Creato da massimofurio il 20/04/2012
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« Da u Ce II^ parte. | LA FINE » |
Questo prossimo racconto nasce da una stimolazione della mia memoria, per via di un altro scritto, di un amica, che con un suo spunto molto bello, ha risvegliato in me ricordi sepolti nella mente, ci tengo molto a dirlo, perché non avrei certo ricordato.
Ho avuto una vita molto intensa e i dolori sono stati molti, forse anche troppi per una vita normale e ogni volta che, sono riuscito a reagire è solo grazie a quegli innesti, a quei supporti, a quei puntelli, che ho ricevuto in un infanzia, dura e addestrativa, ma molto formativa.
Dentro di me si è formata lentamente una piattaforma sulla quale ho posato la casa della mia vita, sicuramente non perfetta dal punto di vista architettonico, ma strutturalmente è indistruttibile, anche grazie a quelle esperienze tempranti, belle e brutte che ho vissuto allora, con i miei fratelli/amici e personaggi di quei tempi.
E dato che purtroppo sono l’unico di quella banda ad essere vivo, le anime dei miei compagni di allora, anche se ne sono andati via in un modo terribile, vivono in me e così sarà sino alla mia fine.
In loro onore e ricordo scriverò un ricordo, storie che ci appartengono, il passato mi appartiene, non so cosa farmene del presente e tanto meno del futuro.
Da ragazzini, nel periodo estivo, andavamo in giro per la valle, la principale attività era far danni.
Le ragazzine erano un vero tabù, non si riusciva mai ad intercettarle, da nessuna parte, solo a Messa, è tutto dire quindi, a scuola riuscivamo a stringere contatti più “pressanti”, ma era solo un intenzione, del resto non c’era tempo. Poi di noi erano terrorizzate, i dispetti....
Finalmente veniva Maggio e poi Giugno, il mio mese e noi esplodevamo come tante mine, liberi dalla mattina alla sera, solo la fantasia poneva i limiti al nostro fare e quante ne abbiamo fatte.
L’estate finalmente, il fiume i laghetti i monti e la caccia, le infinite corse, le battaglie a pietronate a colpi di zserbo (zolle d’erba), gli archi con le stecche degli ombrelli e le relative aste in metallo, le cerbottane le trappole, sua maestà la fionda, il fuoco, e poi ci veniva fame, allora gli assalti alle fragole ciliege amarene susine pesche albicocche fave piselli cipolle e patate e pomodori, le uova di gallina e di colombo. Ci inseguivano i padroni dei poderi e noi ridendo scappavamo a volte facendo sfottii maleducati, gneree (pernacchie) e chiappe al vento e ricordo la solita frase urlata da distante dietro di noi– te cunusciu u digghu a te puè-(ti conosco lo dico a tuo padre), che poi a casa eran botte, sia chiaro.
Ma chi poteva tenerci, limitarci, eravamo uccelli liberi, piccole poiane che volavano in un cielo senza reti, una valle senza confini, il nostro mondo libero, nessun steccato nessun limite eravamo padroni assoluti di tutto e così ci sentivamo veramente. Ma com’era diverso allora, non cerano limitazioni di alcun genere, potevi entrare nei poderi, nelle stalle, nelle ville, negli immensi orti, tutto era coltivato, persino nei monti, i boschi erano pulitissimi, come un prato di casa, vedevamo i funghi a molti metri di distanza, cosi come le tane degli animali del bosco.
Nel fare le nostre cose, i danni,…. eravamo organizzati , come sempre, frutto di una cooperazione strutturata semplicemente, un’efficienza militare, ma di un esercito vincente, c’era chi faceva la guardia ai padroni, chi si organizzava a portare i sacchi per la verdura, erano i piccoli sacchi di iuta per le olive, allora i sacchetti di plastica (che odio), non esistevano ancora, la spesa le donne la facevano portandosi la sportina o la borsa di corda, e poi c’erano quelli incaricati dell’azione vera e propria, io ero uno di quelli, andavamo via quasi sempre scappando, ma l’avvicinamento era da veri predatori. A dire il vero avevamo diviso l’azione criminale in varie fasi. La prima, la ricognizione e sopraluogo anche da lontano, riunione per decidere il da fare, la seconda, l’avvicinamento, che per me era la più bella, sempre in coppie, gerarchie e simpatie stabilite sin dal tempo dell’asilo, strisciavamo come serpi in un silenzio irreale comunicando a gesti, a volte a pochissimi metri dai proprietari, ci portavamo nei posti prefissati e scattava la terza fase, il seccaggio. Allora più velocemente che si poteva si arraffava tutto ciò che era possibile, riempiendo nel caso delle fave, i sacchi così come per le cipolle e le patate e i pomodori, che poi ce le facevamo nella cenere del fuoco. N.D.R. seccaggio viene, dall’abbiamo fatti secchi……
Le solite raccomandazioni, stare bassi e occhi bassi, caricatevi poco, la schiena alla casa dei contadini, uno raccoglie l’altro fa la guardia, poi in caso di fuga, la quarta fase, ognuno per se e ci vediamo al posto stabilito, per poi andare a mangiare in santa pace, la quinta fase.
Esser presi era un problem, minimo ti staccavano un orecchio sbatacchiandoti come un tappeto e la pelle dal culo te la portavano via a trapponate, ti portavano quasi di peso dai genitori,…. Era una civiltà ancora contadina, i frutti della terra erano vita, semplice, poi a casa erano botte da orbi, cinghia e schiaffi da mio padre e a letto senza cena e chi se ne fregava tanto poi mangiavo lo stesso, di notte.Eravamo indomabili, selvaggi, che bello, avremmo potuto resistere a tutto, non ci faceva paura nulla,
Ma poi veniva sera e il sole scendeva dietro al cumin, un monte che allora era tutto a bosco di olive ed era di fronte al mio palazzo ove abitavo e il forte vento di tramontana lo tingeva di argento in autunno, poi ci voleva una settimana prima che le foglie si risistemassero giuste.
Allora, molto ma molto a malincuore scendevamo a valle, tornavamo in paese, a dirlo era niente, ma gli scenari ove poco prima avevamo fatto le nostre razzie, ora ci vedevano che come degli angioletti tranquilli tranquilli che se ne tornavano a casa, e qui le cose si mettevano male anzi, malissimo, non che avevamo del mal tolto con noi, ce l’eravamo mangiato, o nascosto al sicuro, per l'indomani …. ma chiaramente ci conoscevano bene, eravamo ormai famosi in tutta la valle e anche nelle valli vicine….. un susseguirsi di insulti rimproveri, punizioni promesse, pure qualche pietronata e anche qualche cane mordace lanciato alle nostre terga, allora in un modo semplice ma geniale avevamo risolto la strategia dell’ultima fase, la sesta, la ritirata.
Scendevamo lungo uno dei tre fiumi, dipendeva da dove ci trovavamo a fare danni, che confluivano nel centro del paese e sbucavamo sotto il ponticello alle spalle della piazza, eravamo a casa, sani e salvi, erano quasi sempre le sei-sette di sera.
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