Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Gennaio 2019

Società del benessere

Post n°2920 pubblicato il 31 Gennaio 2019 da namy0000
 

Le scrivo per esporle una situazione che nel piccolo è lo specchio della realtà che ci circonda, nella società del benessere. Mi chiamo Antonio. Ho 56 anni, un impiego, una vita normale. Sono divorziato, non ho figli.

Nel benessere, spesso non siamo più in grado nemmeno di portare avanti una famiglia, il più piccolo nucleo naturale di comunità; nello stesso tempo, ci indigniamo se nelle realtà più grandi, dal condominio, alle comunità locali, alla comunità nazionale, non tutti pensano all’interesse comune, ma al proprio tornaconto personale, senza scrupoli, anche a costo di danneggiare e screditare altre persone.

Nel 2000, sono stato lasciato da mia moglie che è rimasta a vivere nella casa comune. Da allora a tutt’oggi, a distanza di quasi vent’anni, un certo numero di persone vicine alla sua famiglia di origine mi hanno tolto perfino il saluto. Tutte persone cattoliche, che ogni domenica si accostano per ricevere la Comunione alla Messa; una donna, tra queste, distribuisce perfino l’Eucaristia. Vorrei domandare a queste persone: ma io cosa vi ho fatto? Cosa vi ho mai detto di male? Cosa mi avete visto fare o dire di male a qualcuno? E specifico: visto o sentito di persona, con i vostri occhi e con le vostre orecchie, non raccontatovi da altri. vi ringrazio se soltanto riuscirete a trovare l’umiltà per farvi un esame di coscienza. Ecco che allora emergerà che siete arrivati al punto di non salutarmi più per tutti questi anni per qualcosa che vi siete sentiti soltanto raccontare. Vi rendete conto che si è degli “infami” a calunniare e screditare altre persone esclusivamente per apparire migliori? Del male che si può fare agli altri?

Del resto, la mia ex moglie e la sua famiglia di origine, cattolici molto praticanti, ci hanno sempre tenuto a “sentirsi” delle persone esemplari, dei modelli da seguire. A oggi, però, la mia ex moglie convive nella nostra casa con il suo amante, forse anche nuovo marito. E per continuare a essere “un esempio” la cosa più facile è screditare, calunniare e prodigarsi per continuare a dare l’immagine di sé di una povera e umile vittima delle circostanze. Per continuare ad apparire, anziché essere. Ed è la cosa peggiore. L’umiltà, questa parola usata e abusata da lei. Ci si deve rendere conto che è necessario essere umili nella vita di tutti i giorni, a cominciare dalla nostra, è troppo comodo essere umili soltanto a parole.

Mi farebbe piacere se lei potesse pubblicare questa mia lettera. Delle cose, anche se molto semplici ed elementari, non vengono nemmeno recepite da chi è convinto, dall’alto della propria falsa umiltà, di essere “nel giusto”, e procede imperterrito nelle proprie convinzioni – Antonio (Lettera pubblicata da FC n. 4 del 27 genn. 2019).

 
 
 

Vivere controcorrente

Post n°2919 pubblicato il 28 Gennaio 2019 da namy0000
 

Il mondo ha bisogno di persone che nuotino controcorrente, aprano nuove strade del pensiero, che altri non sono capaci di percorrere (William Joyce).

Cerca sempre di essere l’originale di te stesso, non la brutta copia di qualcun altro (Kurt Cobain).

Ogni Trovarsi immerso nel conformismo, è il modo di piacere a tutti, eccetto che a te stesso (Gerry Brown).

Chi cammina dietro le tracce di un altro, non lascerà la sua impronta (proverbio cinese).

Sono i pesci morti che seguono la corrente: gli altri nuotano controcorrente (Malcom Ridge).

Solo l’uomo che nuota controcorrente, ne può conoscere la forza (Thomas Wilson).

Hai presente il vento? Molte persone vanno dove soffia alle spalle; andare controcorrente è il privilegio dei più forti (Angela Brozzi).

La libertà è di chi ha il coraggio di andare controcorrente, per rimanere sé stesso (Daniela Orsilia).

Continuare ad imparare è come andare controcorrente: appena smetti, torni subito indietro (Confucio).

A forza di seguire la corrente, si rischia di cadere in una fogna (Michael Connolly).

Il mare di stupidità in cui viviamo è così vasto, che si aprono occasioni sempre più interessanti per andare controcorrente (Carlo Livraghi).

 
 
 

In tempi buissimi come questi

Schiacciate da un pregiudizio molto forte e apparentemente ben informato (nella realtà dei fatti invece del tutto ipotetico e senza grandi prove) il valore delle nostre relazioni in rete viene ogni giorno messo in discussione per le ragioni più varie. Il retropensiero più comune che mi pare possa essere riconosciuto dietro simili pregiudizi è che le masse, il popolo, le persone semplici, nel loro contesto abituale, siano un soggetto culturalmente deludente, poco affidabile e, soprattutto, facilmente influenzabile. Da destra e da sinistra mai come oggi, nei tempi del disvelamento digitale delle opinioni di ciascuno attraverso le piattaforme digitali, la critica alle debolezze comunicative della ggente è tanto forte e sicura.

La fase di liberazione digitale, iniziata con grande entusiasmo vent’anni fa, sembra andare verso la sua naturale conclusione. Una specie di restitutio implicita alle attitudini degli “specialisti”, ancor più paradossale nel periodo in cui ogni élite sembra essere messa in discussione. Comunicare – ci suggeriscono sottovoce in molti – è una professione. Quando non lo è – e oggi non lo è quasi mai – nascono i disastri.

Così io – pressato da gentili inviti di segno opposto – mi stavo chiedendo: a cosa serve che io comunichi alla mia cerchia di contatti di rete con enfasi impressioni ed indignazioni, stigmatizzi comportamenti vergognosi o notizie marginali significative se, ad ogni passo, qualcuno mi spiega più o meno gentilmente la fallacia di simili atteggiamenti?

Secondo un punto di vista che sento ripetere spesso, talvolta anche da persone che stimo molto, stigmatizzare ciò che ci indigna e fa vergognare sarebbe, fra le altre cose oltre che una prassi consolatoria ed autoassolutoria, una cessione di significato, una forma di collaborazione col nemico. Dentro questo punto di osservazione dare pubblicità a un titolo idiota di Libero o a una frase ridicola di Di Maio o a un tweet violento di Salvini sarà una maniera involontaria per potenziarne gli effetti. Questi effetti, ovviamente, non riguarderanno me ma un’indistinta platea di individui che apprenderanno da me simili argomenti e li faranno propri.

Ora, sebbene io non discuta su una simile plausibile possibilità, anche se temo non esista alcuna occorrenza numerica al riguardo che sancisca l’effetto complessivo di un simile scenario – detto in altre parole: portatemi i numeri di quante persone hanno iniziato ad acquistare Libero e di quante hanno smesso di acquistarlo dopo che io, come tanti, ho sottolineato su Twitter la miseria delle sue prime pagine – altri aspetti sociali andranno forse compresi nel momento in cui mi si chiede di non dare voce ai peggiori.

E senza addentrarsi nelle discussioni intellettuali, oggi molto di moda, sull’indignazione e sulla vergogna, discussioni che personalmente trovo spesso oziose, elitarie e per quanto mi riguarda poco convincenti, due cose mi colpiscono e mi paiono rilevanti. La prima è che non esistono ricette comuni. E non esistono perché in rete cambiano continuamente i contesti, i numeri, gli ambienti di riferimento. La comunità di persone in ascolto della quale ognuno di noi fa parte è differente da quella di chiunque altro: una ricetta che vada bene per tutti mi pare di difficile composizione.

La seconda, quella per me più consistente, è che le comunità digitali sono composte da particelle elementari e che suggerire di citare o non citare Libero o Di Maio, Di Battista, Renzi o Salvini sui social network a qualcun altro è una maniera gentile per sostituire il suo spazio individuale, le sue prerogative elementari. Quello che intendo dire non è che non si possa accettare buoni consigli da cari stimati amici così come da perfetti sconosciuti che si sentono “Gesù nel tempio”, ma che, comunque ed in ogni caso, qualsiasi risultato civico e divulgativo che potremo ottenere vedrà i suoi effetti sullo spazio circostante. Pochi metri accanto a noi.

E se il contesto generale ci sembra disperante e incredibilmente triste, così come a me sembra ora, sempre di quel minuscolo spazio circostante potremo occuparci. Ben sapendo che il continente complessivo che crea il senso della nostra intera comunità è un insieme di piccoli spazi circostanti e non è giustificato da nessuno di questi in particolare. Curare il nostro – almeno in rete – sarà tutto quello che potremo fare, anche in tempi buissimi come questi. A maggior ragione in tempi buissimi come questi. (Massimo Mantellini, Blog, Il Post, 25 genn. 2019).

 
 
 

Donne e indigene

La difficile condizione delle popolazioni native del Paese nordamericano è un caso internazionale

Christine Cardinal, 22 anni, dell’Alberta, in Canada, è stata vista per l’ultima volta il 13 ottobre 2016. Stava camminando verso nord. Lo scorso maggio, i suoi resti sono stati trovati nel lago Saddle, non lontano dalla riserva Cree in cui viveva. Delaine Copenace,

un’adolescente della tribù Ojibway nell’Ontario nordoccidentale, è uscita di casa per l’ultima volta il 28 febbraio 2016. Il 22 marzo il suo corpo è stato recuperato in un vicino lago.

Sua madre, Anita Ross, ancora oggi non crede al rapporto di polizia che sostiene che la figlia è rimasta intrappolata da una lastra di ghiaccio che si è rotta sotto i suoi piedi. «Come ci è arrivata? Che cosa ci faceva là da sola? La polizia dice che non lo sa. Io so che hanno cominciato a cercarla solo tre giorni dopo la sua scomparsa », ripete, sconsolata.

Essere donne e indigene comporta un alto rischio di morte in Canada.Nella nazione nota per la sua accoglienza dei migranti e per il suo basso tasso di razzismo, l’entità e la gravità della violenza subita dalle donne Prime Nazioni, Inuit e Métis hanno raggiunto livelli tali da costituire, secondo l’Onu, una «crisi nazionale dei diritti umani». Una crisi alla quale, nonostante le numerose richieste di azione da parte delle organizzazioni indigene, di gruppi della società civile, parlamentari e organismi internazionali, il governo canadese non è ancora riuscito a rispondere in modo efficace.

Le statistiche indicano un’incidenza sproporzionata della violenza contro le indigene canadesi. Secondo un’indagine governativa sulle dieci province del Paese, le donne aborigene sono tre volte più a rischio rispetto alle non aborigene di essere vittime di un crimine violento. Un recente rapporto di Statistics Canada rivela inoltre che il tasso nazionale di omicidi per le donne indigene è almeno sette volte superiore rispetto alle non indigene. E in almeno tre province, dove le donne amerindie costituiscono il 6% della popolazione, il 60% delle donne scomparse appartengono alla popolazione delle Prime Nazioni, Inuit o Métis. Le ragioni della crisi sono chiare a tutti gli esperti che l’hanno studiata.

Decenni di discriminazione e di ghettizzazione hanno impoverito o distrutto intere comunità indigene, esponendo molte donne e ragazze a un elevato rischio di sfruttamento. Profonde disuguaglianze nell’accesso a buone opportunità di studio e di lavoro e nella fornitura di servizi governativi hanno spinto molte donne indigene a situazioni precarie, che vanno da abitazioni inadeguate, all’abuso di alcol o droga al lavoro sessuale.

Queste stesse disuguaglianze negano anche a molte donne indigene l’accesso ai servizi necessari per sfuggire alla violenza, come rifugi di emergenza e case di transizione. Allo stesso tempo, alcuni uomini vedono le donne indigene come bersagli facili. Un esame dei dati relativi a decine di processi per stupro e omicidio, infatti, mostra che i crimini contro le indigene sono spesso motivati dal razzismo o dalla convinzione che l’indifferenza della società permetterà agli autori di sfuggire alla giustizia. Secondo Amnesty International, che ha esaminato la situazione, anche la polizia canadese dimostra profondi pregiudizi, che la portano ad ignorare le preoccupazioni dei familiari di una donna scomparsa da una riserva o a chiudere prematuramente le indagini per una morte sospetta. Il governo di Ottawa, in realtà, non ha del tutto trascurato il problema.

Nel 2010 ha annunciato di voler spendere 10 milioni di dollari in cinque anni per affrontare la violenza contro le donne indigene. Ma la maggior parte dei finanziamenti è stata destinata a iniziative di polizia che monitorano le persone scomparse in generale, senza particolare attenzione a ciò che accade nelle riserve. Inoltre, organizzazioni come l’Associazione delle donne indigene del Canada continuano ad affrontare un clima di finanziamento incerto con lunghi ritardi e tagli.

Nel 2013, tre organismi internazionali sui diritti umani hanno condotto visite in Canada per indagare sulla crisi: prima la Commissione interamericana per i diritti umani, seguita dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e da James Anaya, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Quest’ultimo, alla fine di un’ispezione di 13 giorni, ha concluso che il Canada ha «affari incompiuti che richiedono azioni urgenti». Anche Dubravka Simonovic, relatore speciale Onu sulla violenza contro le donne, nell’aprile scorso ha avuto parole dure per Ottawa. «Le donne indigene affrontano emarginazione, esclusione e povertà a causa di forme di discriminazione istituzionali, sistemiche, multiple e intersecanti che non sono state affrontate adeguatamente dallo Stato», ha detto, indicando al governo federale alcune situazioni che devono essere affrontate «con urgenza», come l’alto numero di bambini indigeni tolti ai loro genitori e la presenza eccessiva di donne indigene nel sistema carcerario.

Non solo le istituzioni internazionali, ma anche nove Paesi, tra cui la Nuova Zelanda, la Norvegia e la Svizzera hanno invitato il Canada a sviluppare un piano d’azione nazionale per affrontare la violenza. In risposta, nel 2016 il Canada ha istituito una commissione per lo studio delle cause e delle soluzioni alla scomparsa e uccisione delle donne indigene. I gruppo di cinque esperti avrebbe dovuto concludere i suoi lavori alla fine del 2018, ma ha chiesto un’estensione.

Le associazioni dei diritti dei popoli aborigeni canadesi hanno reagito con perplessità al prolungamento dei lavori, sottolineando di aver già presentato richieste chiare alla commissione. Sarah Hunt, docente di Indigenous Studies della Università del British Columbia, cita ad esempio azioni immediate, come la creazioni di rifugi nelle riserve per le vittime di violenza domestica, migliore trasporto pubblico nelle zone rurali e alloggi più accessibili. Hunt ammette che il governo Trudeau ha già ordinato alcune misure, «ma poi quando arriva il budget, vediamo che gli stanziamenti sono programmati per il 2021», dice.

Qualcuno in Parlamento, come Lillian Dyck, la prima senatrice canadese di discendenza aborigena, ha proposto come soluzione pene più severe per chi commette crimini violenti nei confronti delle donne delle riserve. Ma lei stessa ha ammesso che il 66% dei colpevoli sono uomini indigeni. Chiuderli in cella per periodi di tempo più lunghi, in carceri già traboccanti di indigeni, è una cattiva idea, sostengono leader delle Prime Nazioni da anni chiedono invece più sostegno familiare, trattamento delle dipendenze, formazione professionale e una migliore istruzione. Perry Bellegarde, presidente dell’Assemblea delle Prime Nazioni del Canada, ammette infatti di non poter fare molto più che continuare a chiedere aiuto a Ottawa.

«L’Indian Act del 1876 ha formalizzato una relazione in base alla quale gli aborigeni ricevono alloggio, istruzione e cure mediche e vivono in enclavi collettive isolate. Sopravviviamo come comunità finanziate dal governo, senza il diritto di possedere le nostre case o le nostre terre. Questo ci costringe a una vita di dipendenza. Siamo impotenti di fronte a questa tragedia. Il governo federale storicamente ha creato le condizioni in cui si trovano le nostre riserve e le nostre donne, ma non abbiamo altra risorsa che chiedere ancora l’aiuto del governo». (Elena Molinari, Avvenire, sabato 26 gennaio 2019)

 
 
 

E' ora di salvare l'Amazzonia

Post n°2916 pubblicato il 25 Gennaio 2019 da namy0000
 

2019, Internazionale n. 1290 del 18 genn.

Il mondo ha un problema con il Brasile, ma anche il Brasile ha un problema con il mondo. Si tratta della foresta amazzonica: il paese latinoamericano la vuole sfruttare, la comunità internazionale la vuole preservare. Entrambe le parti hanno ragioni valide. Il Brasile ha legittimi interessi nello sviluppo del suo territorio. Il presidente Jair Bolsonaro vuole abbattere la foresta per fare spazio ai terreni agricoli e vuole costruire miniere, dighe e strade per portare commercio e industria verso l’interno del Paese, anche se questo comporta la distruzione dell’ambiente. La comunità internazionale, invece, vuole proteggere la foresta. E non solo per riguardo al milione scarso di indigeni a cui la legge brasiliana assegna un settimo del territorio del Paese, e che ci vivono in modo assolutamente sostenibile. È in gioco il futuro della Terra: la foresta è decisiva per limitare il riscaldamento globale.

Il dilemma è serio per entrambe le parti. Ma la comunità internazionale sa che non può permettersi di ignorare la foresta amazzonica come ha fatto con altre regioni. È nell’interesse di tutti, anche del Brasile. Perché anche il Paese latinoamericano ha interesse a evitare che la deforestazione provochi una catastrofe per il Pianeta. Per questo è allarmante che Bolsonaro voglia cancellare i limiti della deforestazione.

Ci sono varie proposte su come il Brasile potrebbe gestire lo sviluppo senza toccare la foresta, e su come potrebbe essere ricompensato per questo. non c’è tempo da perdere se vogliamo evitare la catastrofe imminente, e il mondo non può permettersi di tirarla per le lunghe con discussioni inconcludenti. Bisogna agire subito. Dobbiamo fermare la distruzione della foresta amazzonica. Dobbiamo portare il Brasile dalla parte di quelli che vogliono difendere il clima.

 
 
 

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