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« E.M.Da u Ce I^ parte. »

Da u Ce II^ parte.

Post n°15 pubblicato il 17 Giugno 2012 da massimofurio
Foto di massimofurio

  Ma non era sempre così, a volte erano sulla piazza ad aspettarci, avevano capito la strategia, ma d’altro canto non ce n’era un’altra e una sera si verifico un episodio che è  stato fondamentale, per noi.

               Satolli, stanchi e felici e faccia da innocenti come sempre a quell’ora, ci stavamo lavando al brunzsin (fontanella) all’angolo della piazza, eravamo sporchi marci, quando due ragazzi grandi con i loro padri, ci chiusero nell’angolo ed erano gia cominciate a volare le prime sberle sulle nostre facce e gia ci eravamo predisposti all’ultima lotta mani sui coltelli ancora in tasca dei pantaloni, per chi ce l’aveva ancora addosso, anche se non avremmo avuto nessuna possibilità, quando dal negozio all’angolo  usci un uomo, era Ce per gli amici, Cebotti di cognome, il ciabattino, o caiga in genovese, subito disse, e alua?, cose ghe, sun commedie, lascè sta sti figiò (e allora? Cosa c’è, sono tragedie?, lasciate stare questi figliuoli).

                Ci stava difendendo e lo disse con una voce che mi risuonò nelle orecchie come lo sparo di un proiettile, era una tono di voce che non ammetteva repliche, dopo sarebbero state botte. Nel vederlo, era piuttosto piccolo e aveva una gamba di legno, la sua era andata persa in un campo minato in Nord Africa nella II G.M., camminava ancheggiando molto vistosamente ed aveva il bacino deforme sulla destra, ma gli avambracci avrebbero fatto invidia a braccio di ferro e aveva le spalle molto larghe e gli occhi erano neri, inespressivi e tristi e cupi, non era molto vecchio, ma dimostrava molto di più.

               Credo che tutti noi della banda pensammo che razza di misero aiuto ci era arrivato, ma di fatto i quattro “picchiatori” si guardarono  in faccia e se andarono, senza dir una parola ne uno sbuffo o un cenno o uno sguardo, sputai in faccia al ragazzo grande e davanti a suo padre gli dissi che era un figlio di p….. e che l’avrei scannato, ero fuori di me e avevo il coltellino in mano, mi aveva dato un gran man rovescio sulla faccia che mi rimase gonfia e deforme per giorni che mi faceva un male terribile, mi venne un livido dall’occhio all’orecchio destro, l’avrei ucciso, ma per fortuna mi mancò il coraggio, nacque da allora un inimicizia  che dura tuttora, mi sentii sollevare per il collo, era Ce e  che mi disse Stanni sittu, dopu femmu i cunti (Stai zitto, dopo facciamo i conti).

                 Si era radunata una folla, e Ce, ci fece entrare nella sua bottega e ci domandò perché ce l’avevano con noi così tanto e gli dissi insieme agli altri, io piangevo, che avevamo rubato le fave, a dire il vero avevamo rancato una cinquantina di piante con tutti i frutti e ce le eravamo portate via, era un po’ grave in effetti ma era un affinamento della fase tre in fondo, ma a Ce, non sembrò tanto poi così grave, ci vide che eravamo spaventati a morte, ci porto in società e c’era mio nonno, che giocava a carte che si allarmò subito e lì capii, che erano amici.

                Ci fecero bere l’aranciata, misero il ghiaccio sulla faccia a me e un’altro e ci passò lo spavento e da subito ci mettemmo a pensare una vendetta, ma Ce ci capii al volo e nel accompagnarci indietro insieme a mio nonno disse di non fare sciocchezze, che non era il caso, che avevamo in fondo torto e che poi non ci si comporta così.

                 Guardavo mio nonno e lui mi guardava annuendo molto serio, guardai di traverso i miei compari e con una smorfia sancimmo all’istante senza parlare, di lasciar perdere.

                  Non che smettemmo di fare furtarelli di frutta e verdure varie o di cos’altro ci passasse in mente di fare, ma diventammo meno sfrontati, ci demmo una calmata insomma. Da allora, comunque, tutte le sere, al ritorno sulla piazza, non ci scordavamo mai di Ce, in segno di profondo rispetto e non solo gli portavamo in un sacchetto di carta o avvolte in uno straccio o due foglie di fico, delle pesche o dell’uva, delle ciliege, ed eravamo tutti d’accordo nel farlo, non che lui le volesse anzi ci diceva ogni volta di non farlo che non le voleva, sgridandoci, ma noi eravamo irremovibili, stavamo fermi e silenziosi con la frutta in mano facendo di no con la testa ai suoi rifiuti di prenderla, doveva prenderla, io capii che si commuoveva e allora accettava, subito ce ne andavamo via, per vergogna ed imbarazzo suo e nostro, giù nel fiume di corsa come sempre, saltando di sasso in sasso, con le lacrime agli occhi, almeno io.

                 Dopo esserci lavati-confessati alla fontana, si perché lavarsi era un po’ come togliersi i peccati di dosso, commessi nella giornata, anche perché tornare a casa conci come cinghiali era una dose di botte supplementare a già la dose solita, quante botte mi ha dato mia madre, son servite a nulla erano un sigillo finale, come una colla che ci teneva ulteriormente insieme, ci domandavamo sempre quante ne avevamo prese e le risate quando dicevi, mia madre con la scarpa, la mia con la borsa di corda, mio padre con lo scuresin (cintura), mostravamo i segni a testimonianza, E poi magari si facevano male, perché noi eravamo come molle che saltavano per tutta la casa e poveretti nel cercare di prenderci cadevano o rompevano qualche sovra mobile, a me scappava sempre da ridere quando mia madre mi pestava, il che la faceva impazzire di rabbia, eravamo avvezzi a ben altro, le loro botte erano carezze al confronto, pensare che mia madre avrebbe voluto avere una femmina, le è toccato un scavezzacollo di prima classe, anzi un fuoriclasse come tutti noi del resto. Quante volte mi ha detto ti porto in collegio dai Maristi e io rispondevo, ci do fuoco al collegio  e poi scappo e non torno mai più a casa, lei che sapeva con chi aveva a che fare e pregava il signore di farmi cambiare,  poi mi pestava di nuovo, io le dicevo turna? (ricominci?) e il giro di giostra ricominciava. Quante volte ho saltato la cena e quante volte ho strisciato nel corridoio di notte e andavo a mangiare il latte nella bottiglia di vetro, con i biscotti sotto il tavolo, con lo stomaco che brontolava da sentirlo da lontano.

                 Dopo lavati, dicevo, ci sedevamo sul scalino da u Ce, che l’ultimo raggio di sole lo illuminava come una luce dedicata e ce ne stavamo lì ad asciugare, bussavamo alla piccola vetrinetta a lo salutavamo con un cenno di mano e lui ci diceva, cose hei cumbinou ancoo leggere? (cosa avete combinato oggi delinquenti?), e noi con la voce da passerotti, niente Ce, niente Ce e  intanto ridevamo satanici, usciva col suo grembiule di colla e ci dava i soldi del gelato, aneve a piggia u gelatu (andate a prendervi il gelato). Le vecchie 500 lire di argento, le ricordo come fosse ora. Con noi era un po’ un padre, che nessuno di noi aveva, sia chiaro che tutti l’avevamo come figura, me di presenza nessuno, questo era forse il nostro vero fattore accomunante, l’essere randagi, senza padrone o famiglia, allora andavamo e per farlo spendere poco, prendevamo il ghiacciolo, al ritorno, ci diceva col sorriso,mentre gli davamo il resto, ve sun baste (vi sono bastate), e noi in coro, si Ce sono bastate, grazie…

                 Stavamo seduti lì, anche quasi in sfida a chi passava che ci buttava qualche occhiataccia, ridendo e ghignando a fronte della nostra breve impunità passeggera ma fin che durava la sfruttavamo sino in fondo, quelle risa sono ancora nelle mie orecchie, gli occhi, gli sguardi, la complicità nostra, condita con le scoregge e gli sberleffi, i manici d’ombrelli, il dito allora, lo si faceva col braccio… a noi, a tutti, al mondo e poi il più delle volte se non andavamo incontro a Giuli e alla Nina, scappavamo di corsa a casa e di corsa veloci sino a casa a volte solo in mutande, con la roba bagnata in mano e dato che quattro della banda abitavamo nello stesso palazzo, al portone delle volte c’erano ad aspettarci…….allora andavamo da mia nonna, estrema ratio, in attesa che si facesse il momento buono per  salire in casa. Dopo mangiato se ce ne davano….. a volte salivamo sul terrazzo a guardare le stelle, in pigiama, scalzi sulle piastrelle di cemento, al calore osmotico della sera, respiravamo gli odori dei prati che erano molto più forti che di giorno, non potevamo uscire (castigo), ma sul mio terrazzo andava bene lo stesso, e facevamo già i piani per il giorno dopo………..., prima di andare a dormire andavamo a pisciare sui gerani della vicina dell’interno 22, che era una gran rompipalle, nel farlo scavalcavamo i muretti in cemento con i vetri sopra….., perché lo sapevano chi era, ma se non riuscivano a prenderci, cercavano almeno di fermarci, ma noi eravamo noi, non ci avrebbe fermato nulla, neanche la morte.

                 Ce, era solo, viveva in una stanza senza cucina con l’uso bagno in comune, a Genova, nei vicoli ed era un decorato di guerra e aveva preso in guerra, la decorazione data a chi aveva ucciso più di dieci uomini con l’uso delle sole mani, me lo aveva detto mio nonno, quegli occhi cupi e tristi si rallegravano quando ci vedeva entrare in quel fazzoletto di negozio, magari con le ciabatte rotte o i sandali scarcagnati (sfondati) e ce li aggiustava per nulla o ce ne regalava un paio di qualche cliente che non li aveva più ritirati o chissà dove li prendeva.

                 Quando ci sedevamo sullo scalino del suo negozio e lui sorrideva vedendo quelle teste coi capelli rasi, capivo che era felice di vederci, quasi ci stava aspettando.

                 A volte gli facevamo qualche piccolo servizio, tipo portar le scarpe a casa dei clienti, a quelli che ci stavano sulle palle, ci pisciavamo dentro, (poche gocce)  in fondo serviva a farle diventar morbide, non glielo abbiamo mai detto, ovviamente…….

                  Era un lavoro da poveri il ciabattino, e il suo piccolissimo laboratorio era quasi un antro di una fucina, c’era la foto di Piola, un ritaglio di giornale, mentre fa la famosa rovesciata ai Mondiali di calcio vinti negli anni 30 dall’Italia, una sua foto in divisa in Africa ancora con le sue gambe, il ritratto di nostro signore Gesu e u lunaio (calendario con le lune), una foto di una chissà quale formazione del Genua, e tutte stavano lì a sostenere le pareti, nere come il suo grembiule di cuoio pieno di segni e di colla. Da quel fatto, lo osservavo, che poi è stata sempre la mia dote più grande, era modesto, educato, ma in lui c’era un passato pesante, che lo vedevi nella sua tristezza e nel cupo dei suoi occhi, credo che da allora in poi, il suo lavoro era una specie di purgatorio, le scarpe non erano certo quelle di ora e chi le usava le sfruttava all’osso e ripararle era una vera impresa.

                 Il suo banchetto, che era più vecchio di lui, scrosciva (scricchiolava), ad ogni martellata, o ad ogni sforzo, quei chiodi a testa grossa e piatta a gambo quadro, le sellerine, che usava per inchiodare il cuoio, aggiustava anche i basti e i finimenti e le salmerie dei cavalli e muli, quando si sedeva come quando si alzava piegava la gamba di legno, con uno scatto, e nel piantare i chiodini a volte poggiava il ferro a tre forme, che non so come si chiama, sulla gamba di legno, allora il rumore del martello era diverso, i colpi erano più secchi e corti, mi colpiva la scarpa sul suo arto artificiale, era nuova sembrava esposta in vetrina, artificiale anch’essa, l’altra era viva, aveva il piede dentro,lo copriva come una pelle.

                 Lo vedevo alla sera abbassare la serranda, se eravamo lì ci salutava raccomandandoci di star bravi e non fare degollate, (stupidate). Poi col suo passo a punto e virgola, andava a prendere il celere e attraversando la piazza, se incontrava qualcuno, si levava il copricapo nero a meta tra un basco e una coppola dicendo scignuria. (signoria vostra).

                 Figure di un passato remoto che in questi miseri tempi, non esistono più, anche se ce ne vorrebbero molte, avevano valori profondi, si portavano dietro delusioni e dolori con una dignità straordinaria, si accontentavano di quello che avevano con grande testimonianza di signorilità, anche se non di famiglia ma sicuramente di cuore e d’intelletto.

                  Poco prima dei 18 anni di età cambiai casa, e quest’universo si chiuse dietro di me. Non so che fine ha fatto G. Cebotti, ma se, se ne è andato, spero che sia con mio nonno a bersi a tavolino sotto le noci, un bicchiere di vino fresco e buono.

                  Grazie.

 

 
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