monica.

Io lì per lì reagivo a molla, come sempre, ma siccome di lei avevo grande stima, poi ci pensavo su. E per quanto la cosa mi bruciasse, dovevo riconoscere che le sue parole non erano del tutto campate in aria.

Oddio, non è che io abbia mai tenuto lontane le persone con il bastone, questo proprio no, diciamo che ero selettiva, ecco. Lo sono sempre stata. Non tanto nelle amicizie, dato che a me l’essere umano non smette mai di affascinare, quanto piuttosto nella sfera sentimentale.

Uno non andava bene perché parlava troppo, l’altro no perché parlava troppo poco, quell’altro ancora no perché il pallone se lo portava via: insomma, una principessa sul pisello. O una Pausini che aspettava il suo Marco alla stazione, se preferite.

Ma non è che cercassi solo quelli belli, ricchi e fichi che mi portassero sulla loro isola ai Caraibi, tutt’altro.

La verità era che avevo paura: quando cresci in una famiglia come la mia, impari presto che i sentimenti possono fare molto male. Se dovevo patire, che almeno ne fosse valsa la pena. Non volevo essere solo io a perderci la testa.

Poi negli anni di mazzate ne ho date, altrettante ne ho prese, perché sbagliare sbagliamo tutti. Ma ogni volta c’era la convinzione che potesse essere qualcosa di bello e di unico. Non erano mai storie nate già finite.

Mentirei però se dicessi di non essermi mai sentita inadeguata, diversa. Sarei bugiarda a non ammettere di aver rosicato nel sentir raccontare di notti al chiaro di luna davanti ad occhi di brace conosciuti 2 ore prima. Ma ho sempre dovuto fare i conti con me stessa e non puoi chiedere ad un gatto di diventare un leone.

Oggi all’aperitivo ho rivisto Monica. Un divorzio alle spalle, una separazione recente e un nuovo figlio in arrivo. Che crescerà senza padre, perché lui, a 40 anni, non si sente ancora pronto per le responsabilità.

Mi sono tornate in mente le sue parole di quand’eravamo ragazze, la sua spensieratezza di allora così diversa dalla rassegnazione di oggi.

E al di là del dispiacere per lei, ho capito con chiarezza una cosa: se metti l’asticella delle aspettative troppo in basso, anche  i vermi potranno  passare. E poi tocca anche disinfestare. Resta sempre da chiedersi se ne sia valsa la pena.


 

 
 
 

007, Sky Fall e l’imprevisto

Post n°172 pubblicato il 02 Novembre 2012 da pantouffle2011
 

Allora. Non è che io sia proprio paurosa. Ma nemmeno una donna d’avventura. Insomma, una mezza pippa, diciamo. Ecco perché certe situazioni le evito.

Ma se vado a vedere un film di 007, cosa vuoi che mi aspetti? 80 chili di muscoli monoespressivi, testosterone a 1000, zilioni di gadgets da giuggioloni, Aston Martin e cosce toniche. Questo mi aspetto da James Bond. Al massimo due corse in moto toh. Ma va bene anche il drago di Komoro e un Bardem biondo. Ma mai e poi mai mi aspetterei di prendermi un coccolone di quelli che si ricordano a vita. Mai.

Ma la colpa, va detto, non è nemmeno di James Bond, e neanche di Sua Maestà la Regina. La colpa è del milione e 2 di trailers e pubblicità che mandano in onda prima della proiezione. Che voglio dire, se posso tollerarlo nel vecchio cinemino in centro, mi dà un cicinin di fastidio nella multisala modernissima. Per cui, caro Mega Gestore del pippio, se mi scrivi che il film comincia alle 17.00, perché devi saccagnarmi le pellicole fino alle 17.30 bombardandomi di trailers non richiesti e spot di svuota cantine? Se i posti sono numerati e non si può entrare a proiezione iniziata, perché non puoi cominciare il film in orario? Devi aspettare che la Gina si metta la dentiera e riesca a trovare il suo posto al buio? No, perché quello lo facevano anche al cinema Modernissimo: ma tu e quelli come te lo avete fatto chiudere anche per questo.

Però non sarebbe nemmeno quello il problema. Il dramma, quello vero, è che i trailers vengono mandati un po’ come capita. Tipo che se vai a vedere I Ponti di Madison County, per dire, preparandoti a 2 ore di pianti e sospiri, ti mandano il trailer di roba come Scream o di Harry Pioggia di Sangue. E così la predisposizione d’animo fa cin cin. E non vi dico cosa fanno le budella.

O se vado a vedere un polpettone adrenalinico come Sky Fall, come puoi pensare di mandare prima uno spezzone di Possession? Come puoi, dico come puoi, anche solo pensare che mi possa interessare? Io quei film lì addirittura li evito, perché mi turbano, mi fanno star male, me li sogno di notte.

E invece no, ti colpiscono a tradimento quando meno te lo aspetti. Quando sei tranquillo al buio, spaparanzato sulla sua poltrona, mangiando i pop corn, bevendo la coca: quando sei vulnerabile. E cosa fanno? Proiettano qualcosa che ti ingroppa i peli sulla schiena. E fra spiriti maligni, tentati esorcismi e occhi che ruotano, può capitare che proprio nel momento di una micidiale forchettata tu senta la mano di qualcuno appoggiarsi sulla tua spalla. Allora è OVVIO che cacci un urlo da spaventare quelli della fila davanti. E anche quelli della fila dietro, se è per quello. Compreso il malcapitato proprietario della mano che lancia un urlo di riflesso pure lui. Poco importa che ti volesse solo dire “Scusa ma ti sei appoggiata sul mio giaccone”. Ma vaffanculo te e tutto il tuo guardaroba, voglio dire. Va a far morire di crepacuore qualcun altro.

E mentre tuo marito se la ride come un matto (e anche un po’ fa finta di non conoscerti, secondo me), il poveretto dietro passerà tutto il film con la morosa che gli continuerà a chiedere, “Ma cos’è successo..? Cos’è successo, DIMMI!”. E lui non riuscirà a spiegarglielo perché non potrà smettere di sghignazzare.

Ma, ci tengo a precisare, la colpa non è mia: è dei Mega Gestori che ci costringono a subire chili di pubblicità e trailers.

A parte quello, Sky Fall mi è piaciuto.

 


 
 
 

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