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*** NON CI SONO PIU' GLI ALUNNI DI UNA VOLTA ***

Post n°450 pubblicato il 13 Settembre 2012 da assia.k

Rieccomi, arrivo puntuale alla fine dell'estate, con il profumo dell'autunno e dei suoi magici colori; ma con ancora strascichi di un periodo spensierato vacanziero. Lo so è dura ricominciare ; ma è ancora piu' dura per tutti quei ragazzi, che devono riprendere la scuola. Ma devo prendere in considerazione, che non ci sono piu' gli scolari di una volta. Non è una frase scontata, è un pensiero oramai condiviso da molti insegnanti, e cio' crea tanta amarezza. Ricercando nel web qualche notizia  riguardo l'argomento, ho trovato un interessante documentazione:

Si pronuncia ripetutamente questa frase pensando alla differenza tra “il prima” (meno di dieci, venti anni fa) e l’oggi. Tutti gli anni, ad ogni “leva” di alunni, sembra ci sia una diminuzione di motivazione, di capacità cognitive, di disciplina e rispetto.

Aumentano invece iperattività, svogliatezza, pigrizia, prepotenze e problemi di ogni genere.

Che sta succedendo alle nuove generazioni?

Il tempo si è drasticamente ridotto; stress, fatica e difficoltà nei rapporti sono aumentati in modo vertiginoso.

Mai nella storia dell’umanità si è assistito a cambiamenti strutturali così veloci ed imponenti in un così breve lasso di tempo.

A fronte di tanto benessere si stanno però contraendo in modo preoccupante le relazioni umane.

Si ha sempre meno tempo per stare in casa, per parlare, giocare, riposarsi e perfino mangiare.

Si è sempre di corsa: la spesa, il parcheggio, il traffico, le file.

In questo nuovo scenario i bambini, i giovani e i giovanissimi, come al solito, ci rimettono di più.

Non si tratta di infanzia abbandonata in nome del progresso, né di bambini immolati sull’altare del mercato.

I figli oggi, addirittura prima di affacciarsi alla vita extrauterina, sono sommersi e saturati da merci, beni e relazioni di ogni genere.

Pannolini caldi e morbidi; giochini colorati, sonori e piacevoli al tatto; cibo sempre pronto e in abbondanza. Qualunque esigenza è evasa in pochi secondi; qualunque bisogno ha una risposta esauriente e immediata.

Basta che il bambino pianga e tutti corrono per sfamarlo, coccolarlo, parlargli, consolarlo, prenderlo in braccio, ridurgli ogni possibile tensione psicofisica.

Crescendo, aumenta il livello di saturazione di beni e merci di ogni genere.

E per soddisfare qualsiasi bisogno basta piangere, urlare o appena frignare: i bambini lo imparano presto.

Fino a credere di essere onnipotenti: hanno tutto, lo possono avere subito, a volte addirittura prima di desiderarlo.

Il loro impero è esclusivo ed unico, al massimo da condividere, a malincuore, con i fratelli.

Come tutti gli imperi, però, anche quello materiale ed affettivo dei bambini volge inesorabile verso la caduta.

La seconda parte dell’infanzia, coincidente generalmente con l’entrata a scuola, si caratterizza per una vorticosa caduta delle attenzioni e dell’esclusività.

La mamma ricomincia a lavorare, gli impegni extrafamiliari tornano ad essere pressanti, i ritmi di lavoro estenuanti.

Sbattuto qua e là, deportato a forza da una palestra ad una piscina, luoghi così diversi dall’intimità della propria casa e mollato sempre più spesso alla babysitter di turno, si sentirà sbrigativamente abbandonato, senza neanche saperne il motivo.

La ferita narcisistica che svilupperà se la porterà inevitabilmente a scuola, recuperandola attraverso una buona socializzazione con i pari o aumentando la rabbia, il dolore, l’inibizione e la paura se non riesce a trovare surrogati affettivi adeguati.

Troppo nei primi anni e troppo poco dopo, all’improvviso.

Da imperatori incontrastati, molti bambini si percepiscono ad un tratto ingombranti, di peso, quasi di troppo al confronto dell’incedere caotico e frenetico dei genitori, tutti presi dal misterioso mondo del lavoro e di chi sa cos’altro ancora.

e  le frustrazioni, come abbiamo visto, arrivano presto e toste.

Non si stava meglio prima, ma evidentemente erano diverse le dinamiche di crescita, di sviluppo e di conflitto.

E’ come se i bambini di una volta navigassero su piccole e insicure barchette fornite però di vari salvagente. Oggi navigano su panfili di lusso, dorati e sicuri, senza però alcuna scialuppa di salvataggio.

Non ci sono più gli alunni di una volta.

Arrivano a scuola con il loro panfilo dorato, ma possono arrivare anche con l’angoscia di poter affogare.

Ogni anno sembra che bambini e ragazzi abbiano meno voglia di studiare, di sacrificarsi, di ascoltare.

D’altra parte, anche i rapporti con le famiglie degli allievi sono cambiati: ad un maggior interesse dei genitori circa il rendimento (“ha imparato a leggere mio figlio?”, “è bravo?”) corrisponde una caduta a picco dell’interesse verso altre variabili più psicologiche riguardanti il benessere dei propri figli.

Sono rare le domande del tipo “come si trova mio figlio in questa classe?” oppure “come le sembra che stia mio figlio? E’ sereno? Ha qualche problema? Lo dobbiamo aiutare? Dobbiamo essergli più vicino? Come genitori siamo troppo invadenti?”

Il bambino “onnipotente”, caduto e ferito, porta così a scuola la sua rabbia o la sua inibizione, trasformando lo studio e la condotta in un braccio di ferro estenuante con la propria famiglia e con gli insegnanti.

“Gli adulti non mi vogliono? e allora io spacco tutto, mi drogo, bevo, picchio i compagni, non rispetto le regole, non studio, faccio quello che voglio”.

Questo itinerario non è certo cosciente né, per fortuna, succede sempre così.

Il più delle volte gli alunni si adattano, studiano, fanno quello che possono; sono anche sicuramente amabili, simpatici e creativi. Se non opportunamente guidati possono però deviare e stare male con molta facilità.

Forse non ci sono più gli alunni di una volta perché non ci sono più gli adulti di una volta. La caduta della motivazione a scuola delle giovani generazioni è da imputare anche alla caduta dell’autorevolezza di quote crescenti di insegnanti i quali, invece di contrastare le tendenze nichiliste dei ragazzi e della società in genere, colludono con gli alunni (e con le loro famiglie), esercitando un eccessivo permissivismo e lassismo, pensando che oggi non si debba più sanzionare né si debba più intervenire per correggere condotte inadeguate.

Come ho detto alcuni giorni fa,

La scuola è parte della realtà e questa realtà è vissuta da tutti i giovani e giovanissimi per molte ore al giorno e per tanti giorni all’anno.

Questa palestra di vita deve essere utilizzata al meglio per allenare tutti a stare piu' che bene.

Semplicemente Kathia. 

  

 
Rispondi al commento:
paoloroiter
paoloroiter il 13/09/12 alle 20:14 via WEB
INCONTRO DEL 24 ottobre 2002 Latino: lingua madre Moreno Morani, professore di glottologia, Università di Genova Mi ero proposto di iniziare questa comunicazione con qualche riflessione sulle motivazioni dello studio del latino. Il titolo del nostro incontro c’impone di farci questa domanda, e del resto, fin da quando ho cominciato a insegnare, nel 1969, in anni agitati e inquieti, inclini a mettere in discussione tutte le certezze acquisite con la disposizione più a distruggere che a realizzare qualcosa di nuovo, infinite volte sono stato provocato a rispondere a questa domanda, in più occasioni e da diverse parti: non soltanto dagli studenti liceali a cui insegnavo, ma anche da tanti colleghi, docenti incontrati nei corsi di abilitazione, e così via. Da anni con un gruppo di amici rifletto sul valore della cultura classica, ed è a partire da questa in fondo che è nata l’esperienza di Zetesis: perché studiare il mondo classico è il titolo di una delle pagine del sito internet annesso alla rivista. Potrei dire di sentirmi un esperto in motivazioni di studio del latino, perché credo di avere letto e sentito tante risposte a queste domande, e altre ne ho elaborate io stesso, dedicando tempo e attenzione a questo problema. Allora, prima di rispondere alla domanda, vorrei leggere alcune righe da un libretto che mi è capitato per caso nelle mani qualche anno fa visitando a Losanna una libreria di libri esauriti. Il libro si intitola l’Affaire du latin, e risale agli anni Cinquanta: «Noi siamo vittime, ripetendo che bisogna insegnare il latino ai bambini, della nostra eterna pigrizia, della nostra paura di riflettere, della nostra routine e della nostra miserabile sottomissione alla tradizione che ci offre da vivere. La conclusione si impone con forza: si deve smettere di insegnare il latino. Tutto porta a questa verità perfettamente semplice: ma, per debolezza e per infingardaggine, noi rifiutiamo di riconoscerla. Si continuerà così senz’altro a tormentare dei giovani spiriti volendo imporre loro lo sforzo di imparare una lingua morta, assolutamente morta, pesante e grossolana nella sua forma, povera fino alla miseria nelle sue opere e il cui studio è nocivo da tutti i punti di vista» (pp. 25 s.). Questa è già, in fondo, una risposta alla domanda: la totale assenza di motivazioni razionali da parte di chi propone l’eliminazione del latino. Il testo letto è la prova che non vi sono, in realtà, ragioni vere, culturali, forti per non studiare il latino: o affermazioni vuote e provocatorio, o ragioni di opportunità o circostanza, magari, ma nulla di realmente solido. Perché dovremmo lambiccarci a trovare chissà quali motivazioni per difendere lo studio del latino, quando chi ne propugna l’eliminazione non ha neppure un elemento, neppure piccolo, per difendere la sua tesi? Chi ha sostenuto l'abolizione o la riduzione del latino ha spesso squalificato la propria tesi con argomenti vuoti e insulsi come quelli che abbiamo letti: è già un dato di fatto positivo non trovarsi intruppati con simili compagni di strada. Ero ancora studente, quando si avviò il dibattito parlamentare da cui doveva scaturire l’eliminazione del latino nelle medie inferiori, eliminazione che fu attuata in varie fasi: anche allora, per quanto fossi molto inesperto e seguissi solamente dai brevi resoconti dei giornali lo sviluppo del dibattito, mi colpiva la scarsità di motivazioni culturali con cui la discussione procedeva e l'impostazione grettamente ideologica degli avversari del latino. L’unico motivo reale era un motivo di ordine pratico, assai più che culturale: l’avvento di una scuola di massa imponeva un livellamento verso il basso del tenore degli studi. Una motivazione tenacemente perseguita anche negli anni successivi, ripetuta poi per le scuole superiori, e infine ribadita esplicitamente in questi ultimi tempi anche nelle Facoltà Universitarie. La pietra tombale sul latino nelle medie inferiori fu posta nel 1976, essendo ministro della PI Giovanni Spadolini, che commentò la decisione affermando (cito a memoria) che si trattava di un provvedimento di cui la Repubblica italiana non doveva vergognarsi. Perché riprendere, a quasi un quarto di secolo di distanza, questo dibattito? Le comunicazioni successive entreranno nella concretezza del problema. Io vorrei suggerire qualche ragione di ordine più generale e vorrei dare alla domanda «Perché ampliare e anticipare lo studio del latino?» delle risposte diverse da quelle che avrei dato trenta o anche solo quattro o cinque anni fa: non perché quelle risposte fossero intrinsecamente sbagliate, ma perché la situazione attuale dovrebbe portare ad alcune accentuazioni un po’ diverse. Una prima ragione è di ordine strettamente culturale e linguistico. Una delle priorità che si è più fortemente rilevata nella scuola italiana in questi anni è quella dello studio delle lingue moderne. Lo studio dell’inglese si è diffuso in maniera quasi totalitaria nelle scuole di tutti gli ordini e grado, soppiantando in modo pressoché totale la varietà di lingue che si studiavano nelle scuole medie e superiori soltanto una dozzina di anni fa. Vi sono scuole elementari in cui si insegnano due e persino più lingue; alla base di questa insistenza vi è una motivazione reale e innegabile: il vertiginoso aumento degli scambi impone l’esistenza di lingue veicolari che permettano la comunicazione tra gli esseri umani, e l'inglese è allo stato attuale delle cose la lingua predominante, cosicché una sua conoscenza, almeno minimale, è consigliabile, se non imposta dalle circostanze. Ma i risultati di questo aumento degli insegnamenti linguistici per la verità sono deludenti. Quando ricevo degli studenti che mi chiedono di svolgere la tesi, domando loro innanzitutto quali lingue conoscono, perché la bibliografia che sottopongo è generalmente in lingue straniere: la prima risposta, quasi invariabilmente, è: «Non conosco nessuna lingua» (e in genere segue l’enunciazione del proposito di studiare in corsi privati più lingue); alla mia replica che almeno una lingua straniera devono conoscerla dagli studi liceali, in genere rispondono con aria un po’ smarrita che sì, qualcosa di inglese hanno fatto al liceo, ma lo maneggiano poco. Alla domanda, che spesso mi sono sentito rivolgere, «perché studiare il latino, quando sarebbe più utile studiare una lingua straniera moderna», rispondo che studiare il latino non significa sottrarre tempo ed energia per una lingua straniera. Si tratta di due cose qualitativamente diverse. Nello studio di una lingua straniera le finalità di ordine pratico superano molto spesso le ragioni della riflessione di ordine linguistico. Si studia una lingua straniera per praticarla, per acquisire, anche mnemonicamente, determinati meccanismi. Parlando in inglese o in russo dico automaticamente what's your name o kak vas zavut, e non mi pongo minimamente il problema che, ancorché complessivamente equivalenti (perché entrambe si attendono come risposta il nome del mio interlocutore), le due costruzioni sono profondamente diverse tra di loro, ed entrambe differenti dalla corrispondente italiana come si chiama. Lo studio del latino invece, privo come è di finalità pratiche immediate (perché credo che nessuno di noi penserebbe di insegnare il latino per parlarlo o per scriverlo, almeno non come ragione preminente dello studio), impone di continuo una riflessione sulle strutture e sulle categorie, permettendo allo studente di approfondire in modo sistematico le strutture della sintassi e della morfologia, aiutandolo a penetrare in profondità nel tessuto stesso della lingua. Studiare il latino significa abituarsi a porre continuamente delle domande, a cercare di capire, a penetrare sempre più al fondo di una lingua e del suo sistema, e questo porta inevitabilmente anche a un continuo confronto con l’italiano, cosicché lo studio del latino può avere influssi benefici anche sullo studio dell’italiano. Ma, a queste considerazioni di per sè non originali, vorrei aggiungere un ulteriore elemento. Strettamente parlando, il latino non può essere considerata un’altra lingua: il latino è, pur con tutte le sue innegabili diversità. la fase antica dell’italiano: siamo autorizzati a dire sia che noi parliamo latino (la varietà di latino volgare che si è imposta nell’Italia del XXI secolo) sia che i nostri trisavoli dell’età di Cesare parlavano italiano, perché quella era la forma che le lingue romanze avevano a quell’epoca. Studiare la fase antica della nostra lingua significa abituare i ragazzi a prendere coscienza del fatto che le lingue si modificano, a ragionare sul perché e sul come dei cambiamenti, a chiedersi perché determinate parole abbiano assunto un certo significato diverso da quello originario o perché siano state sostituite da parole diverse, in una parola significa porsi di nuovo delle domande e delle curiosità. Se in genere studiare una lingua è un valore, studiare il latino significa sentirsi concretamente immersi nella storia, nella nostra storia. La seconda risposta è di ordine culturale ed è strettamente legata ai problemi dell’attualità. La tendenza generale delle scuole negli ultimi anni è stata quella di nascondere la nostra identità culturale, con un pudore tanto esasperato quanto immotivato: in quante scuole, nella sola zona di Milano, si sono censurati i momenti più significativi della nostra tradizione culturale e si è tentato di evitare qualunque minimo accenno a quanto vi è di specifico nella nostra identità, fino a censurare nelle scuole elementari le canzoncine di Natale e il presepio, in quante scuole le ragioni della correttezza politica hanno portato a fondare una nuova cultura sostitutiva della nostra più autentica e a imporre una religione asettica e valevole per tutti, cosicché la figura di Babbo Natale è diventata un dogma di fede a cui i bambini sono tenuti a credere? Non si fa nessuna opera di dialogo o di integrazione semplicemente nascondendo quelli che sono i fatti e i valori della nostra civiltà. A proposito di integrazione culturale e problemi connessi leggiamo su La Repubblica del 18 ottobre: «La società americana ha un’identità molto forte ed è molto capace di facilitare l’integrazione... Io valuto che due terzi degli islamici d’Europa non desideri affatto integrarsi, ma bisogna tener conto che questo dipende anche dal fatto che le società europee non forniscono una forte identità e non sono in grado di favorire il processo di integrazione... La capacità di favorire integrazione produce desiderio di integrazione e il desiderio di integrazione rafforza la capacità di integrare». L’insegnamento del latino può essere un primo timido passo in questa direzione. Il latino è stato uno degli strumenti della nostra civiltà: è stato il mezzo con cui prima Roma e poi il cristianesimo occidentale hanno fatto conoscere alle altre lingue e popolazioni dell’Europa una cultura che aveva messo insieme uno straordinario patrimonio di conoscenze scientifiche, di riflessioni filosofiche, di produzioni artistiche. Non è questa la sede per insistere sul debito che hanno le lingue d’Europa non romanze nei confronti del latino: quel che è certo è che tutte le lingue dell’Europa occidentale, nessuna esclusa, nel momento in cui hanno acquisito (grazie anche allo studio della retorica e della grammatica romana) lo stato di lingue di cultura, non hanno potuto fare a meno di subire l’influsso del modello latino. Diceva uno dei più grandi grecisti del nostro tempo, Eduard Schwyzer, che è più facile tradurre Demostene in tedesco standard che in un dialetto svizzero: e rilancio la medesima osservazione: vedete se è più facile tradurre Cicerone in italiano standard o in dialetto lombardo: perché la struttura sintattica dell’italiano standard è continuamente modellata sul periodare latino, e lo stesso vale per tutte le altre lingue dell’Europa. Non è solamente il futuro della scuola classica oggi in discussione, come poteva essere venti o trenta anni fa: è un problema radicale, di civiltà e di identità culturale: abbiamo un assoluto bisogno di conoscerci, di sapere chi siamo, quali sono i valori (e i disvalori) della nostra civiltà e della nostra tradizione, abbiamo bisogno di confrontarci criticamente col nostro passato, non in un’ottica di chiusura o di superba affermazione di una nostra asserita superiorità, ma proprio per saperci proporre, per permettere a quanti ci conoscono dall'esterno di sapere chi siamo e come fare per integrarsi con noi. C’è un ultima affermazione che vorrei ricordare brevemente. Come ottenere da ragazzi di undici dodici anni attenzione e interesse di fronte a una materia che sembra irreparabilmente lontana dai loro interessi e dalle attività che più fortemente li coinvolgono? Risponderò con una citazione «In questo periodo ([che va dal fanciullo fino alla scelta professionale]) lo studio e la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se "istruttivo", cioè ricco di nozioni concrete». Non sono parole mie, ma di Antonio Gramsci: peccato che non se ne ricordino molti che si richiamano al suo pensiero e al suo insegnamento, e hanno concepito piani di riforma della scuola che vanno in direzioni totalmente opposte. Il latino tra medie inferiori e superiori Giulia Regoliosi, direttore di Zetesis e docente di liceo classico: Il mio intervento parte da una storia che ha interessato la nostra rivista e quanti si riconoscevano nel suo lavoro intorno al ’90. Era il periodo in cui lavorava la Commissione Brocca, e si prevedeva a tempi abbastanza brevi la riforma delle Superiori, con modificazioni soprattutto di orari per le nostre materie; d’altra parte la Scuola Media già due volte riformata era soggetta ad una specie di tabu ideologico, che impediva di porne in dubbio il carattere fondamentale di unitarietà e di monoliticità, specie dopo che la riforma della riforma aveva eliminato ogni residuo di distinzione togliendo il latino opzionale in terza media e sopprimendo la peraltro sgradevolissima istituzione delle classi differenziali con la pretesa nel contempo di eliminare le differenze. In un lavoro redazionale pubblicato nel 1988 ci eravamo occupati dell’orientamento dell’editoria scolastica, con uno spoglio sistematico dei cataloghi delle case editrici: il fatto più stupefacente era stata la scoperta che alcune case editrici pubblicavano e propagandavano manuali di latino per la scuola media. Si era cioè di fronte a testi per una materia che ufficialmente non c’era, anzi la materia su cui maggiormente si era scatenata una battaglia politica e culturale all’epoca del dibattito parlamentare, ma anche giornalistico, sulla Nuova Media, circa venticinque anni prima. Naturalmente sapevamo che molte scuole libere e anche alcune statali avevano reintrodotto il latino in varia forma, ma che degli editori si dotassero di testi specifici (alternativi a schede e fotocopie artigianali) significava che avevano constatato con più consapevolezza di noi l’ampiezza del fenomeno e forse ne prevedevano, secondo le conoscenze occulte che si suppone gli editori posseggano, un incremento o addirittura una ufficializzazione. L’anno successivo invitammo due autori di tali libri di latino, i proff. Peri e Montecchi, ad essere relatori al nostro convegno abituale di fine anno; e in seguito promuovemmo una serie di incontri con insegnanti di scuole medie e superiori su questo tema. Altri intanto si stavano mobilitando, in particolare il CNADSI e alcune sezioni dell’AICC. Giungemmo alla stesura di un documento (pubblicato sul n. 1/90) che inviammo ad associazioni di categoria e a personalità politiche. Ne ripresentiamo le prime due parti, perché riteniamo ancora rilevanti le osservazioni e validi i presupposti culturali ed educativi. Considerato che 1) nella maggior parte delle scuole medie inferiori statali e libere vengono svolti corsi di latino sotto diverse forme (al pomeriggio o al mattino all’interno delle ore di storia della lingua, organizzati dalla scuola stessa o da gruppi di genitori, per la durata di pochi mesi e di uno, due, tre anni); 2) il fenomeno è così generalizzato che alcune case editrici hanno introdotto in catalogo libri di latino per la scuola media inferiore, a volte recuperando vecchi testi, a volte addirittura commissionandoli ex novo: si assiste così alla situazione assolutamente anomala di testi scolastici destinati ad una materia che per legge non esiste; 3) l’ufficiosità di un fenomeno così massiccio comporta un’estrema varietà e confusione di metodi e contenuti, e quindi l’impossibilità per l’insegnante delle superiori di dare per scontato qualche aspetto del programma; 4) l’impostazione di tali corsi risulta per lo più strumentale ad un più facile inserimento nelle superiori, mentre spesso non tiene conto del calore culturale ed educativo in sé dell’incontro con la latinità; 5) da molte autorevoli associazioni nazionali, nonché da scuole e singoli, è stata richiesta la reintroduzione del latino nella scuola media inferiore; Chiediamo che 1) si prenda atto della diffusa domanda da parte soprattutto dell’utenza rivolta ad ottenere l’insegnamento del latino nella scuola media inferiore; 2) si studino modalità per rendere ufficiale una realtà che già esiste, così da indirizzarla opportunamente quanto ad obiettivi, metodi e programmi e a permetterle quindi una coerenza con l’impostazione didattica ed educativa della media nonché un’omogeneità della preparazione. Della prima parte ci sembrano molto importanti in particolare i punti 3 e 4: si constatava, infatti, e sai constata tuttora (basti pensare ai commenti che la nostra iniziativa ha suscitato nelle scuole superiori in cui siamo presenti) una resistenza da parte dei docenti dei licei contro il latino alle medie: è esperienza comune la frase: "Meglio che studino di più l’italiano, perché tanto il latino così è peggio che niente". Il fatto è che un insegnamento non ufficiale, del tutto spontaneo quanto a obiettivi, metodi, conoscenze e competenze, rischia di creare storture, confusioni, rigidità o approssimazioni; inoltre l’impossibilità di dare per acquisita anche una sola nozione costringe ad iniziare totalmente da capo, fra l’annoiato stupore di molta parte della classe. Va detto però che l’alternativa presente nella frase-tipo citata sopra non è detto sussista: anzi, spesso l’insegnamento del latino si accompagna con il consolidamento delle strutture italiane usate con valore contrastivo, cosa che difficilmente avviene nell’insegnamento della o delle lingue straniere, per cui un miglioramento delle conoscenze linguistiche della propria lingua può essere considerato se non un obiettivo, almeno una conseguenza possibile dello studio del latino. Quanto agli obiettivi, appunto, ci pare riduttivo quello di facilitare il passaggio alle superiori anticipandone delle conoscenze (il punto 4 del documento), così come sarebbe riduttivo il puro e semplice obiettivo di imparare meglio l’italiano: sono entrambe conseguenze interessanti, sicuramente da tenere presenti nella programmazione, ma non obiettivi essenziali: questi infatti vanno ricercati all’interno del lavoro formativo specifico per la scuola media. Pertanto il punto 2 della seconda parte sottolineava l’importanza di un inserimento ufficiale del latino nella programmazione del Consiglio di classe, e di un insegnamento che si adeguasse a metodi e obiettivi di quel livello formativo, invece di essere un corpo estraneo. Siamo quindi totalmente contrari alla proposta che siano docenti delle superiori a intervenire nelle medie per questa materia (proposta avanzata da varie parti): è certo bene che ci sia un confronto fra scuole medie e superiori vicine, ma solo a livello di docenti. Naturalmente i docenti della media dovrebbero avere una preparazione adeguata, cosa che non è sempre possibile dati i piani di studi delle facoltà di lettere moderne che non sempre prevedono l’obbligo di uno studio approfondito del latino: ma all’interno di ogni scuola è possibile effettuare una scelta fra i docenti per l’insegnamento di questa disciplina. Il documento comprendeva poi una serie di suggerimenti sull’attuazione della proposta: è interessante rileggerli a distanza di tempo, perché si nota come siano cauti e pieni di distinguo, segno che il tabu dell’unitarietà era fortissimo; inoltre comprendevano una preoccupazione, quella di non superare, o superare di poco, le 30 ore dell’orario, nella certezza che fossero anche troppo per dei ragazzini: certezza che abbiamo tuttora, ma che urta contro l’abitudine al lungo orario scolastico (sia a tempo pieno sia modulare) già acquisita alle elementari. Ora i problemi sono minori: è già in corso di elaborazione una riforma, l’unitarietà è di fatto sparita con le varie opzioni e tacitamente è caduto il tabù ideologico, così come il tetto delle trenta ore. La possibilità più semplice è quella della sezione col latino in alternativa ad altre opzioni (doppia lingua, informatica, musica o altro): non ci sembra infatti accettabile il latino per tutti, che riprodurrebbe di nuovo una monoliticità (verso l’alto) tendente a ignorare le differenze di capacità e vocazioni. Sul numero di dicembre ’90 pubblicavamo l’esito della proposta: una notevole accoglienza, in particolare da parte del partito liberale (senatore Valitutti), che dava notizia di un’iniziativa politica del partito per la reintroduzione del latino, e della DC: attraverso i deputati Portatadino e Mazzuconi ci giunse la risposta dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione Gerardo Bianco che mostrava interesse per un’analisi della situazione esistente, mentre l’onorevole Brocca si dichiarava interessato soprattutto alla concretezza delle proposte (era l’epoca della proposta Fiandrotti sul latino alle elementari: un’ipotesi del tutto astratta, che dice molto sul fatto che era più facile azzardare assurdità sulle elementari, allora peraltro in fase di riforma, che toccare la Media). Non avevamo all’ epoca la forza di proseguire, soprattutto in un ambito che non era in fondo il nostro. Ora ci sembra che il problema ritorni a farsi interessante, senza che sia mai venuto meno, perché anche le medie inferiori sono entrate nei vari progetti di riforma e l’autonomia ha smantellato completamente l’idea unitaria. Per questo ci proponiamo di lavorare. Esperienze di insegnamento del latino alla scuola media Laura Longaretti, docente di lettere alla Scuola Media S. Tommaso Moro: L’insegnamento del latino nella scuola media inferiore pone inevitabilmente tutta una serie di problematiche, a cominciare dal perché introdurlo, a chi insegnarlo (a tutti o solo a chi ha intenzione di continuarlo al liceo?), fino ad arrivare al che cosa e come (con quali metodi, con quali modalità, con quali strumenti ?) insegnarlo. È chiaro che si tratta di questioni molto complesse, tanto è vero che oggi come oggi nelle nostre scuole medie vengono adottate metodologie e proposte impostazioni molto diverse, al punto che vien da chiedersi quanto possa essere utile una offerta di questo tipo. Io inizierei fissando due presupposti che mi sembrano importanti. Il primo è che non è possibile insegnare il latino nelle scuola media così come lo si insegna al liceo. La scuola media inferiore ha infatti una sua specificità che va salvaguardata. Il secondo presupposto è che non è più possibile insegnare il latino ai ragazzi di oggi come lo si insegnava 30 o 40 anni fa: troppe cose sono cambiate, la stessa didattica della scuola media è cambiata Insegnare una lingua come il latino a queste nuove generazioni potrebbe sembrare a qualcuno un’impresa impossibile e anacronistica, perché infatti insegnare ai ragazzi di oggi una lingua " morta ", che non si usa più se non in ambiti e situazioni particolari? Iniziamo allora a parlare subito di motivazioni , tenendo presente che, come ci ricorda il titolo del convegno, nella didattica motivazioni e metodi sono strettamente legati. Per fare questo devo partire dalla mia esperienza di insegnante. Insegno da qualche anno nella scuola media San Tommaso Moro, una scuola paritaria nata nel ’79. In questa scuola, fin dai primi tempi, è stato deciso, con una scelta che allora sembrava contro corrente, di introdurre il latino in orario curricolare. Tale scelta era nata dalla convinzione che non si potesse far comprendere ,e quindi insegnare ai ragazzi, l’evoluzione della lingua italiana, così come dettavano i programmi ministeriali, senza partire dalla lingua origine e cioè il latino. Insegnare la lingua italiana significa insegnare che le parole hanno una forma, un suono, un ritmo, un significato, che si combinano tra loro, ma significa anche insegnare che le parole hanno una storia, esse infatti nascono, cambiano, muoiono. Ma come è possibile studiare la storia della nostra lingua senza partire dalle origini? Come è possibile fare dei confronti tra una realtà conosciuta e una sconosciuta? Occorre dunque andare alle origini, cominciare a conoscere, a familiarizzare con la nostra lingua madre : il latino. I ragazzi sono sempre molto affascinati, interessati nel momento in cui si propone loro di andare a cercare l’origine delle parole. Nelle parole che usiamo tutti i giorni troviamo tracce del nostro passato, anche le parole sono indizi importanti per scoprire qualcosa della nostra storia. Questo è un lavoro che si può affrontare occasionalmente, in tutte le ore di lezione, ogniqualvolta si incontra una parola di cui non si conosce il significato . Ad esempio capita spesso durante le ore di storia di spiegare un concetto difficile partendo proprio dalla sua etimologia. Quando ai ragazzi si spiega che potere "assoluto" significa "sciolto da" qualsiasi controllo ( solutus ab ) essi oltre a capire immediatamente e con grande chiarezza questo concetto, tendono a non dimenticarselo più. Ma tale lavoro può diventare più sistematico. È possibile così scoprire insieme che − la lingua italiana è cambiata nel tempo − sta ancora cambiando (v. parole come "paninoteca", "tangentopoli", "videocassetta" e parole che stanno scomparendo come"fanciullo" o "prestinaio", "drogheria") − Ci sono parole o espressioni latine che usiamo abitualmente senza rendercene conto (album, referendum, pro capite) e molte appartengono al linguaggio pubblicitario (Nivea, Volvo, Rex, Vim) − Esiste una familiarità tra alcune lingue europee data dalla loro comune origine latina − Partendo da degli esempi è possibile vedere come esistesse un latino letterario e un latino parlato e come alcune parole italiane derivino dall’uno o dall’altro (v. da caballus e equus o da ignis e focus) È possibile vedere insieme le principali modificazioni nelle parole dal latino all’taliano (da pectus a petto, da aurum ad oro) Ma io penso che oltre a questo interessantissimo lavoro sull’origine delle parole sia necessario un lavoro sul testo, che ci consenta di capire il funzionamento della lingua latina e quindi il funzionamento della nostra stessa lingua. Studiando il latino inoltre i ragazzi possono avere delle occasioni per scoprire essi stessi l’etimologia di alcune parole che usano abitualmente o che incontrano sui testi. Ad esempio può essere interessante far notare ai ragazzi come il verbo augeo, incontrato poniamo caso in un testo che si sta traducendo, possa avere qualche rapporto con il titolo Augustus scelto da Ottaviano. Infine ritengo che uno dei motivi per cui alcuni insegnanti si accontentano di proporre uno studio superficiale e poco sistematico della grammatica italiana sia proprio il fatto di non dover fare poi i conti con l’insegnamento del latino. Mi è capitato di fare delle supplenze in classi in cui la grammatica italiana veniva insegnata davvero, e in altre in cui si stava lavorando sull’attributo, ma pochi ricordavano cosa fosse il soggetto. Perché dunque insegnare il latino alle medie? Per rendere i ragazzi, tutti e non solo quelli che andranno al liceo, più sicuri e quindi più consapevoli rispetto alle loro conoscenze storiche (evoluzione della lingua) e nelle loro scelte lessicali e sintattiche, dunque nell’uso della lingua . L’insegnamento del latino può infine avere un importante valore orientativo perché consente ai ragazzi e agli insegnanti di operare delle scelte e di dare delle indicazioni più motivate rispetto alla scelta della scuola futura. Questo è dunque un punto di partenza importante : il latino nella scuola media inferiore è per tutti, da qui la scelta nella nostra scuola di proporlo a tutti in orario curricolare. Passiamo così al secondo punto: quale metodo usare? Negli ultimi anni sono stati adottati metodi diversi che vanno dai più tradizionali, i quali privilegiano l’aspetto della sistematizzazione, dell’apprendimento della regola, e metodi più innovativi che privilegiano l’aspetto comunicativo e che partono da una sfida : è possibile apprendere il latino utilizzando delle tecniche, dei metodi più attuali, come se fosse una lingua moderna, e cioè parlandolo? E allora : quale metodo scegliere? Scegliere un metodo, una strada adeguata, significa prendere in considerazione due fattori : 1) il soggetto dell’apprendimento, cioè chi si ha davanti, il nostro interlocutore 2) che cosa si sta insegnando, l’oggetto del nostro insegnamento. Rispetto a questo secondo punto occorre dire che il latino è una lingua molto strutturata, diversa ad esempio dall’inglese. Inoltre noi non lo studiamo per parlarlo, ma per tradurre testi e per conoscere la nostra lingua madre. Rispetto al primo punto invece occorre partire da un dato di fatto: che stiamo lavorando con dei ragazzi di 11-12 anni e che pertanto non è possibile prescindere dall’aspetto giocoso, di scoperta dell’
 
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