Creato da pantouffle2011 il 28/09/2011

JAMBOREE

dove parlo, sparlo e soprattutto sproloquio

 

 

Sabato e simpatia

Post n°211 pubblicato il 27 Maggio 2013 da pantouffle2011

 

Sabato sera a cena con amici e soprattutto amici di amici, mi son sentita dire che:

“Guarda, stasera son proprio felice. L’Alberto ha finalmente deciso di dire di noi due a sua moglie. Per questo adesso è in crociera con lei sul Mediterraneo, così glielo dice. Siamo così felici insieme… Oh ma scusami, lo vengo a dire a te che sei sposata dal medioevo, ormai certi batticuori nemmeno te li ricordi… Ti sarai mica offesa vero? ”

Offesa? Ma no, perché…. Se non ti offendi tu a farti raccontare certe balle, che neanche più Cenerentola se le beve, perché dovrei offendermi io?

Non faccio nemmeno in tempo a reindossare il mio sorriso da chi-m’ammazza-a-me, che mi arriva quell’altra sua amica che io vedo (malvolentieri), un paio di volte l’anno.

Come stai, che lavoro fai adesso, solite chiacchiere da pilota automatico.

“Ma povera… certo che deve essere dura per te ricominciare daccapo… in mezzo a ragazze tutte più giovani e più preparate di te

Cioè. Se io riconosco di essere l’ultima ruota del carro nel mio nuovo posto di lavoro, non vuol necessariamente dire che le altre siano tutte meglio di me, ma solo che sono arrivate prima. Primo. E secondo, tu che spacci per lavoro quelle due ore che vai ad aprire la corrispondenza nell’ufficio di tuo padre e per questo ti credi una top manager, che

ne sai di cosa voglia dire trovarsi improvvisamente senza lavoro, del dover abbassare a zero le proprie aspettative, della frustrazione del doversi accontentare di niente ed essere anche contenti per questo? Che ne sai, dimmi.

Ma decisamente non è la mia serata perché a tavola capito giusto giusto tra una fanatica lucidatrice di superfici smaltate e la regina di tutte le mamme. Ovvero, tra Inutilità nei Secoli e Noia Eterna. E dopo ¾ d’ora buoni di racconti di pianti, svezzamenti, e aggiornamenti sulla difficile e quotidiana battaglia contro quei delinquenti degli acari, dove io partecipo come posso, ovvero scolandomi del prosecco e buttando un occhio sul cameriere (niente male tra l’altro), ecco che ti arriva il momento clou. Quello che sapevo benissimo sarebbe arrivato.

Momento di pausa, scambio di sguardi e…:
Tu ancora niente figli vero?

Ta-dan! Eccola là: la domanda topica, lo spartiacque tra tutte le donne arrivate e appagate e il resto del mondo. Poco importa se al loro arrivo la figlia di 4 anni esibisse una strana ferita sanguinante su una guancia rivelatasi poi un rimasuglio della marmellata della merenda (alle 8 di sera!), loro saranno sempre donne complete e tu no, perché loro hanno assolto al loro compito sociale e tu no.

Ma c'è stato qualche problema, magari?, rincara Madre Coraggio.
Davvero, io vorrei aver avuto un soldo per ogni volta che mi è stata rivolta questa domanda.

E un altro soldo per ogni volta che in risposta mi sono sentita inadeguata, incapace, immatura, esaminata e giudicata.

E anche stavolta non fa eccezione.

Perché non c’è una risposta che puoi dare, quando qualsiasi spiegazione sarebbe troppo personale, delicata.

Meglio allora un silenziosissimo, accorato ma sentito vaffanculo. Che in fondo è come il nero: va su tutto.

 


 

 
 
 

Ma non era meglio giocare al dottore?

 

Son sempre stata contraria alla pena di morte. E lo sono ancora. Ma quando di sabato mattina vengo svegliata da due pazzi che litigano e si insultano a sangue, devo dire che neanche l’idea di offrire sacrifici umani non mi sembra più così strampalata.

Il fatto è che vicino a me abitano 2 ragazzi. Giovani, troppo giovani per essere marito e moglie. E soprattutto per avere due figli, dal momento che loro per primi avrebbero bisogno di essere accuditi.

Invece son stati sistemati dai cattolicissimi genitori in quello che doveva essere il loro nido d’amore, dove giocano a fare gli adulti. E sotto certi aspetti sembra che vada tutto bene: un lavoro fisso lui, il sogno della perfetta casalinga bello pronto per lei, le prove nel coro della chiesa un paio di volte la settimana e un cinemino di tanto in tanto. Con l’arrivo del maschietto prima e della femminuccia poi è sembrato che niente e nessuno potesse scalfire quest’angolo di paradiso in terra. Tanto tutto è perfetto, ordinato e prevedibile: non manca nulla. Tranne forse una vita che sia scelta da loro, e non il prolungamento di quella di mamma e papà.

Ma se vederli giocare a fare i genitori fa sorridere per l’ingenuità (non c’è giacchettino o tutina che non abbia le orecchie, qualcuno dovrebbe dire loro che non hanno partorito dei conigli), è quando litigano che l’inesperienza salta fuori. Perché se a far la coppia innamorata son buoni tutti, è di discutere che bisogna essere capaci. Capaci di andare fino in fondo senza aver paura  di farsi del male veramente, per liberarsi dalle catene, oppure litigando in maniera costruttiva, senza abbarbicarsi in posizioni granitiche, incontrandosi piuttosto sui dubbi.

Ma loro no, son giovani che giocano a fare i grandi. Che ne possono sapere.

E la scena si ripete all’infinito.

Cambiano i pretesti (il colore delle rose da piantare in giardino, uno dei conigli uno dei bambini vestito troppo leggero/troppo pesante, etc.), invariato il clichè: lei che grida cattiverie con una voce che taglia anche il cemento, buttandogli addosso senza dirlo la stanchezza, la frustrazione dei suoi chili in più, dell’università mancata e chissà che altro.

Lui si nasconde dietro ad un taglio da 50enne, alla sua vita di uomo in beige, ma non è l’apparenza e nemmeno un lavoro che possono fare di lui un uomo: e si capisce che vorrebbe solo sparire.

Lo sa lei, lo sa lui. Per questo, invariabilmente, arriva la resa.

Lui allunga le braccia lungo i fianchi, abbassa un po’ la testa e rimane zitto, rinunciando a replicare e a difendere le proprie ragioni. E per quanto strano possa sembrare, quell’unico gesto fa sempre pensare che se lei un giorno decidesse di passare alle mani, lui si lascerebbe volentieri ammazzare. Tanta è la rassegnazione.

Per tutto questo e per altro ancora, quando stamattina ho sentito urlare per l’ennesima volta “Io mi ammazzo di lavoro tutto il giorno per star dietro ai TUOI figli mentre tu te ne stai a perder tempo in ufficio”, m’è venuta voglia di sacrifici umani. Ma non tanto dei due ragazzi che alla fine hanno colpa sì, ma fino ad un certo punto, quanto quello dei genitori che hanno creato questa mentalità e questa situazione.

Perché se è vero che la superficialità fa dei danni, anche certi ideali inculcati dai genitori mica scherzano.

E se trasmettere dei valori ai figli è fondamentale, insegnare a ragionare con la propria testa lo è infinitamente di più.

Amen.


 

 
 
 

Bugiardi senza gloria

Post n°209 pubblicato il 07 Maggio 2013 da pantouffle2011
 

Non so a voi, ma a me rifilano delle balle da paura. Nei rapporti veri no, quelli no, o almeno così mi piace credere. Ma nelle conversazioni casuali, quelle fatte mentre aspetti l’ascensore o sei in fila al banco dei freschi per dire, quelle sono veramente robe da paura. Sei lì tranquilla, chiedendoti magari se troverai ancora la macchina che hai lasciato in sosta vietatissima e pim pum pam, ti arriva la balla.

Tipo qualche giorno fa, ho incontrato un mio ex vicino di casa.

“Ma che bello rivederti, come stai bene… - momenti mi bacia – Parlo spesso di te con mia moglie e proprio ieri ci chiedevamo, ma chissà come sta Manuela?”

E che ne so. Io mi chiamo Michela. Poi sono 100 anni che non mi vedi, ci mancherebbe altro che parlassi di me con tua moglie. Dimmi ciao e sono a posto. Non ti chiedo nulla, non ti devi giustificare di niente, perché mi devi raccontare una balla? Altro che farmi piacere, così mi mortifichi.

Poi t’incontro il titolare di un negozio di abbigliamento dove vado spesso. Abbronzato come un chicco di caffè, sente il bisogno di dirmi che è stato ai Caraibi. Bene, mi fa piacere.

“Sì, ogni anno mi faccio un paio di settimanine a Cuba… lo faccio per le foto, sai ne ho scattate di bellissime. Non mi credi?”

Certo che ti credo. Come credo che Hitler amasse gli ebrei: prova ne sia che non chiedeva loro nemmeno 1 euro di treno, voglio dire. E non è che ne abbia portati in giro pochi.

Ma il punto non è nemmeno quello. Che io ti creda o meno è del tutto irrilevante. Che m’importa se gli unici paesi che visiti sono la Thailandia, l’est europeo e i Caraibi? Se sta bene a tua moglie sta bene a tutti.

Il punto è che le bugie, perlomeno quelle piccole, fanno ormai parte della nostra vita, come il cellulare, l’invidia tra colleghie e la bolletta della luce.

Sono sempre necessarie? No, ma ormai ci vengono talmente naturali che non ci accorgiamo nemmeno di dirle. Perché se su quelle grandi ci facciamo (forse) qualche scrupolo, quelle piccole ci vengono così, automatiche come le tabelline imparate da piccoli.

Se sia davvero grave non lo so, ma così a spanne direi di no. Al massimo lo definirei un peccato veniale.

Quello che è certo è che mentre il naso si allunga, si accorcia invece sempre di più la distanza tra uomini veri e quaquaraquà.

E questo sì che è grave.

***

A proposito, vi ho detto che la bella bellissima statuina a forma di passero sull’albero che mi ha regalato la zia Matilda si è rotta? Era lì sulla mensola… ed è caduta da sola, pensate un po’.

Ma quanto mi dispiaceeeee….



 


 
 
 

Una roba che mi fa morir di noia

Post n°208 pubblicato il 28 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

 

Una roba che mi fa morir di noia è l’ansia da prova costume. Una roba che mi fa morir di nervoso invece è l’ansia da prova costume sia procurata dal marito/moroso/amante.

Anzi no, solo i primi due, perché il terzo, proprio per la sua natura, alla prova costume ti ci fa arrivare in forma. E anche con un bel sorriso mi vien da dire.

Ma torniamo a noi.

Cellulite, dieta dell’acqua, del sole, chili di troppo: la noia in terra. Recriminazioni, lagnanze indelicate in momenti inopportuni sul reciproco peso e forma: un attentato alla coppia.

Ecco perché quando mi imbatto in una voce fuori dal coro mi suona subito la campanella della meraviglia. Come ieri  per esempio.

Stavo provando l’ennesimo paio di jeans a quella santa bimba di mia nipote, che li voleva come la sua amica Tina. (Ma come sono quelli della tua amica Tina amore? Sono azzurro-blu zia… hai capito come? Ma certo. Che il Mago Otelma alla zia le fa un baffo si sa. Infatti eravamo solo al 19mo tentativo e la ricerca si prospettava ancora lunga.)

Comunque, mentre son lì che tento di convincere quella vipera quell’amore di bimba che i jeans che sta provando non saranno – forse – come quelli della sua amica Tina, ma che sono sicuramente più belli di quelli di chiunque altro, dal camerino di fianco esce una signora sui 60: bel sorriso, un colore meraviglioso di capelli, un po’ in salute.

Salute (tanta a dir la verità), evidenziata al massimo dal pantalone superfasciante che stava provando.

Mentre è lì che si affanna per tirar su quello che su non può essere tirato perché i centimetri di stoffa sono piuttosto limitati, eccola che sbuffa rivolta al marito:

“Devo aver messo su un paio di chili in più, ma a te non importa vero Giulio amore?”

M’aspetto un borbottio indistinto del tipo, “Due chili certo… e degli altri 10 che avevi già preso ne vogliamo parlare?”

“Certo che no – risponde invece prontamente Giulio Amore – tu per me sei sempre bellissima lo sai.”

Boom! Che risposta. Che uomo. Sono colpita. O è l’uomo più innamorato del mondo oppure il miglior bugiardo dell’universo.

In qualsiasi caso gli sorrido: per simpatia, per solidarietà, per la sorpresa.

In quel momento la signora esce dal camerino, non so se vede la scena ma sbotta:

“Ma che avrai mai sempre da sorridere come un pirla?  E stai dritto con quella schiena che sembri mio nonno Gaspare....”

E lì ho la conferma che il problema di certe donne non è che sono grasse: è che sono stronze.

E in quel caso i chili in più si vedono tutti. E la stronzaggine pure.


 

 

 
 
 

La Badante

Post n°207 pubblicato il 22 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

 

Che non è il titolo di un film porno, va detto.

Per cui quelli che un po’ ci hanno sperato possono anche passare ad altri blog. Mi spiace ragazzi, sarà per un’altra volta.

Parlo della badante di mia mamma, la signora Olga. Un donnone con due spalle così, buona come il pane, anche quando con la determinazione di Hitler gira e rigira mia mamma con la stessa facilità con cui il pizzaiolo ti fa roteare la 4 stagioni. Una roba da paura.

Penso a lei perché mi fa pena, povera crista, perché è una brava donna, di un’umanità pazzesca, come è difficile da trovare a volte anche tra gli amici di sempre. Una che dovrebbe essere arrabbiata con il mondo per la vita che fa oggi, per quella che faceva fino a ieri e in misura preventiva anche per quella che farà domani. E invece mi accoglie sempre con un sorriso da un orecchio all’altro, e mi dice, “Non è una bellissima giornata per essere felici? Sì?”

Come riesca a trovare la forza lo sa solo lei.

Voglio dire, è scappata da un marito che prima beveva, poi la picchiava, poi beveva di nuovo. Ovviamente con i soldi guadagnati da lei, perché fra bere e menar le mani di lavorare neanche a parlarne: d’altra parte le ore in una giornata son quelle, non è che uno può far miracoli.

Ha lasciato un posto che non esiste nemmeno nella cartina geografica, a 2 galassie e mezza da qui, per venire in un paese che non è il suo, che non parla la sua lingua, che neanche si sforza di farsi capire, e che la guarda dall’alto in basso solo perché è straniera. Avesse almeno 2 tette così, magari un paio di amici se li farebbe anche, e invece no, nemmeno quello. Voglio dire, c’è gente che si droga per molto meno.

Ma la signora Olga no: ha stretto i denti, probabilmente anche la cinghia, e alla fine è riuscita a far arrivare in Italia anche 3 dei suoi 4 figli.

E uno pensa, ma che bello, finalmente un po’ di tranquillità. No, macchè.

Perché? Perché almeno uno dei figli è deficiente, ecco perché. Ma un deficiente vero.

Oddio, se lo guardi così, ciao ciao, sembra normale. Non tanto alto, magro, l’espressione non proprio sveglia magari, ma normale.

A parte i capelli naturalmente. Che sono azzurri. Azzurro Puffo. Con la cresta. Ma a parte quello normale.

Lascia stare che a scuola son più i giorni che fa sega di quelli che frequenta; che da quando è in Italia son state più le risse che le docce che s‘è fatto. Si dovrà ambientare, chi lo sa. Ma è quando gli parli che ti rendi pienamente conto del dramma.

“Allora… com’è che ti trovi in Italia?”, gli ho chiesto ieri, tanto per dir qualcosa. (D’altra parte quando una è originale, è originale.)

Mi guarda un po’ così, nemmeno mi risponde poi mi chiede:

“Tu sai fare questo?”

Prende un bicchiere dal tavolo e se lo infila quasi completamente in bocca, dalla parte più larga, strabuzzando gli occhi nello sforzo. Mi domando come faccia a farcelo stare. Poi prende della mollica di pane, la appallottola ben bene e se la infila in una narice. Ci sta anche quella.

Mi domando quante prove abbia fatto per diventare un simile fuoriclasse.

La tentazione di sfidarlo a mettersi una pallina di pane anche nell’altra narice per vederlo contorcersi senza respirare sarebbe grande, ma la visione di sua madre che si dispera sulla sua tomba mi fa desistere.

Ne ha già viste troppe poveretta.

E tante altre ne vedrà, ho paura, perché con un figlio così ogni giorno è un’avventura.

Ecco il motivo per cui mi fa pena, povera signora Olga: perchè la sua forza e la sua determinazione non sono nulla contro l’idiozia, e per quanto veloce, non potrà mai scappare abbastanza lontano da quel figlio deficiente.

Amen.

 

 

 
 
 

L’altra faccia della crisi

Post n°206 pubblicato il 14 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

 

Un paio di colleghi improvvisamente troppo disinvolti con i soldi della cassa aziendale, ma con “distrazioni” troppo vicine alla fine del mese per lasciarti del tutto indifferente nel denunciare il fatto ai tuoi superiori, anche perché sai quanto prendono in busta paga, e più ancora perché sai per certo che una busta paga non ce l’avranno per molto ancora.

Un capufficio troppo preso a far vedere quanto è bravo ad usare programmi e formule di excel per rendersi conto che non si tratta di un problema di negligenza, quanto piuttosto dell’affitto da pagare. E troppo primadonna per accettare che tu abbia colto quello che lui non è stato in grado di rilevare. Sai che te la farebbe pagare a vita, perché deve essere sempre lui la stella che brilla più alta nel cielo.

E alla fine, siamo onesti, non hai nemmeno voglia di complicarti la vita con moralismi, etica ed etichette: è bastato un anno di disoccupazione per farti vedere un mondo decisamente meno in bianco e nero. Anzi, adesso è talmente tutto sfumato che non sai neanche più chi abbia ragione e chi abbia torto. E di giudici pronti a puntare il dito è già pieno il mondo.

E poi, vigliacchissimamente, siccome ti hanno appena confermato il contratto, di metter le corna in croce con colleghi disperati e capetti reucci ti attira tanto quanto un attacco di cervicale.

Troppa fatica, troppo sbattimento e troppo ardua la ricerca di una vera motivazione. Perché il senso di lealtà verso l’azienda che ti paga non è sufficiente a farti mettere la gente in strada senza provare rimorso alcuno. Non dopo che l’azienda ne ha fatte di cotte e di crude in nome della crisi.

E allora ti limiti a qualche mezza frase, qualche parola buttata qua e là, tanto per vedere se anche il capufficio ha capito. Ma è evidente che non coglie. Non capisce. Nella sua supponenza di “nato imparato” possono essere solo l’incapacità e la pigrizia tipici dei dipendenti a non far quadrare così spesso la cassa. A far sparire fatture e materie prime. Spazio per dubbi d’altro genere non ce n’è.

E allora accetti di sobbarcarti un lavoro che non è il tuo, in un posto che non è il tuo. E di passare per scema. Ma che importa, alla fine tutti son felici: i colleghi che raggranellano 2 euro in più, il capufficio che si fa bello sui presunti errori altrui e anche te, che non prendi sassate né da una parte né dall’altra.

Lavorare dovrebbe essere altro, è vero; in un mondo più giusto uno stipendio dovrebbe permetterti di vivere con dignità, un capufficio dovrebbe avere realmente meriti maggiori rispetto ai suoi subalterni e chi sbaglia dovrebbe essere punito.

Ma noi non viviamo in un mondo giusto, non lo è mai stato, e bisogna arrangiarsi come si può.

Soprattutto quando non è altro che l’altra faccia della crisi.

Ciao guys.


 

 
 
 

Superman non è mio zio

Post n°205 pubblicato il 10 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

Qualche sera fa guardavo la Bignardi e le sue Invasioni Barbariche. Lasciando da parte lei, che trovo brava bravissima, elegante e anche gnocca, notavo invece una cosa: tanti ospiti diversi, giovani e meno giovani, uomini e donne, ed un unico comun denominatore: tutti hanno genitori straordinari, nonni saggi, sorelle emancipate, zii avventurosi e sognatori. Praticamente un groviglio di parenti pronti ad elargire perle di saggezza tra un caffelatte e l’altro, a regalare consigli che segnano una vita tra una corsa in bicicletta e un 4 in matematica.

E io ci credo, per carità. E anche un po’ rosico d’invidia, va detto. Ma poi mi chiedo: è davvero così?

Perché, siamo onesti, guardandoci in giro di uomini straordinari se ne vedono davvero pochini, e i conti quindi non tornano. I nonni sono persone normali, che smoccolano in ciabatte contro il carovita, la cataratta e l’amico che bara a tresette. I papà tirano a campare, spesso eterni Peter Pan in eterna battaglia con la cervicale che t’ammazza e la calvizie che incombe. Le mamme sfarfallano da uno all’altro in una continua ricerca del Principe Azzurro, possibilmente più giovane, di cui sfoggiare i tatuaggi su feisbuk e far schiattare d’invidia le amiche. Per non parlare delle zie.

E allora mi chiedo: perché abbiamo bisogno di idealizzare tutto? Non basta la realtà?

Perché non so voi, ma io non sento il bisogno di eroi, né presenti né passati: ho bisogno di normalità, possibilmente di esempi da seguire. Ho bisogno di concretezza, stabilità e volendo esagerare, anche di un ciccinin di buonsenso. Vi pare poco? A me no. Anzi, massimo rispetto per chi riesce a vivere così.

La vita s’è allungata, le possibilità di perdersi sono infinite, così come le difficoltà,  e non è mica facile essere una brava persona per 86 anni. Non dar fuori di matto per 92. Tenere in piedi una famiglia per 59, essere un onesto e motivato lavoratore fino ai 67. Provateci. Provateci voi e poi ne riparliamo. Ecco perché sono questi i veri eroi per me, sono queste le persone da citare nelle interviste.

Perché oggi come oggi la vera battaglia da vincere è quella di arrivare alla fine dei propri giorni riconoscendo la propria immagine nello specchio, senza domandarsi chi sia quell’estraneo che ti sta fissando con lo sguardo da pirla. Non sono necessari pensieri profondi, gesta eroiche o grandi invenzioni: è sufficiente la forza di essere presenti nella vita delle persone cui si vuol bene, senza scappare a fare viaggi introspettivi a Ibiza o a farsi fare il tribale anche sul pomo d’Adamo a 60 anni.

Il chè può sembrare strano detto da una come me, che al suo paese ha una lapide eretta in memoria di un parente partigiano, ma penso che né lui, né mio nonno fascista siano mai stati veri eroi: erano semplicemente frutto del loro tempo. Due figli diversi della stessa storia.

La vera eroina semmai era mia nonna che sapeva a malapena parlare in italiano, ma che è riuscita a crescere 7 figli di cui nessuno è un delinquente. E scusate se è poco.

Forse l’epoca degli eroi è finita. O forse non è mai esistita, non lo so. So solo che qualche volta un onesto “Sì, mio papà è un pirla, l’unica cosa che legge sono le bollette telefoniche, senza nemmeno capirle peraltro, per questo passa le ore a litigare con le signorine dei call center”, sarebbe non solo infinitamente più credibile, ma anche molto più gradito, almeno da parte mia.

Ciao guys.

 


 
 
 

Attenti al Lupo

Post n°204 pubblicato il 04 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

 

Succede che quello sciamannato di Lupo Solitario, pirlone di tutte le galassie, mi coinvolge in una specie di catena di Sant’Antonio: sì sì, una di quelle robe contagiose e fastidiose, che ci si attaccano tra bloggers come i pidocchi, ma irresistibili da fare come grattarsi quando si ha la varicella.

In pratica funziona così.

Devi ringraziare il blogger che ti ha coinvolto. Certo, come no. A sassate ti ringrazio, disgraziato che non sei altro.

Rispondere alle 11 domande poste nel suo post. E vabbè, ci provo. Poi sono affari vostri.

Formulare altre 11 domande a cui i bloggers coinvolti risponderanno nel commento al post. Coinvolgere 11 bloggers.

Informare i vincitori del fattaccio. E poi scappare ovviamente.

Siccome però ho la pazienza di un gatto e fondamentalmente mi piace fare di testa mia, do una bella mescolata alle carte e rispondo solo alle domande che voglio io. Capito Lupo?

Dov’eri l’undici settembre del 2001? Al telefono con Cinzia, la mia amica di sempre. Entrambe con la televisione accesa, entrambe improvvisamente ammutolite dall’apparizione di una torre in fiamme, un aereo incastrato dentro e un mondo che impazziva in diretta sulla CNN. Sembrava un brutto film: era una realtà infinitamente peggiore.

Nord o Sud? Son nata nordica, ma non è colpa mia. Giuro.

Strada statale o autostrada? Viottolo di campagna. L’autostrada è per chi sa dove deve andare. Io mi sto ancora gustando il viaggio.

Matita o penna? Matita. La definitività non è necessariamente un valore, anche se devo ammettere che la definitività delle cose provvisorie ha un fascino tutto suo. Ma  anche un bel pennarello fucsia va bene, per colorarci la vita.

Onnivori o vegetariani? Se dovevo mangiare erba nascevo capra e me ne stavo nei campi tutto il giorno. E non mi massacravo i piedi con i tacchi per andare al lavoro. Mannaggia a chi li ha inventati e alle sceme come me che se li mettono.

Di cosa sei veramente orgoglioso? Di quando mi hanno promosso di corsia in piscina, passando a quella in cui non si tocca. Soprattutto perché avevo 28 anni.

Ma anche non aver mai fatto del male a nessuno in nome di qualche principio del caspita non è male.

Di cosa non lo sei? Della mia vita. Della mia vulnerabilità.

Una canzone a piacere. Unwrite that song. E chi vuol capire capisca. Per tutti gli altri, Pereppeppeppepè…

Un libro.  Quello con la simpatia di Diego De Silva e David Sedaris, il distacco lucido di Primo Levi, il cinismo di Ernest Hemingway e di Charles Bukowsky, l’ingenuità di Louisa May Alcott, la poesia di Isabel Allende. L’ansia di vivere di Jack Kerouac,  la follia di Sandrone Dazieri e l’inadeguatezza di John Fante.

E’ che non mi viene in mente il titolo.

Se fossi una macchina sarei una?  Aygo: ingombro minimo, la guidi con un dito, consuma poco.

Lupo quanto lo odi per questa cosa in cui ti ha coinvolto?   Zero. Dopo che l’ho frustato con la caffettiera m’è passato tutto il nervoso. Anzi, mi son talmente rilassata che adesso gli voglio quasi bene.

Detto questo, la troppa generosità che c’è in me mi impedisce di coinvolgere altri 11 bloggers (non ringraziatemi tutti insieme, vi prego), ma chi vorrà rispondere sarà apprezzato.

Le domande sono quelle già poste a me (vedi sopra per i distratti), alle quali aggiungo le mie:

Non dimenticherò mai quella volta che…

"Gli alimenti surgelati e scongelati, non possono essere ricongelati una seconda volta, causa rischio di grave intossicazione". I sentimenti anche. Vero o falso?

La balla più grande che vi siete raccontati.

Potete rispondere a tutte le domande o anche solo a una o a quelle che volete voi.

Ma sinceri però eh... sennò non vale.

Ciao belli. E mi raccomando… attenti al Lupo!



 

 
 
 

Che mi scada la patente

Post n°203 pubblicato il 01 Aprile 2013 da pantouffle2011
 

 

non è strano: è normale. Sono una carrampana, sarebbe strano il contrario.

E’ che me ne sia ricordata per tempo che è strabiliante. Da dire al tg, per quanto è insolito.

Niente scene umilianti davanti al poliziotto di turno (Ma come… è scaduta dice? Maddai…sembra ieri che ho fatto la teoria… Me lo ricordo perché avevo su un vestitino blu che non le sto neanche a dire… ma non blu notte… ha presente i cieli berberi dopo una serata di pioggia? Ecco, quel blu lì… solo appena un po’ più scuro…. Ma non mi vorrà mica fare la multa vero? Ma no signor agente, non è mica vero che voglio far la furba… essù…).

Già visto e già vissuto. No grazie. Stavolta ho fatto tutto per tempo.

Per la modica cifra di 80.00 gloriosi euro + altri 2 per il parchimetro una solerte agenzia mi ha promesso il rinnovo in 10 minuti. Ed è stata di parola.

E’ la visita oculistica che m’ha portato via quasi un’ora: 45 minuti d’attesa del medico e 5 per la visita. Il tempo di firmare, mettere 2 timbri ed ero fuori.

E allora, nella mia ingenuità, io mi domando e dico: se alla fine è solo una questione di soldi, mandiamo direttamente un vaglia.

Se si tratta di dar lavoro alla gente (agenzia+oculista), facciamo fare loro qualcosa di più utile.

Semplifichiamo le cose, che almeno si risparmia tempo,  benzina e forse anche un ciccinin di nervoso.

E, non ultimo, caro il mio Signor Oculista, se accetti di prestarti a questo giochino del facciamo-finta-che-sia-una-cosa-seria, fai almeno in modo di arrivare puntuale. Perché sarà anche vero che è tutto un teatrino messo lì per tirar su due soldi, ma questo non fa di te una rockstar. E al prossimo rinnovo della patente ti arrivo munita di petardi da farti esplodere addosso, così, tanto per festeggiare ogni tuo minuto di ritardo. Hai visto mai che facciamo anche la prova della visione notturna. E poi dimmi che non sono collaborativa.

Perché non so a voi, ma a me di passare sempre per fessa un po’ m’ha stufato.

Ecco.


 

 

 

 
 
 

Certi giorni e certe notti

Post n°202 pubblicato il 22 Marzo 2013 da pantouffle2011

 

Se ieri mi avessero detto che mi sarebbe stato rinnovato il contratto, avrei consigliato l’etilometro.

Se mi avessero detto che oggi mia mamma avrebbe ripreso a sorridermi, serena anche se solo per un momento, avrei invocato l’infermità mentale.

L’alleggerimento di un week end che si prospettava ancora una volta pesante mi ha sì impedito di tramortirmi a padellate per la disperazione, ma mi ha fatto cominciare a sospettare che mi sarei presto svegliata battendo la testa sul comodino.

Ma è stato l’annuncio imprevisto di una serata con l’amore della mia vita che mi ha convinto di essere in una favola.

A quel punto trovare una multa per divieto di sosta m’è sembrato quasi (QUASI) giusto, come un atto compensatorio, perché il troppo stroppia, anche quando è in positivo.

Ma certe giornate son così: imprevedibili, inspiegabili e illogiche. Come la vita.

Ti affanni, ti arrabbi e ti arruffi sbattendo la testa contro un muro di frustrazione, non concludendo niente per mesi e poi, improvvisamente, capita una giornata come questa e fai pace con il mondo.

E ti rendi conto che non serve capire, non serve razionalizzare e men che meno etichettare: giorni come questi vanno presi per quello che sono, cioè dei regali. Dei regali e basta.

Poi domani si torna in trincea, si riprende a combattere contro la vita, la sfiga, la cellulite e i mulini a vento. E anche un po’ con la collega stronza.

Ma sperare nell’impossibile non ti farà più sentire così cretina.

Ciao guys.


 

 
 
 

Papa Francesco

Post n°201 pubblicato il 17 Marzo 2013 da pantouffle2011
 

 

Sarà quel sorriso da monello che sembra averne appena combinata una, sarà quell’accento che fa un po’ Miguel Bosè… non lo so, ma a me piace. Francesco dico, il Papa. E non sono una che frequenta l’ambiente, va detto. Nemmeno a Natale e Pasqua per dire. Che di far l’ipocrita non mi va.

E pensare che son cresciuta dalle suore, che ho frequentato la parrocchia, che son stata una Coccinella per anni e che il clero a me personalmente non m’ha mai fatto nulla: ma la fede è un dono. Utile tra l’altro, perché ti permette di accettare le mazzate della vita con uno spirito diverso, ma pur sempre un dono. Come gli occhi azzurri, il culo bello e la faccia angelica. E indovinate un po’? Io sono nata scura, come il peccato. E senza fede.

Ma sono alla ricerca, oh sì sì, o per meglio dire, sono più che altro in attesa. Perché vorrei averla la fede, perché sono fin troppo critica e cinica, perché sento che alla mia umanità manca qualcosa. Perché vorrei avere la capacità di credere e non stare sempre a soppesare quello che mi viene detto. Vorrei saper ascoltare parole di speranza e giustizia senza sentire il bisogno di controllare su Internet quante possibilità esistono che siano vere.

E quindi cerco di farmi trovare pronta, nel caso dovesse succedere che il dono arrivi anche a me.  Come per la lotteria: non compro nessun biglietto, perché se deve essere culo, il biglietto vincente lo troverò per strada, mentre zampetto di qua e di là sui tacchi per dire. E sento che anche per la fede sarà così: una bella mattina, magari mentre sto decidendo se preparare i broccoli al vapore o massacrarmi di patapizza col ketchup, sarò folgorata. E tutto mi sembrerà diverso. E mentre nel primo caso cammino guardando a terra per vedere se trovo il biglietto, nel secondo caso sto attenta a cogliere i segnali.

Come l’elezione di Papa Francesco per esempio, che potrebbe essere capace di farmi fare pace con il clero. Di farmi dimenticare quella sensazione di malessere che mi assale leggendo di magheggi, carrierismo e anacronismi di tutti i tipi. Che non è di questo che abbiamo bisogno.

Che mi aspetto da lui? Che faccia il suo mestiere. Che parli di famiglia – magari di qualunque tipo di famiglia, ma qui siamo nella favola, lo so -, di speranza e di giustizia sociale. E quella sua frase, “Vorrei una Chiesa povera e per i poveri” mi fa ben sperare. Anche se un futuro prossimo con Lacoonte  e l’Amazzone Ferita all’asta su e-bay mi sembra poco probabile.

Ma son tempi duri, bisogna accontentarsi. E già non aver sentito la parola “banca” mi strappa un sussulto di sorpresa.

E poi chissà. Se Francesco (quello santo) parlava agli uccelli, hai visto mai che questo Francesco non parli alle capre. Come me. Da parte mia un nuovo linguaggio lo imparerei volentieri.

Ciao guys.

 


 
 
 

Never can say goodbye

Post n°200 pubblicato il 11 Marzo 2013 da pantouffle2011
 

 

Ritrovi la tua amica che non incontri da mesi, come ti vede si mette a piangere. Sono ridotta così male?, pensi.

Ti aggiorna sulle sue sfighe (atomiche), l’aggiorni sulle tue (altrettanto atomiche, ma niente in confronto alle sue, perché da sempre è lei quella che soffre di più perché… riguarda lei, appunto).

Passate a salutare tua madre che l’ha vista crescere, che le ha fatto da seconda mamma, (non mi ricordo che lei la rincorresse per la casa per tagliarle i capelli però). L’affetto c’è ancora tutto, l’intesa anche.

In effetti si sono sempre trovate d’accordo su qualsiasi cosa, soprattutto sul come avresti dovuto gestire la tua vita. Che tu non ne sei capace, lo sanno benissimo entrambe.

Assisti a tzunami di lacrime (ancora!), a un groviglio di abbracci, ignori quel “Guarda come sta bene la Paola, non è mica un’acciughina come te. Diglielo anche tu Paola che dovrebbe imparare e badare a se stessa…” ripetuto più e più volte, come se fossi sorda o scema o scema e sorda insieme. 

Ti mordi la lingua per non replicare quando durante i saluti (interminabili) la prima ti dice, “Bada a Paola mi raccomando”, e la seconda rincara “Mi raccomando, bada a tua mamma.”: alla faccia che eri tu che dovevi imparare a badare a te stessa.

Ma anche queste semplici banalità devono nascondere qualche strano significato che tu non riesci a cogliere perché vengon giù di nuovo vagonate e vagonate di lacrime. O meglio, il motivo di tanta commozione lo sai benissimo, è che non ci vuoi pensare. Non vuoi pensare che potrebbe essere l’ultima volta che si incontrano. Ma il pensiero aleggia nell’aria, è lì, come un macigno, fin troppo chiaro per tutti.

Vorresti cambiare argomento, alleggerire un ciccinin l‘atmosfera, se non fosse che con ogni evidenza non conosci i codici della commozione e hai paura di riaprire involontariamente le dighe del pianto.

Che già ti guardano come una stronza insensibile perché a te non scende un luccicone nemmeno a pungerti con uno spillo.

Finalmente le lacrime si esauriscono, gli abbracci si sgrovigliano e ognuno torna alla sua vita, o a quel che ne resta.

Ma il pensiero di ciò che era ieri e che forse non potrà più essere ti resta appiccicato addosso.

Perché sarà anche vero che non sai badare a te stessa, che non sai gestire la tua vita e che sei incapace ogni giorno in mille modi diversi: ma è il non riuscire a lasciar andare le persone quello che ti spaventa di più. Gli abbandoni, gli addii e le partenze in genere non hanno mai fatto parte di te.

Perchè adesso dovresti essere pronta per partenze più definitive? Non lo sei e non lo sarai mai, questa è l’unica certezza.

Solo che non riesci a piangere.


 

 
 
 

La ferramenta dell’amore

Post n°199 pubblicato il 05 Marzo 2013 da pantouffle2011
 

Posso dirlo? Lo dico: a me ‘sta cosa dei lucchetti m’ha proprio rotto i sentimenti.

Poi tutto questo amore, le freccine, i cuoricini… e basta! Ma dove siamo, nel cortiletto di qualche scuola media? Possibile che non si possa più attraversare un ponte – qualsiasi ponte – senza vedere appesi come caschi di banane chili e chili di ferramenta decorato con l’indelebile fucsia? Essù.

L’amore ha bisogno di espressione, certo, sono io la prima a dirlo. Un sentimento va dimostrato, ribadito e ricordato. Un sentimento sottinteso non è un sentimento. O perlomeno è un sentimento destinato a fare una brutta fine.

Ma quello che non mi spiego è perché, fra tutto quello che si potrebbe dire e fare, si sceglie di affidare un messaggio d’amore proprio ad un lucchetto. Che per carità, come simbolo ricorda sì un legame indissolubile, ma suggerisce anche un qualcosa di pesante, quasi un fardello da portare. Romantico come una pietra al collo per dire.

Vedere poi questi chili di ferraglia sul Ponte dell’Accademia, tra barcaioli che smoccolano e venditori abusivi m’ha fatto più miseria che altro. Roba che se incontravo Moccia i lucchetti glieli attaccavo tutti al collo, uno per uno. E poi giù un bel tuffo in laguna, ma mica per cattiveria, no no: solo per vedere se anche le pantegane hanno le borse piene di Step, Babi, Bibi e Bubu.

Perché, diciamolo una volta per tutte: l’amore è eterno, certo. Finchè dura.

E Moccia più che creare una valanga di innamorati, ha creato una marea di bugiardi; perché io vorrei veramente vedere quanti di quei “Maicol e Dalila forever” si rivolgono ancora la parola. O non si sono nel frattempo ammazzati a cappellate.

Perché il concetto di eternità esiste realmente solo nella mente dei pubblicitari e forse più nemmeno in quella: le famiglie d’oggi sono formate da 2 mamme, 2 papà, una manciata di nonni, un ginepraio di zii e un numero imprecisato di figli. E’ così, prendiamone atto.

Triste? Disincantato? Forse.

Ma ho visto coincidere troppe volte il concetto di amore eterno con il fatto che le mogli si riprendono sempre i mariti farfalloni per averne davvero una visione romantica da inseguire ad ogni costo.

Quindi lasciamo stare i “per sempre”, i lucchetti e le frasine: la felicità dell’amore è crederci fino in fondo nel momento in cui lo si vive. Nel gustarsi appieno il qui e adesso, perché l’unica eternità che l’amore conosce è quella dell’istante in cui esiste. L’impegno è semmai nell’onestà del sentimento, non nella durata.  Perché l’amore, quello vero, non può nutrirsi di parole come ieri o domani. E meno ancora “lucchetto”. Tutto il resto è pubblicità.

Ciao guys.


 
 
 

Ieri

Post n°198 pubblicato il 27 Febbraio 2013 da pantouffle2011
 

A volte ti capitano delle tegole pazzesche. Nel senso che tu te ne stai lì, bello tranquillo, pucciando i biscotti nel the, per dire, e ti arriva una mazzata. Magari sottoforma di un innocentissimo sms. Che potrebbe essere un banalissimo “buongiorno cucciola bacio bacio” (su cui ti faresti allegramente 2 risate, dato che sarebbe un evidente segno del fatto che qualcuno ha sbagliato numero), e invece no: 2 righe striminzite e ti ritrovi in mezzo ad un marasma di fraintendimenti, equivoci, malumori repressi, che un po’ ti aspettavi certo, ma mai e poi mai con quell’intensità. E quella che era cominciata come una normale giornata del caspita, si trasforma in una giornata del caspita da record.

Quello che viene dopo non ha importanza: mille spiegazioni, millemila giustificazioni, qualche insulto, il tutto in una centrifuga che ti cattura, ti spreme e ti risputa svuotata e senza forze. Quello che conta è invece la fine: tutto viene chiarito, ci si sente più buoni, più felici e soprattutto più stupidi, scoprendo che nulla è successo e che si è stati male per niente. Perchè spesso ci facciamo dei film. Solo che ognuno di noi se ne fa uno per conto proprio, quasi sempre diverso da quello che si fanno gli altri.

Perchè il “ma io pensavo che tu credessi che io immaginassi che tu…” non funziona. Mai. Di Maga Magò ce n’è una sola, tutti gli altri hanno bisogno di esprimersi a parole. Possibilmente poche e ben chiare. Che già spiegandole le cose son difficili da capire. E giuri a te stessa che la prossima volta sarai più cristallina, che non lascerai spazio a dubbi e malintesi. La prossima volta.

Ma adesso ti vuoi solo godere quella sensazione di felicità mista a sollievo, come se avessi davvero scampato un pericolo, e anche se ti senti parecchio provata dallo sforzo ti senti di un bene, ma di un bene, che quasi quasi vorresti essere fraintesa un’altra volta. Perché se stai male, non c’è niente come la paura di stare peggio per farti sentire meglio.

Ciao guys.


 
 
 

Facile dire mi rilasso due minuti…

Post n°197 pubblicato il 19 Febbraio 2013 da pantouffle2011
 

 

Fra le varie cose vietatissime in ufficio (portare lo smalto rosso sulle unghie, indossare jeans giromutanda, chiedere aumenti e altre amenità simili), ce n’è una che è più vietata delle altre. Anzi, si potrebbe dire che sia la cosa vietata per eccellenza, quella che da sola ti potrebbe far deportare nel magazzino di radiologia, chiudere in ascensore con il capo (auguri!) o non so nemmeno io cosa. Insomma, in quell’ufficio non esiste cosa più grave del mangiare alla scrivania. Mangiare QUALSIASI cosa alla scrivania. Che si tratti di crackers, panini, biscottini o che so io, mangiare alla scrivania viene considerato un peccato mortale.

Sarebbe meno grave se tu sputassi le palline di carta sul parrucchino dell’amministratore delegato per disegnargli la forfora, tanto per dar l’idea.

Pare infatti che mangiare lavorando non sia né elegante né carino; metti venga qualcuno e tu sei lì che ramazzi le briciole in giro: non sta bene. Ma neanche un po’. E noi si può rinunciare alla mensa aziendale, forse anche ai contributi,  ma  al bon ton mai e poi, sia chiaro.

E poi non è che noi su al terzo piano si sia proprio delle ribelli, ecco. Anzi, si cerca sempre di venire incontro alle esigenze dell’azienda. Di rispettare le indicazioni.

Magari a volte si è sgarrato con una distribuzione furtiva di gianduiotti; può essere accaduto che si siano nascosti dei creckerini nel cassetto pescandone un pezzettino di tanto in tanto, ma niente di più. La regola inviolabile è sempre rimasta inviolata.

Cioè, fino a una settimana fa.

Succede infatti che su 3 colleghe una, quella che ride sempre, (cioè io) abbia lo stomaco ingroppato dall’ansia e viva praticamente di pappette ormai da 2 mesi, l’altra sia ligissima al dovere e se c’è un divieto va rispettato e basta ma la terza… la terza, be’… diciamo che ha fatto suo il motto “Se devo essere licenziata che almeno mi succeda con la pancia piena.”

Ed è per questo che ogni giorno all’una si vede arrivare suo padre con tanto di piatti, posate e formaggio grana a parte. Lei si fa una tovaglietta con dei fogli in formato A4 con la stampa dei bilanci aziendali (che riciclare è importante), sistema accuratamente il piatto davanti a sè e si mangia con calma il suo etto di pasta. Un giorno che era senza forchetta s’è slappata il risotto direttamente con le mani, emettendo mmh di soddisfazione ogni volta che si portava le dita alla bocca. Socchiudendo perdipiù gli occhi in un’estasi totale.

Che a me e all’altra collega stare a guardare tutto ‘sto godimento fa venire un po’ di magone, devo dire. E anche un po’ di nervoso, soprattutto quando per far sparire l’odore di ragù alla salsiccia bisogna spalancare porte e balconi. E viste da fuori, così imberrettate, insciarpate e con i piumini addosso per via delle temperature polari, e per di più a stomaco vuoto, facciamo proprio miseria.

“Così se non ci dobbiamo giustificare per l’odore del cibo dobbiamo spiegare perché sprechiamo il riscaldamento.” - obietta acida Collega 1. – Ma tanto a te va sempre bene e con le mani nella marmellata non ti ci pescano mai.”

“La fortuna e la sfortuna non esistono – obietta serafica Collega 2, che mi è pure molto zen – non sono altro che il riflesso del nostro modo di vedere le cose. Prova a pensare positivo.”

E invece la fortuna esiste, eccome. Sennò non si spiega come la spillatrice lanciata da Collega 1 non abbia preso Collega 2 esattamente in fronte.

E io mi convinco ogni giorno di più che la Direzione ha ragione a non investire in una mensa: in quell’ufficio sarebbe molto più utile un esorcista.

Ciao guys.


 

 
 
 

Io speriamo che me la cavo

Post n°196 pubblicato il 17 Febbraio 2013 da pantouffle2011
 

C’è un momento nella vita in cui ti guardi indietro e pensi: vabbè non avrò guadagnato zilioni di petroldollari, non inventerò mai il vaccino per l’alopecia a chiazze, probabilmente non riuscirò nemmeno mai a fare una torta Pavlova come si deve, però caspita, sono ancora qui: riesco ancora a guardarmi allo specchio la mattina, non ho lasciato macerie dietro di me in nome di un qualche sentimento irrinunciabile, e in giro, che io sappia, non c’è gente che mi vorrebbe ammazzare a sputi.

Troppo poco per essere felici? Forse. Ma per essere in pace con se stessi basta e avanza. Almeno per me.

Perché come diceva una nota canzone: Ma tu ce l’hai una coscienza? Perché sai, io non posso farne senza.

E per me il rispetto per se stessi e la dignità vengono prima di qualsiasi altra cosa.

Frase fatta, banalissima, sentita, risentita e poi sentita ancora mille volte, è vero: ma vera, profondamente vera; se poi non lo dici a 20 anni, ma quando la vita ti ha già messo più volte alla prova, be’ allora riesce ancora ad avere un significato. Ed è un ramo a cui ti aggrappi quando sei in mezzo all’uragano.

Me ne ricordo ogni volta che devo incontrare mio padre, per esempio, quando elmetto protettivo e vaccinazione antirabbica sono elementi indispensabili nel gioco al massacro che è da sempre il mio rapporto con lui. Perché se il suo essere anaffettivo protegge lui, riesce perfettamente a ferire a morte me. Ogni volta. E pensare di avere una coscienza, una dignità, mi permette di non diventare quella persona che avrei potuto essere se mi fossi lasciata prevaricare dalla rabbia e da un giustificatissimo rancore.

Cambiare son cambiata, e ancora cambierò. Perché rimanere fedeli a se stessi non vuol dire ripetere gli stessi errori. Preferisco di gran lunga farne di nuovi con lo stesso sorriso irresponsabile di quando ho commesso il primo.

Si pensa sempre che sia la vita a sfidarci, a crearci nuove avventure: in realtà io sto ancora combattendo contro me stessa. Anzi, si può dire che ancora non abbia completato l’inventario di tutte le mie emozioni. Spero solo che alla fine l’elenco sia almeno lungo ed articolato, perché adesso che sto imparando a conviverci, delle emozioni non potrei più fare senza.

Qualche giorno fa un caro amico diceva di aver paura della morte. La mia paura è invece quella di non aver vissuto mai. O peggio ancora, di averlo fatto senza almeno tentare di essere la persona migliore che posso essere; non buona-brava-bella-e-gnocca: semplicemente la miglior Michela che posso essere.

Filosofia zen del cespolo? No, preferisco chiamarlo rispetto per sé stessi.

Ciao guys.

 


 
 
 

C'è grossa crisi

Post n°195 pubblicato il 13 Febbraio 2013 da pantouffle2011
 

 

“Ti devo parlare.” Non importa quanti anni tu abbia, quanto tempo sia trascorso dalla tua adolescenza: bastano queste 3 parole per farti ricordare ogni singola cosa brutta che hai fatto in tutta la tua vita.  Se poi a dirlo è il Capo Grosso, quello che proprio in questi giorni deve decidere se avrai ancora uno stipendio il mese prossimo, l’effetto terrore è assicurato.

E’ esattamente con questo spirito che mi presento quindi nella gabbia dei leoni nel mega ufficio direttivo, dove LUI mi accoglie come sempre con una penna in mano, passandosela tra un dito e l’altro in un gioco infinito.

Visto che non lavora, qualcosa deve pur fare, malignano i colleghi. Lo fa per ricordarci che il capo è sempre lui, penso io. Che l’ultima firma è sempre la sua.

Respiro a fondo cercando di restare calma, di non pensare alla brutta aria che tira, e poi, in fin dei conti non è l’Imperatore che si prende il disturbo di licenziare lo sguattero. Mi avrà mica chiamata per quello.

“Devi fare una cosa per me. Subito. – attacca – Adesso scrivi a tutti i nostri fornitori, ma proprio tutti, mi raccomando e gli dici che da domani ci prendiamo uno sconto del 40%.”

“Intende dire che devo informare l’Ufficio Acquisti di chiedere ulteriori sconti sulle prossime forniture..?”, chiedo.

“Ascoltami per cortesia, che non c’ho tempo. Lascia stare l’Ufficio Acquisti, che quelli son buoni solo a spendere e spandere, tanto c’è sempre Pantalone che paga. Intendo dire che li devi contattare tu, dicendo che hai ricevuto l’incarico direttamente da me, così fa più effetto e quelli fanno un salto sulla sedia. Hai capito?”

Per capire ho capito, anche se sono ancora convinta che il sentirlo parlare per una volta un italiano corretto li scioccherebbe mille volte di più. Altro che salto sulla sedia: il doppio carpiato farebbero, ed io con loro, tanta sarebbe la sorpresa.

“Mi scusi ma… come giustifico la richiesta, non posso mica fare i prezzi in casa degli altri…”

“Gli dici così: i tempi sono cambiati, c’è grossa crisi.  E che devono abbassare i prezzi. Basta.”, e si attacca al telefono, congedandomi.

Sono ancora sulla porta quando mi bloccano le sue parole.

“Sei una brava ragazza, tu e anche gli altri... ma tanto nel giro di poco tempo vi mando a casa tutti.”

Resto a bocca aperta, con la maniglia in mano, incapace di replicare. Alla fine ce l’ha fatta a scioccarmi, anche nel suo italiano da barzelletta. Ma d’altra parte, l’ha detto anche lui: i tempi son cambiati, c’è grossa crisi. Un’articolata giustificazione buona per tutte le occasioni: per aumentare i prezzi di vendita, abbassare standard qualitativi, tenere i dipendenti sulla corda e perché no, anche per licenziare. Soprattutto perché scaricare il peso della situazione su qualcun altro è sempre più facile che tentare di risolverla.

L’unico problema è che io non so come scaricarla  a mia volta: il supermercato si ostina a preferire i contanti, con le giustificazioni ci va poco d’accordo. Dei tempi che cambiano gliene frega poco e niente.

E non so perché, ma quando ho lasciato l’ufficio del capo ho come avuto l’impressione che la crisi non fosse più un suo problema, ma fosse diventato improvvisamente il mio.


 

 

 
 
 

Eravamo 4 amiche al bar

 

Tre amiche, un bar, un caffè. Solite chiacchiere, 4 risate, l’atmosfera di sempre.

“Aurelio, me lo faresti un toast, che non ho mangiato a pranzo?”

“Anche il toast adesso…c’ho mica il tempo di scaldarlo. Ti do un tramezzino.. toh. Quale vuoi?”

“Non lo so, uno che non sia vecchio di ieri, per esempio.”

“Ehhh quante storie. Non ce ne sono. Vuoi un cornetto? Prenditi il cornetto. Dimmi quale vuoi.”

“Boh.. uno che tu non abbia spalpugnato con le mani. Ce l’hai?”

“Oooh principessa…  guarda che io c’ho le mani pulite. Ci tocco anche i soldi.” E l’Aurelio se la ride beato, alla faccia nostra. Tanto poi lo sappiamo che scherza,  che lo fa apposta per farci arrabbiare. O meglio, preferiamo crederlo.

Mentre ci trastulliamo con pensieri poco carini sull’Aurelio, chiedendoci se ci sia o ci faccia, entra una nostra amica. Oddio amica… un’ex compagna di classe. Che poi abbiamo fatto insieme, per intero, solo un anno. Insomma, una che conoscevo tanti anni fa. E che mi sta anche un po’ sulle balle devo dire.

“Ciao Clara, è un po’ che non ti si vede in giro… ma come stai?”, attacca la mia amica Anto.

Domanda idiota. L’ultima volta che l’ho vista la Clara sembrava aver rubato l’intero guardaroba a Barbie Sontuosità Stellare: ritrovarmela davanti messa su come una profuga appena scampata a giorni e giorni di bombardamenti non può essere un bel segnale. E soprattutto può voler dire una cosa sola: si è mollata con quel Polifemo che si è ostinata per anni a chiamare moroso.

Infatti basta quella semplice frase, “come stai”, per dar fiato alle trombe.  E soprattutto per farci piovere addosso l’intero copione: gli ho dato i miei anni migliori (e anche i tuoi soldi abbiamo malignato noi), m’ha tradito con la prima sciacquetta che passava (ma no Clara, anche con la seconda, con la terza e penso pure con la 7ma); ma che avrà lei che io non ho (la terza di reggiseno?) e via di questo passo.

Il fatto è che io con alcuni tipi di persone non riesco proprio ad essere empatica, a farmi partecipe del loro dolore. E per “alcuni tipi” di persone, intendo quelli che soffrono per amore. Sempre e comunque. Perché le bastonate le abbiamo presi tutti, nessuno di noi ne è immune. IO non ne sono immune. Ma quelli che si fiondano in situazioni assurde, dove incontrano uno che sanno non sarà fedele neanche il tempo di far la proposta di matrimonio e si ostinano a credere che con loro si trasformerà nel perfetto marito della Famiglia Bradford, francamente non ce la faccio a capirli; e a me, più che di consolarli, verrebbe da abbandonarli in mezzo alla campagna dopo avergli chiuso 3 dita nella portiera della macchina. Per dire il dispiacere.

E non mi venite a dire che l’amore è cieco, che il sentimento è sordo e che Cupido ha poca mira: la verità è che quando ci si conosce è già tutto fin troppo chiaro, basterebbe voler vedere guardando l’insieme, senza focalizzarsi su un solo particolare: invece noi donne incontriamo un bel sorriso e ci facciamo subito un film che ci vede correre felici verso il tramonto di un deserto berbero; gli uomini, dal canto loro, quando incontrano un bel sorriso vedono solo la possibilità di una serata in allegria e perché no, anche quella di farsi stirare 2 camicie.

Il problema nasce quando, con il passare del  tempo, la “visione” si allarga e gli uomini vedono tutto il contorno che non vedevano prima (sciatterie insospettate, manie di controllo ai limiti del ricovero coatto etc.) e le donne comprendono finalmente la realtà: Polifemo resterà sempre Polifemo. Anche se ha un bel sorriso. E l’unica cosa che avranno mai eventualmente da festeggiare sarà il giorno in cui si metterà una maglietta pulita.

Ed è proprio dal momento della consapevolezza che vengon giù fiumi di lacrime, che si fabbricano chili e chili di recriminazioni, insulti e minacce per niente velate. E tutto per cosa? Per aver voluto vedere la realtà con gli occhi del vorrei che fosse.

“Se c’è una cosa che ho imparato da questa storia – dice la Clara – è che non bisogna mai prendersi uno che sia così diverso da te.”

Se c’è una cosa che ha imparato invece la Anto, è che l’Aurelio non scherza, i tramezzini sono davvero del giorno prima. E’ la nausea da intossicazione che, al contrario, è bella vivace, fresca di giornata.

Quello che ho imparato io, invece, è di non chiedere mai a una persona “come va” quando non lo vuoi veramente sapere. E che cincischiare con il telefonino mentre una ha la nausea e l’altra piange non viene visto bene. Pare non sia educato.

Ma la prossima volta che voglio imparare così tante cose mi iscrivo a un corso.

Ciao guys.


 

 
 
 

L’Amilcare, la Cecilia e l’Alzheimer. E forse anch’io.

Post n°193 pubblicato il 29 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

Nel palazzo dove lavoro io ci sono diversi appartamenti, tutti adibiti ad ambulatori e uffici. Oddio, quasi tutti. In realtà c’è ancora un’inquilina, un’anziana signora che tuttora resiste a qualsiasi offerta di vendita.

Mi ha presa in simpatia, dice che le ricordo l’Amilcare, il fratello, quello che quand’era giovane faceva sospirare tutte le ragazze. Sarà. Però a meno che l’Amilcare non abbia un’esuberante terza di reggiseno a me questa somiglianza non mi pare poi questo gran complimento. Però la signora Cecilia è simpatica e due parole con lei le scambio sempre volentieri.

Stamattina l’ho incontrata sul pianerottolo, in mezzo al solito andirivieni di pazienti, badanti distratti, colpi di tosse e umanità varia. Mi è apparsa improvvisamente di fronte, mentre salivo le scale: ciabatte, grembiule da cucina e una pentola in mano.

“Scappo che son di corsa, che oggi c’ho da fare i cappellacci col radicchio… ma te li sai fare i cappellacci?”, mi chiede.

“Li faceva sempre la mia mamma – sorrido – a dir la verità io son più brava a mangiarli.”

“Tutte così voi ragazze d’oggi – sospira – per forza che poi non siete capaci di tenervi un marito. Ma adesso vado che c’ho la Isa che mi arriva a pranzo.”

Non faccio nemmeno tempo a chiederle come mai la Isa sia a casa a pranzo, visto che abita a 500 km da qui, che mi ha già girato le spalle e… e improvvisamente i suoi mutandoni bianchi a righine occupano i miei occhi, la mia mente, la mia attenzione. Di gonne, abiti o altro nessuna traccia: sotto il grembiule da cucina  che la copre un po’ davanti la signora Cecilia è innegabilmente, inequivocabilmente in mutande. In mezzo a decine di persone, alcune incredule, altre divertite, per la maggior parte, per fortuna, distratte dalle proprie disgrazie. Poi, così com’è apparsa, l’anziana signora scompare all’interno della sua casa, tornando al suo mondo fatto di ricordi, di giorni confusi tra passato e presente. Il futuro ormai con lei c’entra poco.

Oggi raccontavo l’episodio ad un paio di amiche, mentre tornavamo alle auto dopo un caffè al volo.

Non voglio invecchiare, non voglio diventare brutta, acida e sola. Non voglio che la gente abbia a ridere di me, dicevo. E mentre parlavo con calore e passione di dignità, eutanasia e solitudine, mi son chinata per specchiarmi nel finestrino di un’auto parcheggiata, giusto per controllare che una lente a contatto non si fosse spostata. Inutile dire che pensavo che l’auto fosse vuota. Inutile dire che non lo era.

Il finestrino che si abbassava m’ha gelato le vene.

“Ciao! –  mi fa il tipo - Hai bisogno?”

E in quel momento mi son passate davanti, come in un film, le mille volte che ho trovato il telecomando della televisione in frigo; tutte le volte che voglio togliere le chiavi dal cruscotto della macchina e invece accendo la radio. O di quando vago per casa cercando disperata il cellulare, prima di rendermi conto che lo sto usando, e tento di strappare a mio marito la promessa di abbattermi ai primi segni dell’Alzheimer:

“Va bene, ma non so se mi accorgerò della differenza.”, risponde lui serafico.

Cosa che non mi tranquillizza, certo, ma che almeno mi fa sorridere. Perché alla fine non contano nemmeno le brutte figure – cioè, non tutte – conta il modo in cui si affronta la vita. Tutte le fasi della vita. Io non so se riuscirò per sempre a vedere il lato ironico delle cose e a ridere di quello che mi succede; ma di una cosa potete star sicuri: non ci saranno mutandoni a righe nella mia vita.

Anche perché finirei per nasconderci il telecomando della tv.

Ciao guys.


 

 
 
 

MA TE CI SEI SU… FACEBOOK, TIPO…?

Post n°192 pubblicato il 25 Gennaio 2013 da pantouffle2011
 

Allora. Oggi ho capito una cosa: se non sei su Facebook non sei nessuno.

Quello invece che devo ancora capire è perché dovrei voler essere qualcuno su Facebook.

“Perché ci sono tutti - mi è stato risposto – perché ritrovi i compagni della tua infanzia…”

A parte che vivendo in un paese piccolo io i compagnetti della mia infanzia li trovo all’alimentari dell’Alberina un giorno sì e uno anche, e se proprio devo dirla tutta, alcuni di loro preferirei davvero averli persi di vista per poterne conservare un ricordo romantico invece di ritrovarmeli mezzi calvi, con la pancetta e stupidi tali e quali che a 5 anni senza nemmeno più la scusa dell’età, voglio dire. Ma a parte questo vogliamo ancora raccontarci ‘sta favola che si va su Facebook per ritrovare le persone del passato? Eddài su, siamo seri. Che per quello non c’era mica bisogno di Internet. C’era già la Carrà, e mica da ieri: bastava trovare il modo di imbalsamarla e tanti saluti alla banda larga.

La verità è che più che le modalità, a fare la differenza, quella vera, sono le finalità; se ci pensiamo, le carrambate come si concludevano? Figli abbandonati in orfanatrofio dalle suore si ricongiungevano 40 anni dopo con madri infelici e peregrine: si piangeva come vitelli per un quarto d’ora buono e poi tutti facevano ritorno al paesello natìo a far festa con orde di parenti che mai avrebbero pensato di avere.

Adesso no, è tutta un’altra storia. Con Facebook ritrovi il compagno di banco delle medie, dici “Ah! Che bello. W la Juve.”, e chi ci pensa più. Tempo 10 minuti e passi a cercare la bellona della Quinta B che in 5 anni di liceo non t’ha mai detto neanche crepa.

Ma è sparito il pathos,  si è azzerata la magia.

Perché lo scopo non è più quello di incontrarsi e ritrovarsi, ma di stare su un social network. Quello che è nato come un mezzo è diventato un fine: quello di poter dire ad alta voce in mezzo a tutti “Ci si becca su Facebook”. Per far vedere che si è sempre supergiovani, che si ha una vita sociale, un centinaio di amici e qualcosa da dire al mondo.

Lo stesso si potrebbe pensare di chi apre un blog, è vero. Ma sentendomi chiamata in causa, a mia parziale discolpa posso dire che almeno io non tempesto amici, nemici, parenti e conoscenti occasionali con discutibili richieste di amicizia cui diventa imbarazzante dir di no. Senza contare che non vi infiammo il nervo sciatico pubblicando millemila foto della comunione dei nipoti o mentre ballo con le mutande in testa dopo aver perso la gara di chupitos, per dire. E se non siete proprio degli sciamannati ingrati sono sicura che mi sarete riconoscenti per questo.

Ma Facebook a parte, devo dire che il dialogo tecnologico ha contagiato anche me. E proprio io che esco adesso dalla caverna, mi trovo addirittura a destreggiarmi fra mezzi diversi. Perchè diversi sono i rapporti che ti legano al destinatario.

Per esempio, se scrivi per lavoro o se scambi le ricette della salama da sugo con la zia Santina, lo fai con le mails: tanta cordialità, per carità, ma poi ognuno a casa propria, per dire.

Se invece devi ringraziare la collega del marito per la splendida cena in cui sei stata benissimo, spiegando ancora una volta che quella tosse che vi ha quasi soffocato in 3 non era nulla, davvero, perché il fumo del caminetto non dava assolutamente fastidio, no no per niente, anzi faceva tanta ma tanta atmosfera, allora non c’è niente di meglio di un sms.

Poi è ovvio, se devi dire cose del tipo “la collega ha la rogna”, non c’è niente di meglio di WhatsApp. Che tra l’altro è gratis e almeno le stronzate non pesano troppo sul bilancio familiare.

Ma alla fin fine il problema di fondo rimane:  le cazzate, che siano scritte con la penna d’oca o con la forza del pensiero, sempre cazzate restano. Solo che con Internet la figura del pirla la fai davanti a molte più persone. Magari cercherò di ricordarmene la prossima volta che scriverò un post.

Ciao guys.


 
 
 

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Gentile omaggio di Alberto9 :-)

 

 

 

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