Creato da marina1811 il 04/01/2009

PAROLE ONDEGGIANTI

Tutto ciò che ho voglia di scrivere

 

Il cigno nero

Post n°73 pubblicato il 12 Marzo 2011 da marina1811

Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l'incantesimo di un'adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del “Lago dei cigni”. Sul palcoscenico Nina sarà Odette, principessa trasformata in cigno dal sortilegio del mago Rothbard, da cui potrà scioglierla soltanto il giuramento di un eterno amore. Eterea e piena di grazia Nina incarna alla perfezione il candore del cigno bianco e con difficoltà il suo doppio nero e tenebroso, che in una superba variazione ingannerà il suo principe e la voterà al suicidio. La ricerca ossessiva del suo lato oscuro e della consapevolezza della propria sessualità la condurranno verso una tempesta emozionale e all'incontro con Lily, insidiosa rivale in nero. Dietro le quinte Nina si strugge e si predispone a ‘doppiare' il suo cigno bianco.
Due anni dopo l'incarnazione radicale trovata in The Wrestler e nel campione in disarmo di Mickey Rourke, il cinema di Darren Aronofsky mette in schermo una storia speculare. Fondato sullo stesso semplice “teorema”, salire su un ring o sulle tavole del palcoscenico per esistere, Black Swan coglie questa volta la protagonista al debutto con la vita e nel ruolo della vita. Per essere, la Nina della Portman sarà obbligata a prendere un ascensore per l'inferno e a battersi col suo doppio fino a contemplarlo e a raggiungere con lui la perfezione. In aiuto del regista newyorkese interviene il balletto per antonomasia, un classico del teatro di danza, sintesi perfetta di composizione coreografica e lunare poesia tardo romantica, di chiarezza formale e inquietanti simboli psicoanalitici, che contrappone un cigno bianco (Odette) a un cigno nero (Odile) tra arabesque e attitude, tra fremiti nervosi di braccia e straordinari movimenti del corpo. E proprio tale prospettiva presta il fianco ad avvitamenti mentali, fluttuazioni interiori e metamorfosi corporali che mancano il segno, ostentando le smisurate ambizioni filosofiche dell'autore.
I rapporti spaziali-geometrici tra i protagonisti e l'architettura viva e in movimento creata dal Corpo di Ballo, perfetta rifrazione e moltiplicazione di Odette, ispirano Black Swan e fondano la sua storia senza limiti e confini di genere. Dramma, mélo, thriller e horror si combinano sullo spazio scenico (ri)creato da Aronofsky e diviso in poli d'attrazione positivi e negativi che si annullano al centro nel momento dell'estasi amorosa di Odette e del suo principe, di Nina e del suo coreografo.
Anche questa volta il regista mette al centro della scena un corpo, una donna alle prese con l'altro da sé, ossessione e oggetto di venerazione con cui cercare una possibile integrazione. Ma se a Mickey Rourke, saturo di carne e livido di pugni in faccia, è riuscita l'impresa del volo sul nero dell'epilogo, Natalie Portman fallisce la parabola e la verità del corpo, ricalcando la gestualità cignesca e crollando a terra.

 
 
 

Manuale d'amore 3

Post n°72 pubblicato il 12 Marzo 2011 da marina1811

Roberto e Sara prendono le misure della nuova casa e di una nuova vita che li vedrà presto sposi. A pochi giorni dal lieto evento, Roberto è incaricato dal suo studio legale di ‘liquidare' un agricoltore nella provincia Toscana. Ambizioso e affamato di successo, il giovane avvocato viene precipitato in un ‘altrove' che ha il sorriso aperto di una zingarata e il volto dolce di Micol. Travolto da insolita passione nell'azzurra piscina della ragazza, Roberto cede alla tentazione e a un residuo di giovinezza. Ubriaco di vino e di amore pregherà la luna di ‘prenderlo' o di farne finalmente un uomo. A Roma intanto, nello stabile di Sara, vive Eliana una giovane donna fatale e bipolare che seduce amanti occasionali e poi li ricatta. Dopo un maldestro tuffo in piscina, Eliana abborda Fabio, un anchorman televisivo coniugato con prole. Dissimulando la sua identità vincerà la fiducia di Fabio a colpi di sesso fino a distruggergli matrimonio e carriera. Nel condominio di Eliana e Sara vive anche un vecchio professore americano, sopravvissuto a un cuore nuovo, trapiantato sei anni prima. Persuaso di aver appeso al chiodo il cuore, Adrian incontrerà la bella figlia del suo portinaio, scoprendo che i desideri come i sentimenti non invecchiano mai con l'età.
Sei anni, otto episodi e due manuali dopo, Giovanni Veronesi scrive e dirige il suo terzo prontuario sentimentale, confermando Scamarcio, Bellucci e Verdone e rilanciando con Robert De Niro. Sarà forse la sua nobile presenza a ispirare quel Cupido taxi-driver armato di arco e frecce per infatuare i cuori e raccordare i capitoli. Suddiviso in tre parti il franchise sentimentale di De Laurentiis gira ancora e naturalmente attorno all'amore consumato, tradito, misurato. Come gli episodi precedenti Manuale d'amore 3 prova a (rin)tracciare una fenomenologia dei comportamenti sentimentali che abbia un valore ‘assoluto' e a innescare processi di identificazione presso il pubblico più vasto. Per questa ragione la commedia di Veronesi svolge tre movimenti sentimentali (Giovinezza, Maturità, Oltre), esibendo le stagioni dell'amore e permettendo a tre diverse generazioni di riconoscersi.
Solarino-Scamarcio-Chiatti coprono nel capitolo più felicemente riuscito i trentenni sopravvissuti ai lucchetti e alla morale mocciosa della favola. Step ha lasciato la moto per la toga e adesso sogna di impalmare la più impegnata signorina Effe, e il castello dei sogni e la voglia della Chiatti sono soltanto il precipitato di una giovinezza sfumata insieme ai finali zuccherosi. A Carlo Verdone e Donatella Finocchiaro tocca in sorte la vicenda più rocambolesca, che riduce in miseria sentimentale e professionale un mellifluo conduttore televisivo, prossimo per autocommiserazione e pavidità al dentista di Italians, road movie di imbarazzante buonismo firmato (di nuovo) Veronesi. Borghese, conformista e ‘in panne', Verdone oscilla tra il registro comico e quello patetico sentimentale, sedotto e ben accompagnato da un attrice drammatica prestata alla commedia. Chiude l'età terza e oltre dell'amore la relazione sentimentale e di amorosi sensi tra Monica Bellucci e ‘quel bravo ragazzo' di Bob De Niro, che la idealizza in inglese, le parla in italiano, la seduce con accento esotico e la desidera con forti accenti. Episodio ‘a rischio' di rovesci, Oltre scampa lo scacco e il grottesco con l'interpretazione elegante e ‘spaesata' di un attore, combattente ieri, precario oggi, messo (letteralmente) a nudo.

 
 
 

Mediterraneo da Courbet a Monet a Matisse

Post n°71 pubblicato il 12 Marzo 2011 da marina1811
Foto di marina1811

Dipingere il mare, la sua vastità, l’idea che dell’infinito e tuttavia anche della prossimità vi s’inscrive, è cosa che nel XIX secolo assume una rilevanza difficilmente dimenticabile.
Se a nord sono le visioni fortemente spirituali di Friedrich o le tempeste baluginanti e magmatiche di Turner, a sud la costa del Mediterraneo, e naturalmente il suo immediato entroterra provenzale, sono il punto d’incontro di più generazioni di pittori francesi, sicuramente cinque, che dall’ambito del classicismo prima e del realismo poi, si tendono fino alla dissoluzione del colore nella materia mirabile di Bonnard quasi al confine con la metà del XX secolo.

La mostra di Palazzo Ducale vuole studiare, facendo ricorso a circa 80 dipinti provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, questo itinerario magico dentro il colore, che a Van Gogh fece così scrivere: «Colore cangiante, non sai mai se sia verde o viola, non sai mai se sia azzurro, perché il secondo dopo il riflesso cangiante ha assunto una tinta rosa o grigia.»
Eppure la costa del Mediterraneo francese si impose con notevole ritardo nella percezione che i pittori avevano del paesaggio in quell’inizio di XIX secolo, proprio nel momento in cui Pierre-Henri de Valenciennes pubblicava il suo celebre trattato sulla rappresentazione della natura. Perdurava l’idea che la nozione del Mediterraneo fosse stretta al senso dell’antichità e in primo luogo alla romanità. Per cui il riferimento alla coste italiane, quali luoghi deputati di questo riandare all’antico, dominava la pittura. Un contributo fondamentale a un primo cambiamento, dopo i quadri settecenteschi di Vernet e Robert da cui la mostra prende le mosse, venne da Camille Corot, che dopo un breve transito in Provenza nel 1834, ritornò due anni più tardi assieme all’amico pittore Prosper Marilhat, così da dipingere alcune vedute della zona di Avignone assai significative. A questo tempo del realismo si possono certamente ascrivere anche le opere di Félix Ziem e di Émile Loubon, con i loro quadri realizzati attorno a Marsiglia, Antibes e Nizza.
Così come quelli di Paul Guigou e Adolphe Monticelli, ovviamente assieme a quelli meravigliosi di Gustave Courbet specialmente dipinti dal piccolo villaggio di pescatori di Palavas, nella zona di Montpellier. A questo primo tempo della mostra ne succede un secondo, quello in cui alcuni grandi dell’impressionismo danno conto, in molti quadri sublimi, delle loro visite, o lunghi soggiorni, in Provenza e lungo la costa del Mediterraneo. Da Cézanne a Monet, da Renoir a Boudin a Van Gogh. Cézanne che dagli anni settanta coltiva quello spazio, sia esso il mare o il bosco, come la nascita di una continua, sempre nuova bellezza. Renoir che proprio vicino a Cézanne dipinge, tra 1882 e 1883, scorci bellissimi di natura. E ancora i due soggiorni di Monet net (presente in mostra con una decina di opere) nel 1884 a Bordighera e nel 1888 tra Antibes e Menton, quando il mare è come un tappeto di pietre preziose.
E poi i due anni provenzali di Van Gogh. Anni cui seguono immediatamente quelli del post impressionismo, che hanno soprattutto in Signac tra Saint-Tropez e Antibes la loro punta di diamante. Ma anche Van Rijsselberghe, Cross, Valtat, Guillaumin, Manguin, Camoin solo per dire di alcuni. E dentro una luce precipuamente francese stanno quei quadri che Edvard Munch dipinse a Nizza, nel corso di un periodo di convalescenza, tra 1891 e 1892, quadri quasi tutti in mano privata. La sezione dedicata alla pittura dei Fauves è certamente significativa, con quadri di autori quali Matisse, Derain, Marquet, Braque, Friesz, Dufy, in quel loro indicare come il Mediterraneo, soltanto pochi decenni dopo, sia cosa quasi completamente diversa rispetto alle visioni di Courbet. Già pienamente dentro la modernità di un secolo che si veniva appena aprendo. E che nella regione provenzale, e sulle rive del Mediterraneo, proseguirà con gli esempi in mostra di Felix Vallotton, Chaïme Soutine e Pierre Bonnard, il pittore che più di ogni altro ha saputo consegnare la strabiliante lezione di Monet al secolo nuovo.

 
 
 

La lettera d'amore - Cathleen Schine

Post n°70 pubblicato il 12 Marzo 2011 da marina1811
Foto di marina1811

Una libreria tinta di rosa, sulla costa atlantica degli Stati Uniti. Una bella libraia, divorziata senza rimpianti e appassionata del suo mestiere. Un variegato ventaglio di clienti e commessi. Infine, una lettera d'amore che sbuca fra la posta. Non si sa chi l'abbia scritta, non si capisce a chi sia rivolta. Ma quelle parole si insinuano nella mente della libraia e creano una serie di eventi. Fino alla sorpresa finale.

 
 
 

Gianni e le donne

Post n°69 pubblicato il 13 Febbraio 2011 da marina1811

Gianni ha sessant'anni, una natura mite, nessuna ambizione e troppi rimpianti. Vessato da una figlia svagata, una moglie remota e una mamma esagerata, da diversi anni versa in una baby pensione e dentro un quotidiano rassegnato. A piedi o a bordo della sua desueta Alfa 164, Gianni trascina se stesso per la capitale e trova sempre una bottiglia per dimenticarsi. Incoraggiato da un amico avvocato e risvegliato da bionde badanti, vicine mondane, primi amori, gemelle intriganti, l'uomo prova a scuotersi dal torpore, a emanciparsi dall'ingombrante figura materna e a procurarsi un amante che rinverdisca la sua età. Respinte le sue avance indolenti, Gianni prenderà coscienza dei suoi tanti anni.
Seconda volta per Gianni Di Gregorio che si presenta di nuovo in primo piano e in rifrangenza tra pubblico e privato, dentro un presente che non gratifica e un futuro che non riesce proprio a immaginarsi. Alzatosi sazio e pienamente soddisfatto dal suo Pranzo di Ferragosto, che ottenne il plauso della critica e del pubblico, il regista romano raddoppia l'allegria con una commedia in frustrata ricerca di riempitivi al vuoto esistenziale di un uomo di mezza età. Gianni, appunto.
Persona e personaggio coincidono ancora una volta sullo schermo, trascinandosi abulici in un appartamento di Trastevere, provvedendo con sollecitudine alla viziata madre e cercando qualcuna per amarsi magari un po' di più. Trasteverino, classe 1949, attore teatrale, aiuto regista di Matteo Garrone, sceneggiatore di Sembra morto ma è solo svenuto e co-sceneggiatore di Gomorra, Di Gregorio gira una commedia garbata, che lo pedina in soggettiva per le strade di una Roma fuori dalla canicola ferragostana e placata in rassegnate malinconie. Dopo aver messo in scena la seconda infanzia e obbligato il cinema a ripensare una società che includa l'anziano, in cerca di una felicità edonistica e abbandonato ai piaceri del cibo e del vino, l'autore romano affronta questa volta gli sbandamenti sentimentali di un uomo di mezza età alle prese col gentil sesso. Da sempre soggetto passivo e bersaglio ideale del dispotismo femminile (a partire da quella madre esigente ed emotivamente soffocante), Gianni cavalca maldestramente, incalzato da un azzeccagarbugli suadente, i comportamenti collettivi di moda, finendo per rendersi ridicolo agli occhi di chi voleva corteggiare e magari ‘possedere'.
Ma Gianni non ha (più) l'età per corrispondere la giovinezza e nemmeno il denaro per corromperla. A ripensarci poi, a mancargli è pure la volontà, troppo indolente per permettersi una rivoluzione sessuale, meglio allora abbandonarsi a un clima di crescente smarrimento e arrendersi all'evidenza di un corpo corrotto e poco attraente, alla propria bellezza incrinata e appassita. Sfuggendo il cinema omologato, Di Gregorio sceglie ritmi e modi per parlare di sé, producendo toni cupi e una serietà autoironica, che si stemperano dentro a un universo ricomposto in una saggia armonia.
Rimanendo fedele a se stesso e al suo film d'esordio, il beato tra le gonne (le donne e le nonne) coinvolge di nuovo lo spettatore con la potente matrice autobiografica del suo cinema appena cominciato.

 
 
 

Kataklò love machines

Post n°68 pubblicato il 03 Febbraio 2011 da marina1811
Foto di marina1811

Love Machines” è uno spettacolo ideato e diretto dalla fondatrice dell’ensamble Giulia Staccioli, dedicato alla grande figura di Leonardo da Vinci, artista della ricerca e ricercatore dell’arte.
Nell’elaborazione delle coreografie e della drammaturgia Giulia Staccioli, coadiuvata dalla preziosa collaborazione di Jessica Gandini, si è ispirata agli studi di Leonardo da Vinci sul corpo umano e sulle macchine, realizzando un viaggio allegorico ed affascinante alla ricerca della bellezza e dell’anima che li unisce.

In un mondo sconosciuto e misterioso due esploratori, curiosi ma al contempo goffi ed impacciati, indagano lo spazio circostante ed incontrano sul loro cammino delle macchine dall’animo vivo, esseri abitati da altri esseri. Corpi macchina che prendono e danno vita l’uno agli altri, che popolano un mondo dove non ci sono regole certe; dove manca il concetto di dritto e rovescio. Un mondo di traverso in cui le cose vanno dritte, immerso in una dimensione atemporale, che ospita oggetti inconsueti, piani inclinati, ostacoli da sfidare.
I corpi-macchina che abitano la scena e le inclinazioni che la complicano sono l’anima di questo spettacolo, il perno allegorico di una ricerca di conoscenza che sfida gli equilibri, che osa oltrepassare le normali leggi della gravità, che indaga i limiti dell’uomo e quelli del mondo circostante, per abbatterli.

Sono gli 8 straordinari performer della compagnia Kataklò, impegnati nelle coreografie di gruppo e negli assoli, che portano la magia di Leonardo, del suo mondo visionario e innovativo, in scena: negando le apparenze, rifiutando le comodità, sperimentando i gesti e i movimenti possibili, spingendo in avanti i propri limiti, conferendo a tutto questo un assoluto senso di leggerezza e naturalezza. Togliendo il peso dell’umano e trovando la levità dell’aria come nuova sostanza.

Come nella migliore tradizione della compagnia, “Love Machines” è un’opera di visual e physical theatre, che unisce diverse forme di espressione, formulando in scena il proprio nuovo alfabeto spettacolare, fatto di danza, teatro, musica, acrobatica ed arte visiva.


 
 
 

Il discorso del re

Post n°67 pubblicato il 30 Gennaio 2011 da marina1811

Duca di York e secondogenito di re Giorgio V, Bertie è afflitto dall'infanzia da una grave forma di balbuzie che gli aliena la considerazione del padre, il favore della corte e l'affetto del popolo inglese. Figlio di un padre anaffettivo e padre affettuoso di Elisabetta (futura Elisabetta II) e Margaret, Bertie è costretto suo malgrado a parlare in pubblico e dentro i microfoni della radio, medium di successo degli anni Trenta. Sostituito il corpo con la viva voce, il Duca di York deve rieducare la balbuzie, buttare fuori le parole e trovare una voce. Lo soccorrono la devozione di Lady Lyon, sua premurosa consorte, e le tecniche poco convenzionali di Lionel Logue, logopedista di origine australiana. Tra spasmi, rilassamenti muscolari, tempi di uscita e articolazioni più o meno perfette, Bertie scalzerà il fratello “regneggiante”, salirà al trono col nome di Giorgio VI e troverà la corretta fonazione dentro il suo discorso più bello. Quello che ispirerà la sua nazione guidandola contro la Germania nazista.
Dopo aver raccontato la storia della Rivoluzione americana in nove ore, dentro una mini-serie e attraverso gli occhi del secondo presidente degli States (John Adams), Tom Hooper volge lo sguardo verso il vecchio continente, colto in tribolazione e alla vigilia del Secondo Conflitto Mondiale. Al centro del palcoscenico la cronaca del malinconico e addolorato Duca di York, figlio secondogenito dell'energico Giorgio V, inchiodato dalla balbuzie e da una complessata inferiorità di fronte allo spigliato fratello maggiore David. Crogiolo d'angoscia (im)medicabile e di squilibri emotivi sono quelle esitazioni, quei prolungamenti di suoni, quei continui blocchi silenti che impediscono a Bertie di esprimersi adeguatamente, ingenerando una sensazione di impotenza.
Il regista britannico si concentra sul vissuto interno del protagonista, rivelando le conseguenze emotive del disagio nel parlato ai tempi della radio e in assenza del visivo. Il discorso del re non si limita però a drammatizzare la stagione di vita più rilevante del nobile York e relaziona un profilo biografico di verità con un contesto storico drammatico e dentro l'Europa dei totalitarismi, prossima alle intemperanze strumentali e propagandistiche di Adolf Hitler. Non sfugge al re sensibile di Colin Firth e alla regia colta di Hooper l'abile oratoria del Führer, che intuì precocemente le strategie di negoziazione tra ascoltatore e (s)oggetto sonoro, il primo impegnato nel tentativo di ricostruire l'immagine della voce priva di corpo, il secondo istituendo un rapporto di credibilità se non addirittura di fede con la voce dall'altoparlante.
Se il mondo precipitava nell'abisso non era tempo di guardare al mondo con paura, soprattutto per un sovrano. Bertie, incoronato Giorgio VI, doveva ricucire dentro di sé il filo interrotto della relazione con l'altro, affrontando il suo popolo dietro al microfono e l'immaginario radiofonico. Fu un illuminato e poco allineato logopedista australiano a correggere il “mal di voce” di un re che voleva imporsi al silenzio. Lionel Logue sostituì col metodo il protocollo di corte, educando la balbuzie del suo blasonato allievo e incoraggiandolo a costruire la propria autostima, a riprendere il controllo della propria vita e a vincere prima la guerra con le parole e poi quella con le potenze dell'Asse.
A guadagnare la fluenza e a prendersi la parola è il ‘regale' protagonista di Colin Firth, impeccabile nell'articolare legato, solenne nella riproposta plastico-fisica del suo sovrano e appropriato nell'interpretazione di un re che ‘ingessa' emozioni e corporeità nel rispetto rigoroso della disciplina. Dietro al ‘re' c'è l'incanto eccentrico di Geoffrey Rush, portatore di una “luccicanza” che brilla, rivelando la bellezza della musica (Shine) o quella di un uomo finalmente libero dalla paura di comunicare. Lunga vita al re (e al suo garbato precettore dell'eloquio).

 
 
 

Thom Pain

Post n°66 pubblicato il 30 Gennaio 2011 da marina1811
Foto di marina1811

Il monologo di Will Eno richiede all'interprete grandi capacità recitative, perchè si svolge sul doppio binario delle memorie del personaggio e sulle sue capacità di interagire con il pubblico.
Thom Pain, il personaggio che dà il titolo al monologo, racconta infatti di se stesso, delle sue paure e dei suoi ricordi, seguendo più il filodel monologo interiore che quello dell'esposizione narrativa lineare.
Lo spettacolo inzia al buio, sentiamo la voce di Tom e il rumore delle pagine sfogliate di un dizionario dal quale legge, anche se al buio, le definizioni della parola paura. Invece di parlare di sè davanti una platea come se questa non esistesse Thom interagisce col pubblico: ci parla, lo interroga, si distrae per una bella ragazza, scende in platea per invitarla a prendere una birra dopo lo spettacolo, per poi chiudere la storia con lei come se durasse già da troppo ridammi pure pure le chiavi di casa, è finita. Thom commenta se uno spettatore cambia posto (ne abbiamo giù perso uno ?) distrae il suo pubblico con inesistenti giochi a premi, o con falsi inviti a salire sul palco, in un altalenarsi di ironia e dramma, di battuta e ricordo doloroso. Niente di troppo drammatico, o di particolare, il ricordo di una convivenza con la donna della sua vita, la morte accidentale di una cagnolina della sua infanzia, basta poco a Thom (e a Will Eno che ha scritto il monologo) per mostrare che la sua paura, la sua idiosincrasia per l'esistenza, sono squisitamente umane, che, insomma, nel dolore che prova (pain in iglese) Thom non è diverso dagli spettatori, se non per il ruolo che ricopre in quel momento sulla scena. Il pubblico un po' ride, ma è la classica reazione che si ha quando si vedono sul palco aspetti di se stessi e se ne prendono le distanze ridendo.
Quando Thom chiede a uno spettatore di salire su palco con lui sul serio, sorprende tutti, spettatore scelto e resto della platea. L'ignaro spettatore prende simbolicamente il posto di Thom, sedendo sulla sedia che costituisce l'unico elemento scenico del monologo (oltre al dizionario e una bottiglia d'acqua) e Thom conclude il suo racconto. Incalza il suo pubblico, sollecita a una vita più attiva, meno pavida, da vivere come se sapessimo che abbiamo solo un mese di vita. Elio Germano dà tutto se stesso al personaggio, senza sbagliare mai ritmo, intenzione, momento, grazie anche a una regia, che Germano firma assieme a Silvio Peroni, efficace ed essenziale, mentre le luci, staticissime, sono forse unico neo dell'allestimento.
Quello di Will Eno è un teatro di parola che ha ancora molto da dire e che sa farlo senza trascurare la ricerca del teatro conteporaneo più performativo e meno tradizionalmente drammaturgico.
Thom Pain dimostra che è possibile inventare ancora dei personaggi che hanno qualcosa da dire, a trovare il giusto attore che li interpreti. Elio Germano lo fa in maniera impeccabile.

 
 
 

La tempesta

Post n°65 pubblicato il 27 Gennaio 2011 da marina1811
Foto di marina1811

LO SPETTACOLO Autore: William Shakespeare
Regia: Andrea De Rosa
Genere: tragedia
Compagnia/Produzione: Mercadante Teatro Stabile di Napoli/Emilia RomagnaTeatro Fondazione/Teatro Eliseo
Cast: con Umberto Orsini, Flavio Bonacci, Rino Cassano, Francesco Feletti, Carmine Paternoster, Rolando Ravello, Enzo Salomone, Federica Sandrini, Francesco Silvestri, Salvatore Striano spazio scenico Alessandro Ciammarughi, Andrea De Rosa, Pasquale Mari scene e costumi Alessandro Ciammarughi luci Pasquale Mari suono Hubert Westkemper musica Giorgio Mellone

Descrizione
Andrea De Rosa approda ora a "La tempesta" di William Shakespeare. I temi cardine - vendetta, perdono, morte, rinascita, colpa, schiavitù e ricerca della libertà - sono affrontati alla luce dell'illusione e del sogno, mentre il mondo misterioso e indecifrabile dei versi shakespeariani diventa terrreno ideale per il regista, che esprime, attraverso la trama dell'opera, il racconto dell'uomo che vive e agisce tra mondi paralleli.

"Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni" e ad un sogno assistiamo nell'allestimento de "La Tempesta" di Andrea De Rosa. Un sogno che ha inizio con un risveglio violento: un urlo lancinante, un vagito disperato di una donna che dal letto di un ospedale psichiatrico si desta sconvolta dall'incubo in cui ha visto le navi del Re di Napoli distruggersi nella tempesta. Quella donna non è una pazza, non siamo in un ospedale psichiatrico ma solo sull'isola in cui Prospero, il deposto Duca di Milano, vive da molti anni con la figlia Miranda. Un’isola eterea dall'atmosfera algida. Al centro un lungo drappo scarlatto scende dal cielo fino al terreno roccioso e arido, dietro al letto in cui Miranda dormiva. Suoni di natura e magia saturano di rumori indefiniti l'aria in cui tutti i personaggi vagano sempre assieme, ma ognuno perso nel proprio sogno. L'unico consapevole, desto e padrone degli accadimenti, è Prospero - Umberto Orsini - che ricerca, con l'aiuto dell’aggiogato spirito dell'isola Ariel, la propria vendetta sui suoi detrattori: il fratello Antonio e il Re di Napoli. La ricerca della vendetta è un viaggio interiore e purificatore con cui Prospero rivive la propria vita per giungere trovando se stesso "quando nessuno era padrone di sé” (Gonzalo atto V). Tutto è quindi nella regia di De Rosa ricondotto a questo percorso interiore di Prospero-Orsini: è suo il sogno a cui assistiamo. La complessa e articolata commedia shakesperiana è stata ridotta - anche testualmente - al viaggio onirico e mentale di un uomo, di un attore, che ripercorre il proprio dramma per riappropiarsi della propria umanità fino a chiedere, nell’epilogo di Prospero: “liberatemi da ogni inceppo con l'aiuto delle vostre valide mani [...] fate che io sia affrancato dalla vostra indulgenza”. La storia, i personaggi sono solo funzionali al percorso di liberazione del personaggio-attore e perdono di sostanza e concretezza. E così abbiamo un Ariel senza consistenza annullato nell'orrizontalità dell'interpretazione e nella verticalità di un sali e scendi fisico attraverso un'imbragatura che lo lega alla gratticcia (tra l'altro di strehleriana memoria), mentre gli altri attori vagano da una parte all'altra dell'isola-mente come automi, sempre presenti anche quando non coinvolti nell'azione, creando un situazione confusa in cui non sempre si comprende cosa accade o in che punto siamo della storia. Di pregio è il Colibano di Rolando Ravello che porta in scena, non un mostro tribale, ma un credibile disadattato psichico, fragile e ossessionato dal proprio sesso. Un’ottima interpretazione che però stona con il resto della messa in scena o, forse, accenna a qualcosa che non emerge con chiarezza. Altri accenni, come la scelta del letto psichiatrico, gli abiti da clocharde di Prospero, alcuni riferimenti visivi e addirittura una battuta beckettiana tra Ariel e Prospero (A che servo io? - A darmi la battuta.) fanno pensare ad un legame, un'aspirazione, ma Prospero non è Hamm o l'innominabilie e tutto rimane vago. Oltre gli ammiccamenti a Beckett e altre immagini - come il cristologico spezzare del pane al banchetto per gli innamorati – ingiustificato e deludente è il finale in cui Prospero diventa Orsini e per un attimo la finzione teatrale si interrompe e la realtà diviene mera finzione. Un finale forse che tenta di chiarire l’idea registica di ridurre tutto alla ricerca interiore dell’uomo, attore e personaggio, ma che lascia solo perplessi. Fortunatamente e grazie ad un'ottima prova d'attore di Umberto Orsini, gli ultimi istanti di spettacolo riprendono l'aspetto dell'arte con l'abito di parole del grande Shakespeare.

 
 
 

Hereafter

Post n°64 pubblicato il 27 Gennaio 2011 da marina1811

Marie Lelay è una giornalista francese sopravvissuta alla morte e allo tsunami. Rientrata a Parigi si interroga sulla sua esperienza sospesa tra luccicanza e oscurità, alienandosi fidanzato ed editore. Marcus è un fanciullo inglese sopravvissuto alla madre tossicodipendente e al fratello gemello, investito da un auto e da un tragico destino. Smarrito e ‘spaiato’ cerca ostinatamente ma invano di entrare in contatto con Jason, di cui indossa il cappellino e conserva gli amabili resti. George Lonegan è un operaio americano in grado di vedere al di là della vita. Deciso a ripudiare quel dono e a conquistarsi un’esistenza finalmente normale, George ‘ascolta’ i romanzi di Dickens e frequenta un corso di cucina italiana. Sarà proprio la “piccola Dorrit” dello scrittore britannico a condurlo fino a Londra, dove vive Marcus e presenta il suo nuovo libro Marie. L’incontro sarà inevitabile. George, Marcus e Marie troveranno soccorso e risposte al di qua della vita.
Non si può vedere “al di là” delle cose senza finire prigionieri del dolore. Lo sanno bene George e Marie, protagonisti adulti di Hereafter, che hanno oscillato sulla soglia, sperimentando la morte e scampandola per vivere al meglio quel che resta da vivere nel mondo. Un mondo reso meno imperfetto da un ragazzino che ha negli occhi e nei gesti qualcosa di gentile. Qualcosa che piacerà al George di Matt Damon e troverà un argine alla sua solitudine. Nella compostezza di una straordinaria classicità, che si concede un momento di tensione quasi insostenibile nella sequenza lunga e spietata del maremoto, l’ultimo film di Clint Eastwood insegna qualcosa sulla vita confrontandosi con la morte, quella verificata (Marie), quella subita (Marcus), quella condivisa (George).
Hereafter prende atto che la vita è un esperimento con un termine e si articola per questo attraverso prospettive frontali: al di qua e al di là del confine che separa la presenza dall’assenza. È questa linea di demarcazione a fare da perno al montaggio alternato delle vite di una donna, di un uomo e di un bambino dentro una geometria di abbagliante chiarezza e spazi urbani pensati per gravare sui loro destini come in un romanzo sociale di Dickens. Destini colpiti duramente e deragliati ineluttabilmente dalla natura (lo tsunami in Indonesia), dalle tensioni sociali (gli attacchi terroristici alle metropolitane londinesi), dalla fatalità (l’incidente stradale), destini che si incontrano per un attimo (o per la vita) in un mutuo scambio di salvezza. Perché da tempo i personaggi di Eastwood hanno abbandonato l’isolazionismo tipico dell’eroe americano a favore di una dialettica che mette in campo più interlocutori e pretende il contrasto.
Hereafter non fa eccezione e prepara l’incontro, il controcampo del campo: lo sguardo di Cécile De France che ha visto, quello di Matt Damon che riesce a vedere, quello del piccolo Frankie McLaren che vuole andare a vedere. Facendosi in tre l’autore mette lo spettatore al centro di qualcosa di indefinibile eppure familiare come il dolore dell’essere, produce punti di vista potentemente fuori binario sul tema della morte e offre a Damon l’occasione di comporre la migliore interpretazione della sua carriera. Disfandosi della cifra della neutralità, il divo biondo conquista l’emozione e la cognizione del dolore, abitando un sensitivo che ha visioni di morti (e di morte) al solo contatto delle mani, una tristezza profonda piena di pietà e il desiderio di smettere di vedere il passato di chi resta e di immaginare il futuro (e il sapore) di un bacio.
Clint Eastwood con Hereafter conferma la vocazione alle sfumature, azzarda l’esplorazione della morte con la grazia del poeta, interroga e si interroga su questioni filosofiche e spirituali e contrappone alla debolezza del presente e dentro un epilogo struggente l’energia di un sentimento raccolto nel futuro. Raccolto inevitabile, come un trapasso e ogni altra dinamica di natura.

 
 
 

Che bella giornata

Post n°63 pubblicato il 18 Gennaio 2011 da marina1811

Checco, security di una discoteca della Brianza, sogna di fare il carabiniere ma viene respinto al colloquio. Grazie alla raccomandazione di uno zio presso il vescovo di Milano, si ritrova a lavorare come addetto alla sicurezza del Duomo. Qui conosce Farah, una ragazza araba che si finge studentessa di architettura per avvicinare la Madonnina, ai piedi della quale medita in realtà di depositare una bomba per vendicare l'uccisione della sua famiglia. Checco abbocca immediatamente all'amo di Farah –lui pugliese di madre tarantina e lei “francese di madre bina”- ma quel che la ragazza non può immaginare è che la maggior minaccia per il prossimo e per il patrimonio artistico italiano è rappresentata da Checco stesso: un esplosivo connubio di ignoranza e beata, razzista ingenuità.
Alla seconda prova cinematografica, Checco Zalone, il personaggio creato da Luca Medici per portare a galla il peggio del “buon uomo” italiano, conferma di possedere una scintilla di genialità, che gli permette di conquistare critica e pubblico, distraendoli persino dalle enormi debolezze di fattura dei suoi film. Più idiota di Clouseau, più ingenuo di Mr Bean, maschera poco italiana dell'italiano medio in soluzione concentrata, Zalone non conosce pudore né timore, nemmeno in fase di scrittura, e dunque si scaglia contro le missioni di pace così come contro Chiesa e clero (gli angeli e i demoni di “don Brown”, insomma), come pochi altri oserebbero fare al di là di una battuta, così in grande stile.
Che Bella Giornata non prosegue Cado dalle nubi, il setting è stato azzerato e ripensato in toto, ma estingue per sempre il dubbio che il comico avesse un unico colpo in canna, fatto della somma delle sue sparate televisive, e ci permette di salutare davvero l'avvento di un talento così intelligente da prendere il proprio pubblico come target nel senso letterale di bersaglio (sviando minimamente le indagini quando seleziona l'Islam a pretesto, per impugnarlo in realtà come uno specchio impietoso).
La trovata dell'agente di sicurezza, versione italiota della spia che altrove ha combinato guai immensi (una per tutte, Johnny English), inserisce il nostro idiota del villaggio nel cuore delle relazioni istituzionali, alzando dunque il tiro rispetto all'ambientazione familiare del primo film, ma conservando perfettamente la portata disintegrante del protagonista in quanto elemento (la definizione è di Marescotti) “socialmente scorretto” prima e forse più che politically uncorrect.
Regia di Gennaro Nunziante, musiche diabolicamente indimenticabili di Checco Zalone.

 
 
 

Shutter island

Post n°62 pubblicato il 18 Gennaio 2011 da marina1811

Nel 1954, i due agenti federali Teddy Daniels e Chuck Aule vengono inviati con un battello a Shutter Island, a largo della costa est, per investigare sull'improvvisa scomparsa di una pericolosa infanticida residente presso l'istituto mentale Ashecliffe, Rachel Solando. Il direttore dell'istituto, il dottor Cawley, e i vari infermieri sostengono che la madre assassina si sia come dileguata dalla sua stanza senza lasciare alcuna traccia, ma l'agente Daniels pare nutrire fin dal principio dei forti sospetti sul modo di condurre l'ospedale da parte del dottor Cawley e del suo medico assistente, il dottor Naehring. Un uragano costringe i due agenti a protrarre il soggiorno sull'isola, durante il quale le indagini proseguono e particolari sempre più inquietanti emergono, mentre Daniels continua ad avere delle visioni che riguardano la moglie defunta e le sue esperienze di guerra contro gli ufficiali nazisti.
Nell'anno del celebrato restauro di Scarpette rosse, due dei più grandi cineasti della modernità americana hanno pagato il loro personale tributo al capolavoro di Michael Powell e Emeric Pressburger. Francis Ford Coppola ne cita copiosamente delle parti in Tetro, mentre Scorsese, oltre ad averne curato in prima persona il restauro, struttura il suo Shutter Island come quella stessa infinita scala a chiocciola che viene percorsa da Vicky nel finale del film. Ma se il punto di riferimento è lo stesso, completamente opposti sono i sensi che guidano il loro operare. Per Coppola, Scarpette rosse è un modello da imitare, un ideale di rinascita da proporre al cinema contemporaneo ora che il mezzo digitale permette di tornare a quel tipo di fantasia immaginifica. Al contrario, per Scorsese quella spirale infinita rappresenta la capitolazione di un tipo di cinema che non è più riproducibile nell'era della simulazione e della ripetizione.
La spirale è quindi la forma che sceglie per raccontare questa gothic novel che accumula strato dopo strato suggestioni, visioni, ricordi, angosce e paranoie per arrivare ad una soluzione finale che cerca di sciogliere i misteri e di sorprendere lo spettatore con un twist non troppo imprevedibile. Ma manipolare lo spettatore non è mai stato uno dei passatempi preferiti di Scorsese, quanto piuttosto l'idea di raccontare dei personaggi manipolati dall'impossibilità di aderire alla realtà. Con Shutter Island, il regista italo-americano arriva in un certo senso a proporre la definitiva consacrazione dell'uomo avulso dalla realtà e della follia come forma unica di sopravvivenza. Per dare enfasi all'idea, riprende il suo personaggio quasi sempre per tagli trasversali o obliqui, insistendo nel catturarlo dal basso verso l'alto per enfatizzarne la distanza. Il personaggio di DiCaprio diviene così l'ennesimo man of violence della sua filmografia, colui che lotta brutalmente per cancellare la sua memoria e restare attaccato al proprio mondo. Ma eliminare i ricordi (le immagini, il cinema) significa inevitabilmente creare dei fantasmi, manipolare una serie di immagini preconosciute della Storia (cosa che fa nei ricordi dei campi di concentramento con il carrello che segue un'esecuzione quasi coreografica dei gerarchi nazisti all'ingresso del campo di Dachau) e, in ultima analisi, confessare l'impossibilità di far pace con la verità.
Da questo punto di vista, Shutter Island porta a compimento un discorso che Scorsese pare condurre da quando il suo cinema si è fatto più ampio, più accademico: l'incapacità di raccontare un mondo dove non domina solo la violenza, ma soprattutto la dissimulazione, di immaginare qualcosa di nuovo laddove tutto appare una ripetizione, un rifacimento. In fondo alla sua scala a chiocciola fatta di mistero e di suspense, Shutter Island pare raccontare proprio questo: nell'era contemporanea, il sonno della ragione non genera più mostri, ma fantasmi, doppi, simulacri di qualcosa che è già stato visto o vissuto.

 
 
 

L'apprendista stregone

Post n°61 pubblicato il 18 Gennaio 2011 da marina1811

L'eterna lotta tra Balthazar Blake e Maxim Horvath, stregoni una volta amici e poi rivali a causa (come sempre) di una donna il cui amore li ha divisi, dopo essersi dipanata per secoli tra incantesimi, trappole e prigionie in bambole russe è arrivata al giorno d'oggi a Manhattan, dove Balthazar ha trovato quello che probabilmente è la nuova incarnazione di Merlino. Il grande mago è stato il maestro di entrambi ed è l'unico a poter fermare la strega Morgana, che Horvath mira a liberare dal giogo cui l'ha costretta Balthazar. Certo, la nuova incarnazione di Merlino non è proprio quello che si direbbe un avventuriero, Dave infatti nasconde molto bene (anche a se stesso) i propri poteri e le proprie doti ed è più interessato a vivere una vita normale, magari con una ragazza, che a combattere maghi dal passato. Sarà necessario un lungo percorso di apprendistato presso Balthazar per scoprirsi erede di Merlino.
Come il titolo lascia intuire tutto nasce dall'omonima ballata composta da Wolfgang Goethe, poi diventata poema sinfonico grazie alle musiche di Paul Dukas e infine arrivata al cinema come segmento di Fantasia con protagonista Topolino (seguendo sia la storia di Goethe che le musiche di Dukas). Da questo spunto sempre la Disney ha ora deciso di trarre un lungometraggio, allargando la storia, inventando una mitologia, dei precedenti, altri personaggi e creando una trama in pieno stile disneiano (ovvero il percorso classico di un eroe che si scopre tale tra l'amore per una ragazza e la conquista del proprio ruolo). Non manca, ovviamente, la scena delle scope con uno score musicale che riprende e ricorda molto quello di Dukas.
Lo sforzo fatto purtroppo non nasconde la realtà dei fatti: L'apprendista stregone, è uno spunto allargato a dismisura, una storia slabbrata per quanto è stata tirata per le lunghe, seguendo pedissequamente ogni moda in materia di film d'azione e fantasia senza criterio. Dal montaggio esageratamente frenetico realizzato senza coscienza che impedisce di comprendere le scene più caotiche, fino alla fotografia a colori saturi e contrastati, tutto appare una scelta dettata dalla produzione e non dalla direzione. Non bastasse questo anche le scelte di casting contribuiscono a levare plausibilità al racconto, con la notevole eccezione di Jay Baruchel e Alfred Molina, il resto del cast suona fuori parte, svogliato e mal diretto. Da Nicolas Cage al piccolo ruolo di Monica Bellucci il film è un continuo trionfo del falso, dell'implausibile e del fuori parte.
In un momento in cui il fantasy riempie le sale con saghe (Harry Potter e Le cronache di Narnia) o film singoli (Percy Jackson, Scontro tra Titani, Ember), l'inserimento di un'altra pellicola centrata su una dimensione magica e mitologica nella modernità sembra trovare senso solo nella maniera in cui cerca un'inedita commistione tra la magia tradizionale e la magia moderna, ovvero la tecnologia e la fisica. In L'apprendista stregone gli incantesimi sono per metà frutto di manipolazione della fisica e per metà imponderabile metafisica, perfetta rappresentazione dell'incastro razionale causato dalla crescente presenza nella quotidianità di forze reali che per la loro complessità appaiono inspiegabili all'uomo comune e quindi in tutto e per tutto simili alla magia.

 
 
 

Tamara Drewe

Post n°60 pubblicato il 18 Gennaio 2011 da marina1811

Tamara Drewe torna alla casa di campagna dove ha trascorso l'infanzia, in seguito alla morte della madre. Ha un nuovo naso, una rubrica su un quotidiano di Londra e un paio di gambe che non passano inosservate. Alle loro pendici cadono presto l'ex fidanzatino Andy, ora tuttofare presso un ameno ritiro per scrittori in cerca di calma e ispirazione, il famoso romanziere Nicholas Hardiment, che gestisce il suddetto posto con l'aiuto della moglie Beth, e la rockstar Ben Sergeant, che per Tam si trattiene in quel luogo ben oltre il tempo previsto per il concerto. A muovere le file tragicomiche del teatrino che da queste premesse si dipana, sono due ragazzine del luogo, Casey e Jody, rese folli dalla noia e dal fanatismo nei confronti del batterista.
A conti fatti, sono almeno una decina d'anni che Stephen Frears non sbaglia un film, pur spaziando tra ispirazioni molto diverse - le playlist dei vinilomani piuttosto che i business erotici di una vecchia dama o i cervi del parco della regina - e senza necessariamente sfiorare il capolavoro, che non pare affar suo. Due i punti fissi: lo schermo è innanzitutto il palcoscenico degli attori e la letteratura è un ottimo soggetto da rileggere attraverso l'obiettivo della macchina da presa. Ecco dunque Kureishi, Hornby, Doyle, Colette e ora l graphic novel di Posy Simmonds (edita in Italia da Nottetempo), uscita a puntate sul Guardian e liberamente e irriverentemente ispirata a “Via dalla pazza folla” di Thomas Hardy (a sua volta e a suo tempo pubblicazione seriale).
Il materiale non manca: un'eroina al centro di un conflitto di passioni attorno alla quale si colora il ritratto satirico della classe media inglese con velleità artistiche, tra invidia e imitazione, pavonerie e contraddizioni di comodo (la verità è il sale della buona letteratura o il bravo scrittore è un bugiardo nato?)
Usando le tavole originali come un vero e proprio storyboard e i personaggi di carta come modello per la scelta degli attori, Frears e Moira Buffini (alla sceneggiatura) si cimentano con risultati brillanti nell'operazione di aggiungere realismo senza perdere di humor. La quotidianità dell'assurdo e le piccole malignità che assicurano l'umana sopravvivenza, insieme allo smantellamento del mito della genuinità e della pietà rurale, sono i registri azzeccati su cui si muove questa commedia mezza rosa e mezza nera, che ha nel cuore un ricordo inconfessato (e irraggiungibile) di Shakespeare a colazione, nel motore una marcia in più di tutta l'ultima produzione di Woody Allen e un debito innegabile verso un cast in formissima.

 
 
 

Don't say a word

Post n°59 pubblicato il 15 Ottobre 2010 da marina1811

Nel 1991 un gruppo di rapinatori si introduce in una banca di Brooklyn per trafugare un prezioso diamante rosso del valore di dieci milioni di dollari. Il colpo va a buon fine, ma un membro della banda riesce a ingannare gli altri compagni e a sottrarre il diamante. Dieci anni dopo, lo stimato psichiatra Nathan Conrad viene coinvolto da un collega in un caso che riguarda una ragazza con disturbi mentali improvvisamente colta da raptus di violenza, Elisabeth Burrows. Il mattino seguente è il giorno del Ringraziamento: Conrad si sveglia, prepara la colazione e si rende conto che qualcuno è entrato nell'appartamento e ha rapito sua figlia di otto anni. I rapitori risultano essere gli stessi del colpo alla banca di dieci anni prima e vogliono che Conrad tiri fuori dalla mente di Elisabeth un numero a sei cifre, altrimenti uccideranno la bambina.
“Seeing her father die, that was ground zero”, argomenta lo psichiatra Michael Douglas per giustificare il comportamento della sua giovane paziente disturbata. Il fatto che, assieme a Zoolander e Serendipity, Don't say a Word sia stato uno dei primi film ambientati a New York distribuiti in seguito all'11 settembre 2001, rende la frase più problematica. Soprattutto alla luce del fatto che il film è l'unico dei tre a non presentarsi come una commedia spensierata e a non aver subito rimozioni digitali o riadattamenti a tutela di dolorose memorie. La soluzione del problema sta tutta nella disinvoltura del film e nel suo andamento zigzagante che non concede neppure un attimo di credibilità, ma tutto sacrifica alla logica dell'intrattenimento e dello spettacolo ludico.
Don't say a Word ha un incipit da action movie, poi diverge verso il thriller psicologico e il dramma familiare, e infine cerca di scorrere con una certa agilità lungo l'insieme di questi binari. Il principio con cui Gary Fleder (Il collezionista, Cosa fare a Denver quando sei morto) orchestra una sceneggiatura piuttosto complessa e piena di incoerenze, inverosimiglianze ed elementi irrisolti, è quello dell'eclettismo e dell'accumulazione dei generi.
Ogni anima del film trova un proprio stile e l'abilità da riconoscere al regista è quella di riuscire ad amalgamare le dimensioni parallele del racconto utilizzando un montaggio serrato e tensivo. Il suo approccio alla materia illogica e deficitaria della sceneggiatura è quello di chi prova ad allargare i confini della sospensione dell'incredulità giocando di ritmo e appellandosi all'importanza dell'evasione. D'altronde, non avrebbe potuto scegliere momento migliore.

 
 
 

Una sconfinata giovinezza

Post n°58 pubblicato il 15 Ottobre 2010 da marina1811

 

Lino Settembre e Chicca sono sposati da tanti anni. Un matrimonio felice e affiatato, nonostante le differenze: lui giornalista sportivo per il Messaggero, lei docente universitaria di filologia romanza, proveniente da una famiglia di primari e pianisti, dove tutti figliano come conigli. Lino e Chicca non hanno figli, non sono arrivati, ma quando Lino comincia ad accusare i primi segni di una demenza senile precoce e degenerativa, Chicca si trova a fargli da mamma, ad occuparsene come fosse un bambino.
Dopo Gli amici del bar Margherita, riuscita tessitura di una serie di ricordi dell'adolescenza del regista, Una sconfinata giovinezza appare subito tenuta insieme da un'idea narrativa molto più salda e forte, una storia nel senso più pieno del termine, come poche se ne trovano nel cinema italiano. Pupi Avati non è certo il primo ad aver toccato il tema umanissimo della trasformazione dell'amore coniugale in amore filiale, la letteratura lo esplora da sempre e il cinema lo ha fatto a suo modo recentemente col Benjamin Button di Fincher, ma Avati lo fa ora nel cinema italiano, col suo linguaggio particolare, quasi un idioletto, distinto dalla lingua madre delle produzioni romanocentriche.
Peccato che le scelte di regia non sostengano la dolorosa poesia della trama: peccato per le musiche enfatiche, da drammone, e per il seppia delle sequenze di Lino bambino, che costituiscono in assoluto la parte più magica del film. Può darsi che nella memoria del regista, quei ricordi - perché son tutti veri: dal cane Perché all'incidente d'auto mortale, dalla straordinaria vicenda del brillante ai non meno straordinari fratelli Nerio e Leo - siano registrati con quei colori, ma è più facile che l'artificio filmico canonizzato si sia imposto prima sulla mente che dirige e poi sulla mano che traduce. E peccato, infine, per quei piccoli tentativi di giocare con gli obiettivi per rendere lo spaesamento dettato dalla malattia, insicuri e fuori tono.
Eppure, nonostante tutto questo, che poco non è, il film ha una potenza emotiva irresistibile e tocca corde profonde, che hanno a che fare con la sorte dell'uomo e il bizzarro e struggente mistero dell'infanzia che non finisce mai e, anzi, torna prepotentemente al tramonto (o in autunno, come il cognome del personaggio pare suggerire), non si sa se più per beffa o per consolazione.
Bentivoglio è quello che un protagonista dovrebbe essere: l'unico interprete possibile per quel ruolo, ma gradito è anche il ritorno di Capolicchio e di Cavina, con i loro ruoli ambigui e le loro ombre, che illuminano, per contrasto, l'innocenza del personaggio principale, la sua perdita di ogni retropensiero e l'adesione terminale e totale a una bugia da bambini.
Per Avati ancora e sempre la vita è come un film: giunta alla fine si riguarda dall'inizio.

 
 
 

Fratelli in erba

Post n°57 pubblicato il 28 Settembre 2010 da marina1811

 

I fratelli Kincaid sono due, Bill e Brady (entrambi interpretati da Edward Norton), gemelli assolutamente indistinguibili ma solo per quel che riguarda l'aspetto fisico. Infatti mentre uno è scappato dalla cittadina di provincia in cui sono nati, ha duramente rimosso il forte accento ed è diventato professore universitario di filosofia antica, l'altro ha conservato sia il luogo di residenza che l'accento (di cui non c'è ovviamente traccia nell'edizione italiana che appiattisce qualsiasi differenza linguistica al pari del lavoro fatto da Norton per rimarcarle) e ora ha messo in piedi una florida coltivazione di marijuana e il relativo commercio illegale. Le loro vite tornano ad incrociarsi quando il secondo richiama il primo nel paese natale inscenando la propria morte. Il vero obiettivo è convincerlo a sostituirsi a lui per un giorno, in modo da avere un alibi perfetto per il crimine che ha in mente di commettere.
Che Fratelli in erba non sia una commedia disimpegnata come altre (come la promozione e la titolazione sembrano invece suggerire) lo si può capire subito, fin dal suo curioso inizio che, in nuce, racconta tutta l'essenza della storia che verrà. Bill Kincaid, sta tenendo una lezione su Socrate, la sua etica e la pessima fine che fa chi si illude di aver raggiunto un vero equilibrio nella vita, dopodichè si trova a sostenere con un'allieva, che da lui desidera ben altro che lezioni, una discussione sul rapporto che esiste tra commedia e tragedia.
Questi due elementi sono le basi su cui Tim Blake Nelson (grande caratterista del cinema americano e qui impegnato in un ruolo solo apparentemente marginale) costruisce il suo sesto film da regista e sulle quali bene o male ha incentrato anche le precedenti produzioni (O come Otello, La zona grigia...): un'attenta mistura di commedia e tragedia e un'inesorabile condanna per le ambizioni di gran parte dei suoi personaggi. Ma non solo, esiste in Fratelli in erba anche una spiccata volontà di dipingere l'insensata casualità della vita che si accanisce proprio contro chi, adoperandosi per il proprio futuro, cerca di dominare il fato. Ciò avviene attraverso incontri casuali che si rivelano determinanti, figure a prima vista innocue, ameni uomini di potere come quello interpretato da Richard Dreyfuss e improvvise impennate di violenza che ricordano il cinema dei fratelli Coen. Si respira infatti, da un certo punto in poi del film, un senso di morte imminente e un'imprevedibilità molto simili a quelli imperanti nei film dei due registi americani, per i quali Blake ha interpretato un piccolo ruolo e ha cantato una canzone della colonna sonora in Fratello dove sei?.
Senza voler sottoporre Fratelli in erba ad ingiusti confronti, non si può non notare come nonostante le piccole ambizioni del film il risultato sia più che meritevole. Sul canovaccio classico della commedia degli equivoci (qui favorito dal fatto che i due protagonisti sono gemelli monozigoti), Blake riesce nella non facile impresa di realizzare un film unico, bagnato da un profluvio improvviso di sangue e dotato di una funzione fortemente morale. Il suo segreto, probabilmente, sta nella straordinaria capacità di giocare con le aspettative degli spettatori. Rimarrà infatti stupito chi, avendo visto la prima parte del film, penserà di poterne prevedere la seconda.

 
 
 

La solitudine dei numeri primi

Post n°56 pubblicato il 19 Settembre 2010 da marina1811

Alice e Mattia. Coetanei a Torino. Bambini le cui coscienze sono attraversate da un trauma profondo che non li abbandonerà mai. Alice e Mattia. Si conoscono. Potrebbero amarsi. Si separano (lui accetta un incarico in Germania e lei si sposa). Potrebbero ritrovarsi se consentissero a se stessi ciò che si sono sempre in qualche modo vietati.
Saverio Costanzo alla sua terza prova si assume il non facile compito di rileggere un best seller quale è il romanzo omonimo di Paolo Giordano (con il quale scrive la sceneggiatura). Lo fa con grande coraggio a partire dal nuovo mutamento di stile. Nessuno dei tre film del regista è simile all'altro nello sguardo e nelle modalità di ripresa perché Costanzo adatta il proprio fare cinema (che resta coerente in quanto a scelta di tematiche di base) alla storia che racconta. Questo può spiazzare chi preferisce che un regista rimanga sempre fedele ad elementi linguistici che lo rendano facilmente identificabile e collocabile.
Costanzo destruttura la linearità narrativa del romanzo avvertendoci sin dall'inizio (grazie anche alla musica di Mike Patton e a una grafica di forte impatto) che ci troviamo dinanzi ad un horror. Perché l'orrore della sofferenza attraversa corpi ed anime dei due protagonisti. Alice, la cui lesione fisica verrà spiegata solo molto più avanti ma che da subito determina il suo rapporto con il mondo e Mattia, che ha un vulnus che lo tormenta nel profondo spingendolo all'autolesionismo. Due corpi che potrebbero fondersi ma che restano murati in una solitudine che si presenta come ineluttabile perché il senso di colpa e il sentirsi fuori posto (in una società sempre più spietata sin dalle età più giovani) finiscono con lo spingere a costruire muri in cui si possono aprire solo piccole brecce che sembrano sempre pronte a richiudersi.
I flashback inseguono i flashforward perché il dolore non conosce percorsi canonici e gli eventi che hanno segnato una vita non chiedono il permesso per riemergere. Costanzo ricostruisce la sofferenza del vivere di Alice e Mattia quasi fosse il puzzle che quest'ultimo portò alla festa di compleanno di un compagno di classe che costituì l'atroce punto di non ritorno della sua vita. I pezzi di un puzzle si combinano per associazioni che ogni appassionato al gioco individua in modo diverso e finiscono con il determinare solo alla fine una struttura che origina dal caos di una miriade di pezzi. Così come le vite dei due protagonisti. Così come le vite di molti. Numeri primi divisibili solo per uno e per sé stessi in disperata e talvolta contraddittoria ricerca di una possibilità diversa.

 
 
 

Il padre dei miei figli

Post n°55 pubblicato il 15 Settembre 2010 da marina1811

Grégoire Canvel ha tutto. Una donna che lo ama, tre figlie deliziose, un mestiere che lo appassiona. Fa il produttore cinematografico e al suo lavoro dedica tutto il tempo e le energie. La famiglia ne risente ma lo comprende. Ha carisma, Grégoire. Ha prodotto tanti film, preso molti rischi e accumulato debiti. La sua Moon Film è sull'orlo del fallimento. Lui resiste ad ogni costo ma lo scacco è evidente, il danno irreparabile. Spalle al muro, sceglie di uscire di scena con un gesto estremo e nessuna spiegazione. Agli altri, ancora una volta, il compito di capire.
Al secondo lungometraggio, dopo Tout est pardonné, Mia Hansen-Løve, classe 1981, un passato da attrice per Assayas e un'esperienza di scrittura ai Cahiers, racconta una figura umana, quella di Humbert Balsan, produttore illuminato, suicida nel 2005. La sua conoscenza di Balsan non è tale da obbligarla alla fedeltà, per cui la regista inventa, immagina, a partire da alcune impressioni (la moglie nel suo studio, il giorno dopo la tragedia) e da una contraddizione di forte impatto tra la vitalità del soggetto in questione e il suo atto mortifero.
Ne esce un film sul mondo del cinema indipendente, estremamente preciso nell'affresco, che esclude ogni vaghezza. In particolar modo, un film su ciò che precede l'inizio delle riprese: l'innamoramento per il copione, la decisione di farlo, i tentativi di farlo crescere nelle migliori condizioni possibili, secondo il desiderio del regista. Quasi il regista fosse una madre e il produttore un padre, che deve trovare i soldi, garantire l'esistenza del figlio; non si prenderà il merito dell'esito artistico ma avrà accresciuto la sua famiglia. Il titolo, d'altronde, parla senza mezzi termini: Il padre dei miei figli sta per l'uomo che ha reso possibile i film della regista (fu il primo a credere nel suo lungometraggio d'esordio) e non solo i suoi.
Dal punto di vista formale il film tenta movimenti interessanti, dedicando all'iper presenza del protagonista la prima ora di film e alla sua assenza l'ora che resta e passando il testimone con grande fluidità dall'uomo alla moglie e poi alla figlia maggiore, nell'intenzione di consegnare un'idea di crescita e di continuazione, anziché di arresto. Purtroppo non basta. Il padre dei miei figli manca di forza, si assesta su una costruzione tutto sommato standard, con una regia senza invenzioni e una sceneggiatura troppo pudica, leggerissima, al limite dell'inconsistenza.
Louis-Do de Lencquesaing, eccellente nei panni di Grégoire, aristocratico nel gesto, debole e complesso nello spirito, fa sentire la sua mancanza quando non c'è. In questo, bisogna ammetterlo, il film centra il bersaglio.

 
 
 

Nettare in un setaccio

Post n°54 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811

Nèttare in un setaccio è ormai un classico. Per molti aspetti è il romanzo che ha aperto la strada alla narrativa indiana contemporanea e che ha fatto sentire l'India come un mondo in movimento, segnato da profonde vitali contraddizioni. La storia di Rukumani, una contadina nata da famiglia nobile che va in sposa a Nathan, "povero di tutto fuorche di amore", è un'avventura morale e sentimentale, politica e poetica, che si snoda dentro l'identità di un popolo. La semplice vita di Rukumani e Nathan procede serena finchè nel loro villaggio una conceria mette in moto l'inevitabile processo di trasformazione del paese e della gente. Al terremoto sociale dello sviluppo economico si aggiungono terribili calamità naturali che portano fame e degrado, e Rukumani, presa ormai la via della grande città, affronta una nuova odissea, in un mondo frenetico e incomprensibile. Indimenticabile figura di donna, Rukumani, sperduta, sola, combatte dignitosamente con saggezza, civiltà, fiducia. Un ritratto fortemente lirico ed evocativo che ha appassionato i lettori di tutto il mondo.

 
 
 

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