Creato da Signoraquasiperbene il 29/10/2011

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Capitolo Primo: Io, Lui e gli Altri

Post n°2 pubblicato il 02 Novembre 2011 da Signoraquasiperbene

 

Le ragioni che mi hanno spinta a voler intraprendere un percorso conoscitivo attorno alla morte sono, certamente, la curiosità ma, soprattutto, il desiderio di elaborare l’idea di una morte non solo altrui, ma che comprendesse anche la mia, approfondendone gli aspetti meno filosofici e, comunque, non di ordine prettamente teorico. Dopo di che, il mio lavoro non sarà una testimonianza di osservazioni circa il suo divenire, quanto una riflessione su ciò che avviene quando la morte è già sopraggiunta, rompendo equilibri e relazioni (Clifford Marcus 2005). La mia presenza sul campo (Bordieu 2010) sarà accanto ai morti, ma anche ai parenti, agli amici e ai conoscenti che gli sopravvivono, perché c’è sempre qualcuno che sopravvive e che, quindi, deve provvedere al ripristino dell’ordine necessario a che la vita, la sua vita, continui (Lévinas 1996).

Rispetto alla complessità legata a queste contingenze, da un lato, esistono svariati luoghi comuni (che ne definiscono una forma e un senso dati e relativamente compresi) che possono semplificare la drammaticità legata alla scomparsa di una persona, dall’altro, è possibile trovare numerosi studi (Bourdieu 2003, Dewey 2008, Pierce 1891) con finalità certamente conoscitive, ma difficilmente divulgative: ragion per cui, per agevolare il lettore, ho scelto di utilizzare le opere più recenti degli autori a cui si riferiscono, altrimenti introvabili se connotate dalla data di prima pubblicazione.

L’ambizione di questo mio lavoro, infatti, è rendere accessibile, e per certi versi, più familiare, uno dei discorsi che per eccellenza si pone essere, nonostante la sua ineluttabilità, uno dei meno discussi.  Di fatto, si parla di chi è morto, di come possa essere morto, delle cause che hanno portato al suo decesso, di chi gli sopravvive, del modo in cui questi ultimi continueranno a vivere, ma è raro discutere della morte in sé e per sé, considerandola come un fatto non eccezionale o inalienabile. Così nasce il mio tentativo di rompere il silenzio che la circonda, trattandola come un qualcosa di concreto, senza cadere nella tentazione di astrarla o allontanarla.

La mia attitudine rispetto a questo genere di temi nasce da un percorso formativo che mia ha visto intraprendere, prima, una ricerca di dottorato sulla terminalità,  poi, una serie di altri studi avvenuti in contesti sanitari che hanno a che fare con chi è presto a morire, dove ho iniziato a socializzare con situazioni di fine-vita concrete, legate prevalentemente ai fatti e alle azioni che circondano questo evento. Fatti che generalmente si cerca di evitare demandandoli a tempo debito agli altri che, all’occorrenza, si troveranno a dover dirimere le incombenze legate alla burocrazia e ai costi previsti per la scomparsa di una persona, così come a dover scegliere il da farsi (la scelta delle pompe funebri, i fiori da appoggiare sulla bara, l’annuncio di morte da pubblicare sul quotidiano locale, etc.), seppur nel dubbio di non rispettare il volere del caro estinto.

Chi di noi, ripensando alla scomparsa di un suo parente, non ricorda situazioni analoghe a quelle sopra citate? È noto che in queste occasioni si senta spesso di battibecchi e liti tra famigliari rispetto alle “questioni” da risolvere. Non sarebbe assai più civile evitarli, scrivendo e depositando le proprie volontà presso un notaio?

La mia risposta è ovviamente sì, salvo un piccolo, ma non trascurabile, particolare: da noi non si parla facilmente di morte e quando lo si fa, ciò avviene o con estrema moderazione (Elias 1985, Bauman 1995), quasi fosse un sacrilegio, oppure attribuendole caratteristiche di ordine prevalentemente teorico o di matrice clinica.

Particolarmente significativa, a questo riguardo, è l’attualità del dibattito circa il concetto di morte cerebrale (definito ben più di 40 anni fa) che sancì la linea di demarcazione tra la vita e la morte. Definizione che ora viene messa in discussione, portando con sé questioni difficilmente risolvibili sia sul piano individuale, sia su quello collettivo (contribuendo ad aumentare la mole d’istanze già esistenti in merito).

Chiedersi quando uno è morto (quando non batte più il suo cuore? Quando il suo elettroencefalogramma è piatto? Quando smette di respirare?) è solo uno dei quesiti possibili dalle sconfinate risposte da cui mi svincolerò in quanto intenzionata, invece, a pormi il problema, tematizzandolo.

Sempre a questo riguardo: sarebbe più rischioso lasciare la collettività decidere per l’individuo (violandone per certi versi la libertà personale) oppure sarebbe più opportuno lasciare al singolo la libertà di scegliere per sé e solo per sé, senza che questo leda le libertà altrui? Quali sarebbero le conseguenze sul piano politico e sociale di un simile atteggiamento? Quali sarebbero le direttive da seguire se proposte da un’istituzione religiosa o laica? Questioni, queste, che dovrebbero coinvolgere non solo la sottoscritta, ma l’intera cittadinanza.

Se pensiamo che grazie alle innovazioni tecnologiche avvenute in questi ultimi anni, simili problematiche non potranno che aumentare (essendo accresciuta sia la possibilità di procrastinare il fine vita, sia le scelte relative a esso), come dovremmo agire da qui ai prossimi decenni?

Il bisogno di dare un senso al come si potrebbe morire genera, ai nostri giorni, domande che muovono da orizzonti cognitivi in cui le cosmologie di matrice religiosa (o i paradigmi del sapere medico tradizionali) vengono sostituite da definizioni prevalentemente individuali, contestuali e situate (Berger e Luckmann 1969). Definizioni fondate sulla necessità di garantire stabilità ai processi identitari e relazionali che investono le persone, oggi sempre più precarie, perché non supportate a nessun livello, individuale e collettivo (Beck 2000). Semplificando, se fino a qualche decennio fa l’unica differenza che era possibile istituire, in caso di decesso, era quella tra morte naturale e morte violenta (dove la prima era l’esito di una malattia e la seconda era dovuta a un incidente, a un trauma o a un delitto), oggi il momento della morte viene sempre più dissociato dall’evento e dalla causa che lo ha innescato, subendo, in un certo senso, una sorta di alterazione e deviazione metaforica (Lakoff Johnson 1998).

A fronte di una progressiva tecnicizzazione della morte (Illich 2004), che viene via via separata dai meccanismi naturali che la caratterizzano, oggi potremmo affermare che la medicina abbia simultaneamente guadagnato e perduto qualcosa di sé. Prolungando il tempo di vita attraverso, ad esempio, i servizi di rianimazione e di terapia intensiva (Bertolini 2007), essa ha contribuito a rendere più difficile la definizione di confine tra essa stessa e la vita. Particolarmente esplicativa è la discussione circa le direttive anticipate (in atto a livello parlamentare) che hanno caratterizzato, e continuano a caratterizzare, intere pagine dei nostri quotidiani, creando e portando con sé dilemmi di diversa natura e smuovendo coscienze sia individuali sia pubbliche.

A questo proposito, che dire della diversa consapevolezza che l’uomo oggi ha di sé e dei suoi diritti, tra cui il diritto all’autodeterminazione (sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948), che si scontra con la vecchia, ma per certi versi ancora attuale, concezione paternalistica (Foucault 1998, Cabanis 1974, Braibanti Zunino 2005) del medico secondo cui il potere-dovere di cura di quest’ultimo nei confronti dei pazienti un tempo era illimitato e oggi non lo è più (almeno sulla carta)?

Nonostante le problematiche legate all’inevitabile passaggio da una medicina incentrata sul medico e sulla malattia del paziente a una medicina concertativa, costruita e fondata sulla persona malata (Angeletti Gazzaniga 2008), a emergere è sì un cambiamento politico, culturale e sociale, ma che non vede l’individuo e i suoi diritti ancora affermati (Merton 2006, Cosmacini 2003).

Pensiamo all’esigenza odierna di adottare il consenso informato nella pratica medica, consenso che nasce proprio dalla necessità di esercitare la libertà individuale nello spazio pubblico (sulla base di un’informazione completa circa il proprio stato di salute o di malattia, della libertà da coercizioni o da pressioni nelle scelte e della capacità del malato di prendere una decisione terapeutica in modo competente), tale necessità non viene attivata a livello quasi esclusivamente formale?

Allora, porsi domande riguardo il diritto di morire quando la malattia di cui si soffre non è più curabile oppure quando la situazione clinica non solo è irreversibile (ma può portare sofferenza) è plausibile? È accettabile decidere di interrompere le terapie e porre fine alla propria esistenza? Chi sostiene l’eutanasia, come la legittima agli occhi di se stesso e della società? Perché si prendono simili scelte? Che cosa le sostiene?

Alla base di queste domande sembra riemergere il tabù della morte (Deganis 2005): noi stessi, in primo luogo, tendiamo a non parlare di morte, ma soprattutto della nostra morte.

Uno dei dibattiti interni alla medicina contemporanea, non a caso, riguarda il problema dell’incontro-scontro tra le volontà dell’individuo che si trova ad affrontare la propria malattia e la propria fine, le speranze dei famigliari di questo che non riescono ad accettare la sua scomparsa e i valori e i saperi degli operatori sanitari che lo hanno in cura (Marzano 2004).

Proviamo a ricordare le svariate volte in cui ci siamo trovati a dover firmare consensi relativi ai trattamenti dei nostri dati sensibili prima di una visita medica o di un’operazione chirurgica (Felici 2008): quanto era la nostra attenzione e consapevolezza circa quel foglio formato A4 redatto in burocratese e con una formattazione dalla dubbia leggibilità (il carattere spesso non supera i 10 punti)?

Una visione sempre più secolare (Ricolfi 1988) della società ha contribuito a marcare ulteriormente i confini tra ciò che un tempo era definito lecito, giusto e dato a livello sociale, e ciò che oggi è inteso come possibile, probabile e ragionevole agli occhi dei singoli.

Così, la medicina in genere, e la ricerca psico-sociale in parte, nonostante abbiano tenuto fede ai loro principi, ai loro saperi e alle loro pratiche, oggi si trovano a doversi confrontare con dilemmi di ordine etico e morale sempre maggiori, in linea con i cambiamenti politici, culturali in essere e con una società sempre più individuale e poco avvezza alla condivisione (Vineis Ingrosso Neresini Vicarelli 2007, Alfieri 2007).

Non è una visione laica della società a sostenere il diritto di ogni uomo a decidere ciò che riguarda la propria morte e a rivendicare questo diritto come uno dei diritti fondamentali di cui egli gode?

Pensiamo alle implicazioni che una simile trasformazione può avere apportato anche nella definizione dell’identità medica e dell’identità lavorativa di tutti coloro che si occupano di assistenza nei contesti socio sanitari (Tousijn 2000): quali sono oggi i limiti entro cui l’operatore sanitario può agire? Fino a dove possono essere ritenuti leciti un suo intervento o una sua decisione?

Se una volta, allo status di medico veniva associato un potere indiscutibile, oggi quello stesso potere viene ridimensionato alla luce di un mutamento che coinvolge anche il ruolo stesso dei malati, i quali tendono sempre più a sostituire al loro status di «paziente» quello di «persona», definendo in questo modo nuovi bisogni e con essi diverse aspettative terapeutiche e relazionali (Freidson 2002).

Elaborare un percorso capace di fare fronte ai mutamenti in atto, ma soprattutto, in grado di arginare la complessità legata a essi, dovrebbe essere, a mio avviso, un passaggio consequenziale all’accettazione della nostra finitudine in primis e, in secondo luogo, alla tematizzazione di essa sulla base di una comprensione dei segni che la morte lascia.

Parlare di morte, parlare della propria morte, pensando a cosa fare prima che essa sopraggiunga e definire anche precise modalità funerarie per il proprio congedo sono solo alcuni esempi di come si potrebbe rendere un simile tema non solo argomentabile, ma anche fonte di considerazioni più approfondite. Iniziare a considerare la morte come una questione pratica, cioè tangibile nella sua dimensione concreta, potrebbe rappresentare un punto di partenza per una riflessione individuale e collettiva volta a una sua migliore comprensione e a una sua successiva elaborazione.

 

Per avvicinarmi a questo intento, la conoscenza di un becchino mi fu fatale: non che avere come amico un becchino rappresenti un fatto straordinario, più straordinario, invece, potrebbe essere raccontarlo. Dopo averlo contattato e reclutato come “guardiano” di un campo di saperi e di esperienze di cui non sapevo quasi nulla, egli è stato la mia porta d’accesso al mondo dell’al di là, pur rimanendone, io, al di qua.  A spasso con il becchino racchiude il senso del cammino che ho fatto per avvicinarmi alla morte e a me stessa, mettendo a nudo paure e timori, concedendomi spazio e tempo.

Ho scelto di adottare il termine «becchino» perché intriso di significati e di sfumature che, altrimenti, utilizzando il termine «impresario funebre», avrebbero potuto risultare mistificati. In questo senso, giusto perché si sappia, “becchino forse è voce congenere a beccaio, cioè persona che maneggia i cadaveri umani, come il beccaio le carogne. Ordinariamente, però, si riferisce a beccare, nel senso di pungere, cioè colui che pizzica i morti per accertarsi che lo siano oppure li sotterra”.

La consuetudine vuole che oggi vengano chiamati becchini solo coloro che all’atto della sepoltura sotterrano o tumulano il feretro, mentre coloro che si occupano di tutto il resto sono chiamati impresari funebri. Svolgendo una ricerca etimologica attraverso diversi motori di ricerca, ho trovato e letto una bizzarra storia sul significato di quest’espressione: i beccamorti pare venissero chiamati in questo modo poiché, per verificare e attestare il decesso di una persona, le mordevano l’alluce. Altre fonti, più verosimili, sostengono, invece, che “beccassero” i morti per derubarne gli ori e i gioielli prima della sepoltura. La liceità di simili definizioni è ovviamente discutibile, ma mi pareva opportuno proporla per caratterizzare la figura e la professione del becchino che, in questo modo, risulta essere, se non altro, degno di curiosità. Un altro modo per definire e chiamare le imprese che si occupano di gestire i morti e di organizzare i loro funerali corrisponde a onoranze funebri: in questo caso, il senso dell’espressione sta a racchiudere la funzione stessa che queste svolgono, ovvero “onorare il defunto”. Per quanto concerne gli altri, infine, i morti, essi sono semplicemente ciò che saremo noi una volta defunti: sicuramente estinti e forse anche cari... Da qui l’espressione caro estinto.



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Commenti al Post:
magdalene57
magdalene57 il 02/11/11 alle 23:12 via WEB
:-))) petto i resto della storia, mi interessa molto per via che appartengo alla schiera che vorrebbe morire in pace, nel senso di quando decido io e non gli altri. So dove e come. Dipende da quello che chi resta mi permetterą di fare. BRAVA!!!
 
 
Signoraquasiperbene
Signoraquasiperbene il 03/11/11 alle 21:44 via WEB
Grazie treasure.. ti evito il capitolo secondo, una lunga ricognizione della letteratura scientifica prodotta sull'argomento nel corso dei secoli. naaaa paaaallllaaaaaaaa. Beccati la parte etnografica hihihihih Lił
 
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