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Scarpe distrutte

Post n°3450 pubblicato il 17 Novembre 2020 da namy0000
 

Scarpe distrutte dal cammino e scarpine da bambini. Indumenti. Ma anche tubetti di dentifricio, K-way, auricolari, schede telefoniche, zaini… tutti oggetti di uso personale che, abbandonati lungo i sentieri, raccontano storie di ordinaria migrazione sul confine italo-sloveno. Che parlano di quell’”ultimo tratto” prima della “salvezza”. Che portano con sé, insieme a speranze e storie a lieto fine, anche pesanti zone d’ombra e storie di violazioni di diritti che stonano con la bellezza di Trieste e dell’Italia che qui si affaccia come un respiro profondo dopo una lunga apnea…

A luglio (2020) un’interpellanza parlamentare chiede di chiarire la questione, soprattutto in merito ai possibili respingimenti verso i Paesi confinanti di persone richiedenti protezione internazionale (giuridicamente parlando, infatti, secondo l’analisi fatta dall’Associazione Studi giuridici sull’immigrazione «l’accordo in questione, firmato a Roma il 3 settembre 1996, oltre a essere stato largamente superato dall’evoluzione del diritto dell’Ue intervenuto negli ultimi 20 anni, in ogni caso non si applica ai richiedenti asilo»).

La risposta arriva, secca, in un inciso: «Anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere protezione internazionale a eccezione delle persone appartenenti alle categorie dei cosiddetti vulnerabili e dei soggetti che risultino registrati nel sistema Eurodac (il database europeo delle impronte digitali per chi chiede asilo politico o soggiorna irregolarmente in territorio Ue ndr)». Le rassicurazioni della Polizia di frontiera che parlano di «massima attenzione alle persone più vulnerabili, ai minori e alle famiglie con bambini e di screening sanitario per tutti i migranti intercettati, per contrastare la diffusione del Covid-19», devono però fare i conti con le sempre più numerose testimonianze di chi, giunto a Trieste dalla rotta balcanica, identificato e fotosegnalato, informato sulla possibilità di chiedere la protezione internazionale grazie alla presenza di un interprete e avendo manifestato l’intenzione di farne richiesta, senza un motivo né un provvedimento scritto, è stato caricato su un furgone e consegnato prima alla polizia slovena, poi a quella croata (in molti casi pure picchiato, torturato e umiliato) e, infine, scaricato in Bosnia. Fuori dalla Ue: “Riammesso”, in termine tecnico.

A fare domande si rischia di restare con un pugno di mosche in mano: la Questura dice che delle riammissioni si occupa la Polizia di frontiera; quest’ultima, che pur le esegue materialmente, dice che «sono cose tecnico-giuridiche, politiche, che è più opportuno chiedere al prefetto». Il prefetto interpellato non risponde…

«Da maggio di quest’anno è come se fossimo stati travolti da un terremoto dovuto a scelte politiche», spiega il presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) «le condizioni di arrivo delle persone in questi mesi sono nettamente peggiorate, segno che è in atto una violenza molto grave a loro carico lungo la rotta balcanica. E su questo esistono dettagliati rapporti di Medici senza frontiere e di RiVolti ai Balcani…È come se esistesse un sodalizio per violare la legge ed espellere le persone fuori dall’Unione europea. Nel silenzio generale…».

Nella penombra autunnale di piazza della Libertà, quella che si apre davanti alla stazione ferroviaria di Trieste, l’associazione Linea d’ombra insieme ai medici di StradaSiCura, continua la propria azione umanitaria chinandosi, letteralmente, su piedi e gambe dei migranti di passaggio, feriti dal lungo viaggio e dalle violenze. Quelli che, di fatto, passano in città quasi come fantasmi per dirigersi altrove. C’è chi ha provato a manifestare, con toni e modi squadristi, il proprio disappunto. Ma la solidarietà, come l’acqua del mare che sciaborda poco lontano, non si ferma (FC n. 46 del 15 novembre 2020).

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