Post n°199 pubblicato il 19 Aprile 2012 da valeriosampieri
Questo livido pupazzo che dice di essere un professore, un economista, colui che ci salverà dal male, che ridurrà la catena dei suicidi che il suo avvento ha generato, che ci insegnerà come si vive, quale mentalità dobbiamo avere e tutto il resto delle idiozie che spara al ritmo, di una parola ogni tre minuti, non merita che io sprechi più il mio tempo ed i miei preziosi polpastrelli per insultarlo. Presto cadrà nel dimenticatoio che spetta a simili lugubri figuri, come il pupazzo parassita residuato comunista che lo ha issato lassù. Certo, quando schiatteranno ci saranno sempre i soliti lecchini che, eruttando laghi alcalini della loro putrescente saliva, si sperticheranno in elogi alle grandi figure che costoro hanno rapresentato e blablabla. L'hanno fatto anche per il lumacone bavoso felicemente schiattato di recente all'età di 92 anni, ma non è che in virtù degli elogi ricevuti quella laida figura sia mutata in qualche modo: da morto non fa meno schifo di quanto ne facesse da vivo. Basta così, perciò. Dimentichiamoci di questi loschi figuri e rimbocchiamoci le maniche; e, soprattutto, ricordiamo sempre di conservare intatta la nostra dignità.
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Post n°198 pubblicato il 18 Aprile 2012 da valeriosampieri
Chi non riconosce alla vita umana un minimo di valore è un pezzo di merda e una canaglia. Chi pensa che il denaro sia più importante di una vita è un pezzo di merda e una canaglia.
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Post n°197 pubblicato il 15 Aprile 2012 da valeriosampieri
Proseguo la mia libera traduzione, ogni tanto arricchita da sfoggi della mia universale cultura, modestia a parte (ci ho pensato e ripensato, ma motivi per essere modesto, in tutta franchezza, non ne ho ancora trovati) del libro String of Beads, di Sato Hiroaki, menzionato nel precedente post su Shikishi. Shikishi Naishinno nacque tra il 1150 ed il 1155, terza figlia di Goshirakava Tenno, che divenne il 77° Imperatore del Giappone nel 10° mese del 1155. Naishinno significa, infatti, Principessa Imperiale. L'epoca in cui visse Shikishi, morta il giorno 25 del primo mese del 1201 (il calendario giapponese non coincide con il nostro), fu abbastanza tumultuosa e funestata da parecchi eventi, alcuni dei quali contribuirono alla perdita di gran parte del potere fino ad allora detenuto dall'aristocrazia della Corte Imperiale. Nel Gukansho, Jien afferma ciò pose il Giappone "sotto il dominio dei guerrieri". Nel 1156 si verificò una lotta intestina tra le truppe raccolte da Sutoku In e Goshirakawa Tenno (e qui ci aggiungo un piccolo sfoggio della mia cultura enciclopedica: In è il titolo spettante all'Imperatore che aveva abdicato, Tenno a quello in carica. Anche dopo aver abdicato, l' In conservava molto potere, addirittura superiore a quello del Tenno che, salito al trono molto giovane, veniva praticamente messo sotto tutela di un "Sessho" e, successivamente, veniva affiancato da un consigliere, chiamato "Kampaku"), da un lato, e la famiglia dei samurai Taira, che guadagnarono molto potere (in inglese, tale guerra viene ricordata col nome di Hogen Disturbance). Tre anni dopo, a seguito di una nuova guerra (Heiji Disturbance), tale potere si rafforzò ulteriormente. Da allora in poi i Taira o Heike divennero padroni dell'intero Giappone, al punto tale che Kujio Tamekane (1149-1207) scrisse nel suo Gyokuyo: "Sembra che nessuno sia importante in questo mondo" all'infuori dei Taira. Si dice che Taira Tokitada (1130-1189) affermasse, molto più brutalmente, che "chiunque non appartenga al nostro clan, deve essere un non umano". Nel 1180, però Yoritomo (1147-1199), capo del clan di samurai Minamoto, si ribellò ai Taira, su comando del fratello di Shikishi, Mochihito (1151-1180). Naturalmente, scoppiò un'altra guerra, narrata nell' Heike Monogatari, il cui incipit è il seguente: The voices of bell's of Jeta Garden Nel giro di cinque anni i Taira vennero sconfitti. Seguendo l'esempio di Kiyomori, ma a differenza di lui, Yorimoto rese totale l'egemonia militare, fondando fuori Kyoto, in Kamakura il suo governo (il Bafuku, meglio noto come Shogunato). Ma le calamità non si limitarono soltanto all'ambito politico: di esse parla Kamo no Chomei nel suo Hojoki, spiegando il perché della sua scelta di diventare un eremita. Nel uarto mese del 1177 scoppiò un devastante incendio che arse gran parte della capitale, incluso il palazzo imperiale. Esattamente tre anni dopo, un terrificante tifone spazzò via un gran numero di case. Poco dopo Kiyonori decise di spostare la capitale a Fukuhara, un villaggio sul mare, vicino all'odierna Kobe, per riportarla a Kyoto prima della fine dell'anno. Chomei narra che l'arbitrarietà di tale comportamento fu considerato come un sintomo dello scivolare del mondo verso il caos e la rivolta di Yorimoto, avvenuta nell'ottavo mese del 1180, fu il segno dell'inizio del caos vero e proprio. Nel 1181 il Giappone fu colpito dalla carestia e, finiti i rifornimenti e gli approvvigionamenti, anche Kyoto venne duramente colpita l'anno successivo: come ciliegina sulla torta, sopravvenne una epidemia di peste. Nel 1185, nel settimo mese, un fortissimo terremoto rase al suolo Kyoto e quasi nulla della città rimase intatto. Interrompo qui la traduzione, perché non vorrei si pensasse che Shikishi portasse iella. Ma dato che le storie narrate sino ad ora sono solo una piccola parte delle sciagure della sua epoca, non escludo che la Principessa Imperiale un po' menagramo potesse esserlo per davvero. |
Post n°196 pubblicato il 14 Aprile 2012 da valerio.sampieri
Elvis Presley- Suspicious Minds Il link all'inizio del post è diverso da quello del video. Questo brano è stato ripreso negli anni 80 dai Fine Young Cannibals che ne hanno offerto una ottima versione, ovviamente inferiore a quella di Elvis, secondo me. We´re caught in a trap, I can´t walk out, |
L'Italia è proprio diventato il paese delle iniquità. Insomma, è mai possibile che per il solo fatto che un brav'uomo dica ad un poverino "ti copro io" (link) si debba ritrovare indagato per abuso d'ufficio? No, dico, ma San Martino non lo hanno fatto santo per aver offerto metà del suo mantello per "coprire" un poveretto? 2 pesi e 2 misure, la solita giustizia all'italiana..... ma non vorrei che il brav'uomo in questione sia stato sfavorito da certe sue molto intime amicizie (link). Restando in tema di amicizie: sono andato qualche giorno in vacanza e toh, chi ti incontro? Valerio! C'era tanta gente e non si è accorto di me ma ho fatto giusto in tempo a fotografarlo. A proposito, ma chi era che parlava di "Roma ladrona" ? |
Post n°194 pubblicato il 12 Aprile 2012 da valeriosampieri
Tag: Chokusenshu, Fujiwara no Shunzei, Fujiwara no Teika, Go Kuden, Goshirakawa In, Gotoba In, Kunaikyo, Letteratura, Letteratura giapponese, Libri, Minamoto no Toshiyori, Ogura Hyakunin Isshu, Poesia, Poetesse, Princess Shikishi, Principessa Shikishi, Senzaishu, Shikishi Naishinno, Shinkokinshu, Shokushi Naishinno, Shunzeikyo, String of Beads, William N. Porter
Traduco liberamente dall'inglese dal libro "String of Beads: Complete Poems of Princess Shikishi", di Sato Hiroaki, University of Hawaii Press, 1993 - 177 pagine, reperibile su google libri in anteprima limitata. Skikishi o Shokushi Naishinno 式子内親王, morta nel 1201, fu ammirata dai suoi contemporanei come una poetessa eccezionale. Fujiwara no Shunzei (o Toshinari 1114-1204), considerato, quando era al suo apice, un poeta rispettabile ed influente, selezionò nove sue poesie che inserì nella settima Antologia imperiale, Senzai Wakashu o Senzaishu, di cui era l'unico editore. Nove poesie sulle 1288 della collezione non costituiscono un numero eccezionale, ma evidenziano una forte considerazione per Shikishi. Molti importanti poeti delle precedenti generazioni -ad eccezione di Minamoto no Toshiyori (o Shunrai 1055-1129), poeta prediletto di Shunzei, che vide 52 sue poesie inserite nell'antologia, e di Shunzei stesso che fu costretto da Goshirakawa In (1127-1192) a portare a 36 le sue poesie (inizialmente Shunzei ne inserì soltanto 11)- avevano un numero di poesie, compreso tra le 18 e le 26, non di molto superiore a quello di Shikishi. Fujiwara no Teika (o Sadaie 1162-1241) figlio di Shunzei, nel novembre del 1201 fu incaricato da Gotoba In (1180-1239), insieme ad altri cinque famosi personaggi, di redigere l'ottava antologia, Shinkokin Wakashu o Sinkokinshu, ed ebbe modo di meglio apprezzare l'opera di Shikishi, morta da soli 10 mesi e la cui opera era stata pubblicata non molto tempo prima. I compilatori selezionarono ben 49 poesie di Shikishi, su un totale di 1979, e soltanto quattro poeti ebbero un riconoscimento numerico superiore al suo. Non inferiore fu l'apprezzamento dei compilatori delle successive 13 antologie, i quali inserirono sempre qualche poesia di Shikishi. In totale furono 155 le poesie di Shikishi distribuite in 15 antologie, numero ben lontano dai picchi di altri poeti (Shunzei ne ebbe 418 complessivamente, ad esempio), ma comunque considerevole. Tra le sue contemporanee, soltanto Shunzekyo no Musume (1171-1252, conosciuta anche come la Figlia di Shunzei o Lord Shunzei's Daughter: ella ne era in realtà la nipote, ma fu adottata da Shunzei come figlia) si avvicinò numericamente a Shikshi, con 116 poesie incluse nelle antologie imperiali (per la prima volta Shunzekyo apparve con 39 poesie nell'ottava antologia, Shinkokin Wakashu o Shinkokinshu). Il dato numerico non sempre corrisponde all'effettivo valore del poeta, ma è comunque indicativo dell'apprezzamento ed in effetti Gotoba In -di fatto l'editore principale dello Shinkokinshu- fu il primo a formulare commenti positivi su Shikishi. Nel suo trattato sulla poesia, Go Kuden, Gotoba definì Shikishi, insieme con Fujiwara no Yoshitsune (1169-1206) e Jien (1155-1225), come "eccezionale" tra i poeti della recente generazione, lodando la sua poesia come "momimomi", termine di difficile traduzione, data la penuria di esempi del suo uso nei testi classici, che Sato Hiroaki rende con "sinuoso" (ritengo nel senso di avvolgente, coinvolgente, penetrante nell'animo). Shotetsu (1381-1459) la citò, insieme con Shunzeikyo e Kunaikyo (1185-1204) come eccellente nelle poesie che hanno per tema l'amore. L'ammirazione per Shikishi è proseguita anche fino ai tempi recenti. Tra i commentatori degli ultimi due secoli, Yosano Akiko (1878-1942) definì Shikishi, in uno dei suoi tanka, "la mia sorella minore dell'antichità" (il che suona come uno strano contrasto tra la natura quasi ascetica di Shikishi e la sensualità dalla quale era fortemente attratta Akiko, grande ammiratrice di Izumi Shikibu, nota per i suoi eccessi in tale campo) e Hagiwara Sakutaro (1886-1942) la caratterizzò come "poetessa di tanka che cantano l'amore tragico". In tempi più recenti è anche apparsa una completa biografia intitolata Shikishi Naishinno Den. Ad onta di tutto ciò, poco si conosce della vita di Shikishi, della quale si ignora persino l'esatta data di nascita. E' noto che fu designata per la sua posizione religiosa ancora giovanissima (attorno ai 10 anni) ed anche se è probabile che lasciò tale carica prima di compiere 20 anni, ella mantenne una vita estremamente riservata al punto tale da generare nei contemporanei un senso di grande pena per lei. Potrebbe essere questo il motivo della penuria di informazioni sulla vita di Shikishi. Concludo questo post con la poesia n. 89 dell' Ogura Hyakunin Isshu, nella traduzione inglese di William N. Porter (da "A Hundred Verses from Old Japan", 1909): The ailments of advancing years Per quanto io voglia nascondere i patimenti del passare degli anni, un giorno il filo si spezzerà e le perle si spargeranno in lungo e in largo. L'età non può essere sfidata. |
Post n°193 pubblicato il 09 Aprile 2012 da valerio.sampieri
Come ho detto nel precedente post, sono 129 i nomi degli autori conosciuti delle oltre 1000 poesie del Kokinshu. Brevi note biografiche dei poeti sono reperibili nei due libri già citati e reperibili su Googli libri. Nel Kokinshu le biografie sono un po' più dettagliate, rispetto alle brevissime note (spesso inesistenti) dell'altro libro, Kokin Wakashu. Tutte le poesie, in giapponese, sono riportate anche nel sito del database dei waka e l'elenco completo degli autori, sempre in giapponese, lo si può trovare nel già menzionato sito miko.org. Tale elenco è stato da me tradotto e riporto qui di seguito i nomi dei 30 poeti con almeno 4 opere nella collezione. Spesso i numeri non coincidono, tra l'una e l'altra fonte, in quanto la redazione definitiva del Kokinshu ha richiesto oltre 10 anni di lavoro e parecchie edizioni intermedie sono state pubblicate nel corso degli anni.
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Post n°192 pubblicato il 09 Aprile 2012 da valerio.sampieri
Il Kokin Wakashu 古今和歌集 o più semplicemente Kokinshu 古今集 è la prima delle 21 Antologie imperiali (Chokusen Nijuichidaishu), pubblicate tra il 905 e la fine del 14° secolo. La sua struttura fece da modello alle successive antologie, anch'esse (salvo due) suddivise in 20 libri tematici. Molta importanza ebbero nel Kokinshu le due Prefazioni e soprattutto quella giapponese, redatta da Ki no Tsurayuki. La struttura del Kokinshu, che qui riporto, è tratta dal sito Japanese Text Iniziative: Libro 01: jti 0001-0068 春歌上 Spring I (haru no uta) Le fonti reperibili su internet sono molte e riporto qui di seguito le principali: Giapponesi: Japanese Text Initiative: http://etext.lib.virginia.edu/japanese/kokinshu/kikokin.html (opera completa) miko.org http://miko.org/~uraki/kuon/furu/text/waka/kokin/kk_menu.htm (opera completa) asahi.net http://www.asahi-net.or.jp/~sg2h-ymst/yamatouta/hatidai/kokin_s.html (548 poesie) Inglesi: Waka 2001 © Thomas McAuley http://www.temcauley.staff.shef.ac.uk/waka0321.shtml Google libri: Kokinshu: a collection of poems ancient and modern (Laurel Rasplica Rodd, Mary Catherine Henkenius) Cheng & Tsui, 1996, pagine 442 Questo libro è la prima completa traduzione del Kokinshu, lavoro del X Secolo, una delle più importanti antologie della traditione classica giapponese. Kokin wakashu (Helen Craig McCullough) Standford University Press, 1985, pagine 388.
Il sito Japanese Text Initiative riporta una interessantissima introduzione di Lewis Cook, intitolata Che cosa è il Kokin Wakashu? che ho provato a tradurre dall'inglese e della quale riporto la parte iniziale. Kokin Wakashu è una antologia di 1.111 poesie giapponesi (nelle edizioni più diffuse) compilata ed edita all'inizio del X secolo. Il titolo, convenzionalmente contratto in giapponese in Kokinshu, può essere tradotto in "Collezione di poesie giapponesi antiche e nuove" ("Collection of Old and New Japanese Poems") o, forse con maggior precisione, Antiche e moderne poesie giapponesi" ("...Ancient and Modern Japanese Poems."). La Collezione inizia con una Prefazione in giapponese e, in alcune edizioni, si conclude con una in cinese. La Prefazione giapponese, che inizia con le famose parole "La poesia giapponese prende come seme il cuore umano" ("Japanese poetry takes as its seed the human heart,") è stata vista a lungo come un modello di prosa classica e, linea per linea, è senza dubbio il più commentato tra i testi in prosa della tradizione giapponese. Le poesie sono divise in venti scrolls o libri (maki) ciascuno, il cui titolo fa riferimento ad argomenti poetici convenzionali (stagioni, amore, separazione, lutto, miscellanea o argomenti "misti", ecc.) od a generi (acrostici, forme miste o miscellanea, e poesie del "Bureau of Song"). La maggioranza delle poesie della collezione (in effetti, tutte tranne 9) è nella forma oggi comunemente denominata tanka (letteralmente "poesia breve o canzone") ma tradizionalmente indicata come waka ("canzone o poesia giapponese") o semplicemente come uta ("canzone, poesia") perché questa la forma canonica predominante della poesia giapponese dall'8° secolo, forse, fino al tardo 19°secolo. Le poesie del Kokinshu possono, grosso modo, essere divise in tre periodi, che anche riflettono alcune notevoli differenze stilistiche: poesie anonime della prima metà del 9° secolo o anteriori; quelle dell'epoca dei "Rokkasen" (metà del 9° secolo); e poesie degli editori e dei loro contemporanei, dalla fine del 9° secolo all'inizio del 10°. Ben oltre la metà delle poesie è attribuita a circa 130 poeti conosciuti (o nominati), per la maggior parte del tardo 9° secolo. Delle circa 450 poesie anonime, si pensa che molte derivino dalla tradizione orale di canto popolare, anche se alcuni commentari Heian e medioevali affermano, in modo abbastanza plausibile, che gli editori hanno deliberatamente individuato come anonime alcune poesie composte da poeti del più alto rango sociale, altre da persone di rango molto basso, alcune di esse dai medesimi compilatori, e poesie che tendono ad incidere su vari tabù.
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Post n°191 pubblicato il 09 Aprile 2012 da valerio.sampieri
Con il termine Shugai Sanjurokkasen 集外三十六歌仙 si indica la raccolta dei 36 poeti, redatta da Gomizuno In 後水尾院 (1596-1680), le cui opere non sono comprese nelle 21 Collezioni imperiali (Chokusen Nijuichidaishu 勅撰二十一代集). Tutti gli autori, vissuti tra la fine del 1300 ed i primi del 1600, sono rappresentati da una loro poesia. Molte edizioni del libro sono illustrate e sul sito della Waseda University ho trovate almeno tre edizioni, due delle quali illustrate: Sul sito della Waseda University è possibile trovare molte altre opere di Gomizuno Tenno. Una bella serie di illustrazioni dei 36 personaggi è reperibile al sito dell' Himeji City Museum L'edizione giapponese di Wikipedia ed il sito Asahi offrono l'elenco dei 36 personaggi e di quasi tutti sono date le biografie in giapponese.
L'immagine sotto il titolo, tratta dal sito dell' Himeji City Museum, raffigura To Tsuneyori. La lista degli Shugai Sanjurokkasen è l'ultima di una lunga serie, iniziata ai primi del 1200: Sanjurokkasen 三十六歌仙 (36 Poeti imortali); Chuko Sanjurokkasen 中古三十六歌仙 (36 poeti immortali, inferiori a quelli della prima lista); Nyobo o Onna Sanjurokkasen 女房三十六歌仙 (36 Poetesse immortali); Shin Sanjurokkasen 新三十六歌仙 (36 poeti immortali del 13° e 14° Secolo).
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Post n°190 pubblicato il 01 Aprile 2012 da valeriosampieri
La mia non è né una minaccia, né una promessa: ho semplicemente citato il capitoletto che precede il primo della parte prima dell'ormai, da me, ultra menzionato "Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma" di Giggi Zanazzo. Personalmente non sono quello che può definirsi "un popolano" (odi profanum vulgus et arceo), ma ancor più detesto quelli con la puzza sotto il naso. Con l'andare degli anni ho imparato a comprendere come nelle tradizioni popolari si nasconda tutta la nostra autentica storia e come nella semplicità dei rapporti sia possibile trovare momenti di serenità interiore che, presi dagli affanni quotidiani, per lo più non riusciamo a cogliere. Alcune domeniche or sono fui costretto ad uscire dal mio "antro", nel quale vivo praticamente rinchiuso dal lunedì mattina al lunedì mattina della settimana successiva, onde ricominciare il diuturno ciclo di vita da orso, in conseguenza della visita a Roma dei miei ormai prossimi consuoceri. Pranzammo in una delle infinite bettole di Ariccia a menù fisso: primo, antipasti vari (una infinità), mezzo di vino e di acqua, il tutto a 18 euro. L'ambiente era così semplice ed allegro che, pur essendo il locale pieno, ad un certo punto la proprietaria venne a sedersi al nostro tavolo dove si intrattene per almeno una mezz'ora. Ogni tanto uscivo per accendermi la solita sigaretta e trovavo lì fuori i ragazzi del locale, con i quali si continuava a chiacchierare, come se ci conoscessimo da anni. Finimmo per pagare 16 euro a testa, incluso dolce, crostata, digestivo e caffè, non previsti nel menu. Quando ce ne andammo, a mia moglie e mia figlia venne spontaneo scambiarsi il bacetto sulle guance con la vecchia proprietaria. Non vi era alcunché di artefatto o di forzato: tutto spontaneo e naturale. Cosa intendo dire con questo pistolotto? Nulla di particolare, semplicemente l'episodio mi sembra bene inserito nello spirito che anima il volumetto di Zanazzo: leggere la sua avvertenza per credere. "La presente raccolta di rimedi simpatichi, come suole chiamarli il popolo, ed anche delle altre tradizioni che ho pubblicato o che sono in corso di pubblicazione in questa raccolta di «tradizioni popolari romane», sono il frutto di parecchi anni di assidue ricerche da me fatte vivendo in mezzo al popolo; e questi rimedi particolarmente io devo alle donne: poichè la scienza di curare qualsiasi malanno è generalmente riservata ad esse. Confesso il vero, mentre una trentina d’anni fa li raccoglievo, non immaginavo che un giorno mi sarebbero serviti a qualche cosa. Nel perdermi per lunghe ore tra quei chiassuoli, tra quelle viuzze anguste e fangose del Trastevere, non avevo allora altro desiderio che di far tesoro dei modi di dire o delle frasi più originali che avessero potuto interessarmi. In tali occasioni non di rado mi accadeva di udire ora il pregiudizio, ora il rimedio simpatico, ora la leggenda... ora una cosa, ora un’altra, di cui subito pigliavo nota; ma, ripeto, facevo ciò per semplice curiosità, e anche per quella vivissima passione che avevo ed ho per le cose che col popolo hanno attinenza. Tanto ero lontano in quel tempo dall’idea che siffatto materiale potesse interessare, all’infuori di me, altra persona: ed anche perchè ignoravo che già dotti ed illustri scienziati, quali il Pitrè, il d’Ancona, Salomone Marino, il Guastella, il De Nino, il Gianandrea, il Morandi, il Sabatini, il Menghini ed altri, attendevano con amorevoli cure a salvare dalle ingiurie del tempo questi documenti intimi della psicologia di un popolo. Molti di questi stessi rimedi furono consigliati a me stesso da alcune vecchie commari, alle quali, mi accusavo di aver cento malanni come il Cavallo di Gonnèlla; e ciò facevo per destare in loro maggiore interesse e darmi così agio a bene imprimermeli nella memoria. Fra queste ricorderò sempre con vivo compiacimento le due vecchie proprietarie di un’antichissima friggitoria, le quali, prima che si costruisse la nuova via Cavour, avevano la loro bottega alla Suburra. Parte di questi rimedi empirici li devo a loro; moltissimi altri alla mia povera mamma; e altri pochi di essi mi sono stati forniti dell’immortale poeta Belli, per mezzo de’ suoi meravigliosi Sonetti romaneschi. Se al lettore questi rimedi sembrassero strani o ridicoli, risponderò con un adagio tutto romanesco che dice: peggio nun è morto mai. Poichè per quanto strani e ridicoli essi siano, non raggiungeranno mai l’assurdità di alcuni rimedi di celebrità mediche dei secoli XVI, XVII, e perfino del XVIII secolo. Ad esempio nel secolo XVI Giovan Matteo Fabbri ne assicura che si giudicava il suono delle campane essere ricetta salutare contro il dolor di capo e si scrivevano opere di questa fatta: De dolore capitis sonitu campanarum sanato (!). Ed ancora nel 1759 il famoso Lemery, medico e chimico francese, insegnava che lo stercus humanus è digestivo, risolutivo emolliente, addolcente! E lo si prescriveva contro i mali di gola, contro l’epilessia, contro le febbri intermittenti, ecc. Disseccato, polverizzato e mischiato col miele, veniva applicato sui flemmoni, sugli antraci, sulle ulceri carbonchiose: ed era chiamato empiastro aureo! Ma ciò che sorpassa ogni immaginazione è che i vapori esalati dall’odorifera cottura erano raccolti con cura e servivano a fare un’acqua antioftalmica!... Basta: se questa mia breve raccolta troverà favore presso il pubblico (presso i dotti no di certo) lo dovrò forse allo studio che ho posto a purgarla dai pregi propri alle opere dello stesso genere, evitando note, chiose, confronti, citazioni e fin la parvenza della più lontana erudizione, poichè io non ho avuto la pretesa di offrire agli studiosi del Folk-lore un lavoro perfetto, ma soltanto un abbozzo di studio ed una traccia per chi voglia seguire lo svolgersi del popolo nostro. Roma, dicembre 1907."
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Post n°189 pubblicato il 31 Marzo 2012 da valeriosampieri
Uno degli autori più prolifici del 1600 fu Gregorio Leti, la cui fama non si limitò all'Italia, ma si propagò in tutta europa, avendo egli vissuto a lungo all'estero, dopo essere emigrato (divenne in seguito calvinista, ma questo poco ha ha che fare con il tema del post. Dato però che nessuno avrà la forza e lo stomaco di leggerlo, poco importa. Ciò spiega, peraltro, il carattere "da fustigatore" del Leti). |
Post n°188 pubblicato il 30 Marzo 2012 da valeriosampieri
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Post n°187 pubblicato il 29 Marzo 2012 da valerio.sampieri
Ho già parlato su queste pagine del volumetto di Giggi Zanazzo "Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma", il cui testo completo può essere reperito a questo link. Il volume si limita in prevalenza ad elencare credenze popolari, per lo più strampalate, ma alcuni capitoletti sono gustosi da leggere: nulla di particolare, beninteso, si tratta di semplici piccole curiosità adatte a momenti di estremo relax. Ad esempio, una volta, per tenere buoni i bambini ed evitarne i capricci, anche in via preventiva si evocava l'uomo nero. Anche Costantino Maes, nel suo "Curiosità Romane", elenca una filastrocca riferita ad una specie di "omo nero", da lui identificato, pur tra tanti dubbi, nel Capitano Maramaux (una specie di Maramaldo dell'epoca passata). Dai miei appunti non riesco a ricordare se la filastrocca citata da Maes sia quella relativa al Basilisco, che trascrivo qui di seguito, ma non posso escluderlo (quando trovo una pagina interessante, su internet od in un libro, salvo la pagina o la copio su un file di testo; purtroppo non sempre appunto il riferimento, confidando nella mia proverbiale memoria che ormai ... non è più nemmeno un ricordo!!! Fatto sta che, con oltre 10 giga di appunti salvati alla rinfusa, la mia memoria può ben fare cilecca. Per eventuali maligni -ogni riferimento a Vince è puramente voluto!-, preciso che è la memoria a poter fare cilecca: solo ad essa mi riferisco): Statte bbono regazzino Il capitoletto 134 della Parte II del volume di Zanazzo, intitolato "Er Basilisco, ossia e’ re dde li serpenti", descrive questa creatura, creata dalla fantasia popolare per spaventare i bambini e farli stare buoni. "È un animale che rinasce da un gallo che quann’ha ccampato cent’anni, se mette a ccovà’; e ddoppo un mese fa un ôvo. Ignoro quando sia sorta questa credenza, né mi interessa approfondirlo. Il Basilisco appare già nella mitologia greca ed in varie leggende ed è anche citato, tra gli altri, da Plinio il Vecchio che lo descrive come un serpente velenosissimo: ma lì si parla de "il Basilisco", io no, io qui parlo de "Er Basilisco" che è 'n'antra cosa, perché l'ho detto io! ... E, come è noto, io sò io e gli altri nun zò 'n ... |
Post n°186 pubblicato il 28 Marzo 2012 da valeriosampieri
Come riferii in un precedente post, che ovviamente nessuno ricorderà di aver mai letto, tanto meno io che infatti manco lo cito perché non mi ricordo dove possa essere, "dice" è un verbo che nella parlata romanesca viene spesso usato come intercalare. L'espressione "dice dice" è perciò frequentissima in frasi del tipo "dice la gente dice", nelle quali il primo intercalare potrebbe essere tranquillamente omesso in quanto privo di una effettiva funzione. In pratica è come se chi parla si ponesse in una funzione di narratore di fatti altrui. Cesare Pascarella fece grande uso di tale forma sintattica prettamente romanesca nelle sue composizioni poetiche. Mo' cosa c'entri "dice dice" col tema del post, che avrebbe voluto trattare de "La Pimpaccia", non lo so, ma ormai mi è uscita così e non ho tempo per piangere sul latte versato, soprattutto, perché il latte non lo verso mai, dato che non lo bevo più da anni. Il problema reale è però Angela, che nel suo blog ha fatto pochi mesi or sono un post su Olimpia Maidalchini, meglio nota come Donna Olimpia, della quale anche io ho parlato in precedenza riportando una nota pasquinata che la riguarda. Mo', dice, per colpa di Angela dice dico che non posso aggiungere niente. Se siete interessati, andatevene sul suo blog e, nella casella trova, scrivete "Pimpaccia" e vi appariranno due gradevolissimi post belli e pronti da leggere. Però, visto lo sgarbo ricevuto (in realtà non c'è alcuno sgarbo, ma ogni tanto fa scena fare il sostenuto), mi tocca trovare il pelo nell'uovo e provvedere a rettificare una piccola imprecisione contenuta nel post di Angela del 2010 ("Fantasmi a Roma"), là ove si dice, proprio all'inizio, che "la mia è una città ricca di misteri e leggende, fantasmi e spettri svolazzanti che di notte ingorgano le strade di Roma già tanto affollate". Mica è tanto vero. Le leggende romane che trattano di fantasmi sono relativamente poche. A parte Ghetanaccio ed il Fantasma del Campidoglio, dei quali ho trattato su queste pagine (bella questa frase, mi fa sentire importante: "queste pagine", porca paletta che paraculo che so'), e le storie narrate da Angela (che anni or sono ne raccontò una sua che ricalcava uno sceneggiato televisivo degli anni 70, con protagonisti Ugo Pagliai e Carla Gravina: mi pare che la serie si intitolasse Il segno del comando; di certo la sigla era Cento Campane di Nico e i Gabbiani, ma ne esiste anche una versione di Lando Fiorini), pochissime altre sono le storie consimili. Augh, vendetta è fatta! Come dicevo, però, dice, tutte le fregnacce scritte sopra non hanno senso. Il post voleva semplicemente costituire una prova per inserire in questo spazio un libro, scritto nel 1667 da tal Abbate Gualdi, ma normalmente attribuito a Gregorio Leti, abbastanza godibile, anche se di difficile lettura, da me reperito su Google libri, intitolato Vita di Donna Olimpia Maldachini. Chissà se va ... ovviamente no! Come per incanto, a seguito delle mie sapienti operazioni di inserimento di codici htm, si sarebbe dovuta aprire in questo stesso post una finestra contenete il testo del libro testé menzionato: manco p'a capa! Visto che parliamo di Roma e del romanesco, mi piace aggiungere una espressione tipica ben adatta a simili occasioni di estremo disagio: mortacci stracci!!!!
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Post n°185 pubblicato il 27 Marzo 2012 da valerio.sampieri
Con una denominazione cumulativa, gli Arguti, si indicano le statue parlanti romane. Non è che le statue parlassero, ovviamente, ma era il popolo che dava loro la voce, ponendo ai loro piedi -di solito nottetempo- frizzi e lazzi di vario genere. |
Post n°184 pubblicato il 15 Marzo 2012 da AvvocatoRattazzi
Avevo appena finito di scrivere il post di ieri, giusto il tempo di insultare un po' la piratina tra i commenti che.... aridaje! Sembra che da un po' di tempo a questa parte oltre confine abbiano il chiodo fisso, per non dire l'ossessione, di farsi i cacchi nostri. Già. Vogliono per forza che cambiamo abitudini, modo di pensare..... solo per fare un esempio sembra proprio che qualcuno non sopporti che agli italiani piaccia la famiglia (link). Ci vogliono imporre praticamente tutto.... evito di ripetermi, chi ne avesse la voglia può leggersi il post precedente. Dicevo, neanche il tempo di scrivere l'ultimo post ed ecco arrivare altri scienziati. Questa volta nel mirino è finita la Divina Commedia che, secondo un'organizzazione di ricercatori e professionisti () che svolge progetti di educazione allo sviluppo e ai diritti umani accreditata presso l’ONU, sarebbe profondamente offensiva, razzista, antieducativa (link). Da qui la proposta di eliminarla dai programmi scolastici perché antisemita, islamofoba, addirittura contro i sodomiti. Pazienza se l'opera sia stata tradotta in tutte le lingue ed apprezzata persino dal mondo arabo. Bien. Non starò qui a fare l'apologia della divina commedia perchè semplicemente non ce n'è bisogno, mi sentirei persino ridicolo. No, il punto è un altro: da tempo esiste un fantastico premio messo a disposizione di chiunque voglia andarselo a prendere. Non occorre fare nulla, basta presentarsi. Unico requisito richiesto: farsi i cazzi propri! L'ho fatto sapere a quelli dell'unione (a delinquere) europea, all'inizio sembravano interessati ma poi ha prevalso il desiderio di spiegarci che il nostro concetto di famiglia è "culturalmente arretrato" (link). Anche gli insigni "ricercatori e professionisti" dell'Onu dovevano andare ma, vuoi mettere diventare miliardari e pensare a cosa si studia nelle scuole italiane? Praticamente non c'è stata scelta. Nel frattempo ci sono due soldati italiani sotto sequestro ma, evidentemente, ci sono "questioni più importanti". |
Post n°183 pubblicato il 13 Marzo 2012 da AvvocatoRattazzi
..... non c'è tre senza quattro, cinque, sei, sette, mille mega-cazzate che ogni tanto ti tocca leggere.... e da chi se non dagli scienziati dell'unione (a delinquere) europea? E' vero, noi poveri italiani siamo culturalmente ritardati, chi non ci credesse può leggere il blog della piratina e se ne convincerebbe, ma questo è un altro discorso. Culturalmente ritardati, dicevo..... già solo un popolo retrogrado come il nostro chiama ancora i genitori mamma e papà invece di progenitore A e B. Mamma e papà non va più bene, sono termini omofobici, totalmente discriminatori (link). Ringraziamo e andiamo avanti. A dire il vero ultimamente mi sto chiedendo "ma ce dovemo proprio stà dentro a sta cacchio d''unione? n'avemo proprio bisogno?"...... senza andare troppo lontano, Monti ci ha appena massacrato di tasse per far contenta l'Unione Europea, i nostri allevatori devono buttare il latte per far contenta l'unione europea, i nostri agricoltori devono buttare le arance sempre per far contenta l'unione europea, le scuole devono togliere crocifissi e presepi e via discorrendo..... et quod cacchium! Ora, però, l'ultima perla: la "definizione restrittiva" di famiglia prevista dalla nostra costituzione (retrograda ovviamente) non va più bene (link). Bisogna adeguarsi, chissenefrega del Vaticano oscurantista e dei suoi seguaci integralisti...... è giunto il momento di cambiare il significato di famiglia o, per meglio dire, di "ampliarlo". Il passaggio successivo sarà una legge per impedire i rapporti eteresessuali, ormai superati, ..... quelli tra marito e moglie poi, sono fascisti, integralisti, immorali e blasfemi. Ci sarà 'obbligo l'obbligo di metterci a 90 gradi almeno una volta alla settimana. Qualcuno non vede l'ora ma io, per non saper nè leggere nè scrivere, mi sto procurando il porto d'armi, non si sa mai. Ops dimenticavo, piratina ecco il regalo per il tuo compleanno. Il tempo vola, sono già 68.... dai, li porti bene. |
Post n°182 pubblicato il 10 Marzo 2012 da valeriosampieri
Già due volte mi sono occupato degli Alunni del Sole, nel post n. 85 e nel post n. 78 di agosto 2011. Ecco spiegato il proverbio del titolo del presente post: se ne ho parlato due volte, mo' tocca fare tre. Qualcuno, più perspicace degli altri, potrebbe pensare che io voglia lasciare i miei studi sulla letteratura giapponese, per dedicarmi a quello dei proverbi cinesi, ma non è così come può sembrare. Qualcuno si chiedrà, pure, che senso abbia accocchiare i proverbi cinesi con questo post e, all' apparenza, tale dubbio potrebbe non essere del tutto peregrino. La verità è che ben poche persone sanno che i nostri proverbi popolari e quelli cinesi hanno molto in comune. Oserei dire che i frutti della nostra saggezza avita attengono più che altro a questioni di immediata percezione (Una rondine non fa primavera; Tanto va la gatta al lardo ecc ecc ecc), mentre quelli cinesi sono più complessi e coinvolgono, oltre che fatti di immediata percezione, sofisticate associazioni di idee con usi e costumi antichi di quel popolo, profondamente radicati, al punto da continuare ad essere parte integrante del loro modo di vivere anche attuale. Volete un esempio? Confrontate la straordinaria somiglianza tra la prima parte dei due proverbi ed assaporate le recondite implicazioni, anche culinarie, derivanti da antichi costumi, contenute nella seconda parte del proverbio cinese, confrontandole con la linearità e semplicità di quello della nostra tradizione. Proverbio italiano: Can che abbaia non morde. Chissà forse è meglio cambiare argomento, dato che i proverbi cinesi possono apparire un po' troppo ermetici. Accontentiamoci dei nostri proverbi, magari modificandoli leggermente per aggiungervi un tocco di ottimismo che solitamente difetta nella versione originale. Tanto per fare un esempio, il primo che mi viene in mente, soprattutto quando scendiamo dal letto "con il piede sbagliato", potremmo farlo diventare: Il buon giorno lo vedi dal mattino, perché se aspetti il pomeriggio o la sera sono cazzi amari. Forse è meglio passare alla musica, dai! Alunni del sole - Finisce qui (Dall'Album: Liù, 1978) Finisce qui il nostro amore
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Post n°181 pubblicato il 07 Marzo 2012 da valeriosampieri
Si diceva che fosse un cantautore emigrato in Scozia e probabilmente, anzi sicuramente, non era vero. Di fatto, pur essendo uno spudorato copione di canzoni altrui (Pietre, che ebbe un grande successo grazie ad Antoine, era copiata pari pari da un brano di Bob Dylan - Rainy Day Woman-, mentre Celeste era la copia fotostatica di Atlantis di Donovan, tanto per dirne una), insieme con Riky Gianco, Gian Pieretti realizzò un nutrito numero di gran belle canzoni, come per esempio Julie 367.008 del 1967, preceduta da quello che io ho sempre considerato un vero capolavoro: Il Vento dell'Est (del 1966, la cui linea armonica, oltre al titolo, sembra in parte ripresa da Catch the wind di Donovan); una volta tanto, gli epigoni hanno superato i maestri. Una in particolare, però, è sempre stata la mia canzone preferita di Gian Pieretti e, stranamente, stamattina mi sono svegliato con questa musica e queste parole nelle orecchie. Gian Pieretti - Tutto al suo posto Sono passati 45 anni da quando ascoltavo a ripetizione col mangiadischi questo brano (il lato B de Il Vento dell'Est), ma sembra che il tempo non sia trascorso: tutto resta al suo posto, qualunque cosa accada. Ci diamo tanta importanza, ma siamo una piccola ed insignificante cosa ed il mondo va tranquillamente avanti anche senza di noi.
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Post n°180 pubblicato il 01 Marzo 2012 da valeriosampieri
"Incredibile, ma vero", espressione latina ormai di uso comune che riassume quella usata da Quintiliano nella Institutio Oratoria (9.3.87): "Incredibile est quod dico, sed verum.". La frase mi è venuta in mente, vedendo il seguente titoletto. A dire il vero, sembrerebbero più adatte alla bisogna altre ottime espressioni latine, frutto della saggezza dei nostri avi (basta considerare l'avaro come un miserabile, e l'equivalenza è bell'e fatta): Avaro tam deest quod habet, quam quod non habet (San Girolamo, Epistula ad Paulinum): all'avaro manca tanto ciò che ha, quanto quello che non ha; Avaro acerba poena natura est sua (Publio Sirio): per l'avaro è la sua stessa natura la pena più crudele; Avaro non est vita, sed mors, longior (Publio Sirio): per l'avaro non è la vita, ma la morte ad essere più lunga; Avaro quid mali optes, nisi vivat diu? (Publio Sirio): quale male scegli per l'avaro, se non che viva più a lungo? Peccato che io non sia un saggio! A me, vedendo il titoletto, viene in mente una ben più prosaica espressione italiana che può riassumersi nel concetto: "E se non ti bastano 15 mesi, puoi pure schiattare subito!".
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