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*** NON CI SONO PIU' GLI ALUNNI DI UNA VOLTA ***

Post n°450 pubblicato il 13 Settembre 2012 da assia.k

Rieccomi, arrivo puntuale alla fine dell'estate, con il profumo dell'autunno e dei suoi magici colori; ma con ancora strascichi di un periodo spensierato vacanziero. Lo so è dura ricominciare ; ma è ancora piu' dura per tutti quei ragazzi, che devono riprendere la scuola. Ma devo prendere in considerazione, che non ci sono piu' gli scolari di una volta. Non è una frase scontata, è un pensiero oramai condiviso da molti insegnanti, e cio' crea tanta amarezza. Ricercando nel web qualche notizia  riguardo l'argomento, ho trovato un interessante documentazione:

Si pronuncia ripetutamente questa frase pensando alla differenza tra “il prima” (meno di dieci, venti anni fa) e l’oggi. Tutti gli anni, ad ogni “leva” di alunni, sembra ci sia una diminuzione di motivazione, di capacità cognitive, di disciplina e rispetto.

Aumentano invece iperattività, svogliatezza, pigrizia, prepotenze e problemi di ogni genere.

Che sta succedendo alle nuove generazioni?

Il tempo si è drasticamente ridotto; stress, fatica e difficoltà nei rapporti sono aumentati in modo vertiginoso.

Mai nella storia dell’umanità si è assistito a cambiamenti strutturali così veloci ed imponenti in un così breve lasso di tempo.

A fronte di tanto benessere si stanno però contraendo in modo preoccupante le relazioni umane.

Si ha sempre meno tempo per stare in casa, per parlare, giocare, riposarsi e perfino mangiare.

Si è sempre di corsa: la spesa, il parcheggio, il traffico, le file.

In questo nuovo scenario i bambini, i giovani e i giovanissimi, come al solito, ci rimettono di più.

Non si tratta di infanzia abbandonata in nome del progresso, né di bambini immolati sull’altare del mercato.

I figli oggi, addirittura prima di affacciarsi alla vita extrauterina, sono sommersi e saturati da merci, beni e relazioni di ogni genere.

Pannolini caldi e morbidi; giochini colorati, sonori e piacevoli al tatto; cibo sempre pronto e in abbondanza. Qualunque esigenza è evasa in pochi secondi; qualunque bisogno ha una risposta esauriente e immediata.

Basta che il bambino pianga e tutti corrono per sfamarlo, coccolarlo, parlargli, consolarlo, prenderlo in braccio, ridurgli ogni possibile tensione psicofisica.

Crescendo, aumenta il livello di saturazione di beni e merci di ogni genere.

E per soddisfare qualsiasi bisogno basta piangere, urlare o appena frignare: i bambini lo imparano presto.

Fino a credere di essere onnipotenti: hanno tutto, lo possono avere subito, a volte addirittura prima di desiderarlo.

Il loro impero è esclusivo ed unico, al massimo da condividere, a malincuore, con i fratelli.

Come tutti gli imperi, però, anche quello materiale ed affettivo dei bambini volge inesorabile verso la caduta.

La seconda parte dell’infanzia, coincidente generalmente con l’entrata a scuola, si caratterizza per una vorticosa caduta delle attenzioni e dell’esclusività.

La mamma ricomincia a lavorare, gli impegni extrafamiliari tornano ad essere pressanti, i ritmi di lavoro estenuanti.

Sbattuto qua e là, deportato a forza da una palestra ad una piscina, luoghi così diversi dall’intimità della propria casa e mollato sempre più spesso alla babysitter di turno, si sentirà sbrigativamente abbandonato, senza neanche saperne il motivo.

La ferita narcisistica che svilupperà se la porterà inevitabilmente a scuola, recuperandola attraverso una buona socializzazione con i pari o aumentando la rabbia, il dolore, l’inibizione e la paura se non riesce a trovare surrogati affettivi adeguati.

Troppo nei primi anni e troppo poco dopo, all’improvviso.

Da imperatori incontrastati, molti bambini si percepiscono ad un tratto ingombranti, di peso, quasi di troppo al confronto dell’incedere caotico e frenetico dei genitori, tutti presi dal misterioso mondo del lavoro e di chi sa cos’altro ancora.

e  le frustrazioni, come abbiamo visto, arrivano presto e toste.

Non si stava meglio prima, ma evidentemente erano diverse le dinamiche di crescita, di sviluppo e di conflitto.

E’ come se i bambini di una volta navigassero su piccole e insicure barchette fornite però di vari salvagente. Oggi navigano su panfili di lusso, dorati e sicuri, senza però alcuna scialuppa di salvataggio.

Non ci sono più gli alunni di una volta.

Arrivano a scuola con il loro panfilo dorato, ma possono arrivare anche con l’angoscia di poter affogare.

Ogni anno sembra che bambini e ragazzi abbiano meno voglia di studiare, di sacrificarsi, di ascoltare.

D’altra parte, anche i rapporti con le famiglie degli allievi sono cambiati: ad un maggior interesse dei genitori circa il rendimento (“ha imparato a leggere mio figlio?”, “è bravo?”) corrisponde una caduta a picco dell’interesse verso altre variabili più psicologiche riguardanti il benessere dei propri figli.

Sono rare le domande del tipo “come si trova mio figlio in questa classe?” oppure “come le sembra che stia mio figlio? E’ sereno? Ha qualche problema? Lo dobbiamo aiutare? Dobbiamo essergli più vicino? Come genitori siamo troppo invadenti?”

Il bambino “onnipotente”, caduto e ferito, porta così a scuola la sua rabbia o la sua inibizione, trasformando lo studio e la condotta in un braccio di ferro estenuante con la propria famiglia e con gli insegnanti.

“Gli adulti non mi vogliono? e allora io spacco tutto, mi drogo, bevo, picchio i compagni, non rispetto le regole, non studio, faccio quello che voglio”.

Questo itinerario non è certo cosciente né, per fortuna, succede sempre così.

Il più delle volte gli alunni si adattano, studiano, fanno quello che possono; sono anche sicuramente amabili, simpatici e creativi. Se non opportunamente guidati possono però deviare e stare male con molta facilità.

Forse non ci sono più gli alunni di una volta perché non ci sono più gli adulti di una volta. La caduta della motivazione a scuola delle giovani generazioni è da imputare anche alla caduta dell’autorevolezza di quote crescenti di insegnanti i quali, invece di contrastare le tendenze nichiliste dei ragazzi e della società in genere, colludono con gli alunni (e con le loro famiglie), esercitando un eccessivo permissivismo e lassismo, pensando che oggi non si debba più sanzionare né si debba più intervenire per correggere condotte inadeguate.

Come ho detto alcuni giorni fa,

La scuola è parte della realtà e questa realtà è vissuta da tutti i giovani e giovanissimi per molte ore al giorno e per tanti giorni all’anno.

Questa palestra di vita deve essere utilizzata al meglio per allenare tutti a stare piu' che bene.

Semplicemente Kathia. 

  

 
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paoloroiter
paoloroiter il 15/09/12 alle 20:39 via WEB
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno (Italia). La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione. La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime. Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione. Fu aperta un'inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti. La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere. La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini. La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L'ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia. Allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta. Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore. Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale........... si era consumata una tragedia tra le più grandi che l'umanità potrà mai ricordare. PAOLO ROITER
 
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