Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Marzo 2021

Ha sbagliato mira

Post n°3554 pubblicato il 19 Marzo 2021 da namy0000
 

2021, AGI 18 marzo

Carro armato sbaglia mira e fa strage di galline

Il mezzo da combattimento corazzato dell'Esercito era impegnato in un'esercitazione di tiro, in un poligono riservato alle Forze armate sul torrente Cellina, in Friuli Venezia Giulia

Un carro armato dell'Esercito, impegnato in un'esercitazione di tiro, in un poligono riservato alle Forze armate sul torrente Cellina, ha sbagliato mira e ha centrato un allevamento di galline di Vivaro.

L'incidente si è verificato nel pomeriggio di mercoledì ieri, ma i titolari dell'azienda agricola si sono accorti degli ingenti danni provocati dal colpo soltanto nella mattinata di giovedì 18, entrando nel capannone. Numerose galline sono morte nello scoppio e nel crollo di una parte del manufatto che le ospitava.

La Procura di Pordenone ha aperto un'inchiesta. I carri armati impegnati nell'esercitazione - sarebbero almeno 4 - sono stati posti sotto sequestro. La zona dove si trova l'allevamento è alla prima periferia del paese. Indagini da parte dei Carabinieri di Spilimbergo. 

 
 
 

Libro Un'amicizia

2021, Daniela Palumbo, Scarp de’ tenis, Febbraio.

Silvia Avallone. I social ci obbligano solo ad apparire: «Torniamo a vivere»

Le due protagoniste del suo nuovo romanzo vivono in maniera nettamente opposta l’epoca di transizione dall’analogico al digitale. «In rete assistiamo alla continua competizione a chi è più felice, a chi mostra di potersi permettere la vita più luminosa. Ma sappiamo che è un mondo artificiale e falso».

In Un’amicisia (Rizzoli), di Silvia Avallone, Elisa e Beatrice sono amiche nell’età in cui tutto può accadere. E accade che, seppure distanti anni luce, loro due si amino follemente e cambino insieme vivendo in un’epoca di transizione, da quella analogica a quella digitale. Elisa ne resta in un certo senso lontana, sempre folgorata dall’amore per la cultura con la C maiuscola. Per Beatrice i social diventeranno il trampolino di lancio per catapultarsi nel successo dell’effimero. Si ritrovano adulte, divise, ma forse mai del tutto.

Il tuo sguardo sull’adulto è meno “affettivo”. I grandi mancano di qualcosa, rispetto alla pienezza (seppure dolorante e rabbiosa) dell’adolescenza…

Ho una sfacciata predilezione per quest’età. Ma non la ritengo idilliaca. Anzi, piena di fragilità e di contraddizioni. Ma ha una luce speciale, che le altre età non hanno. Penso che ci si debba prendere molta cura degli adolescenti perché è l’epoca in cui si nasce un’altra volta. Prima si nasce dai genitori e poi, in adolescenza, si sceglie cosa si vuole diventare, si inizia a nascere come persone, distaccandosi dalla famiglia. È una separazione dolorosa, ma anche energica, luminosa. Amo raccontare l’amicizia nell’adolescenza perché è il laboratorio dell’identità. Ti specchi nel volto della tua migliore amica e capisci chi vuoi essere, tradisci con lei o lui la tua famiglia e questo per me è un tradimento sano, giusto, che i ragazzi e le ragazze sono chiamati a fare. E poi è l’età delle prime volte, il talento, l’amore, l’amicizia. E certo, ti lanci senza cicatrici ancora. Le delusioni devono arrivare. In questo senso, diventare grandi è anche una perdita. E a quel punto il lavoro che devi fare è accettare te stesso con i limiti che prima non avevi visto.

…….

La pandemia ci ha già cambiati? È un bene o un male?

Questa pandemia è stato un secondo spartiacque. Il primo è stato la rivoluzione tecnologica di cui parlo nel libro. Questo secondo, inatteso grande cambiamento, potrebbe essere un grande monito a recuperare una dimensione di presenza che prima, già nella normalità, avevamo dimenticato. Niente a distanza è la stessa cosa. Meno che mai la scuola. Certo, la tecnologia ci ha aiutati tantissimo, ma non possiamo fare a meno della comunità, della condivisione in presenza. Veniamo da un’epoca di fortissimo individualismo e io spero che questa assenza del mondo, del fuori, degli altri, della terra, dei luoghi, della natura, cambi la nostra mentalità. Io mi sento interrogata come cittadina che deve prendersi cura del proprio Pianeta e della propria comunità. Noi stiamo pagando una cattiva gestione del nostro ambiente, ma anche una cattiva gestione del nostro ambiente, ma anche una cattiva gestione fra di noi, indaffarati in un angolino a farci i selfie.

Quando (forse!) passerà, spero che saremo affamati e assetati per le cose della vita che mancano oggi. E soprattutto che non le daremo più per scontate.

 
 
 

In democrazia serve umiltà

2021, Avvenire 16 marzo. DEMOCRAZIA OGGI NEL MONDO

Intervista. Il politologo John Keane: in democrazia serve umiltà

«Di norma i cittadini si servono di tradizioni consolidate e di consuetudini sociali per semplificare e tenere a bada le complessità della vita. Oggi come oggi, però, populisti come Bolsonaro in Brasile, Duterte nelle Filippine, Vucic in Serbia, Babis nella Repubblica Ceca e altri ancora nel mondo fanno qualcosa di diverso: sfruttano la complessità per far levitare l’inquietudine sociale. I populisti promuovono un atteggiamento di durezza e mal sopportano i processi istituzionali di dare e avere. I loro obiettivi non hanno nulla di verificabile. Mirano a distruggere i meccanismi di controllo, bilanciamento e responsabilità pubblica, in una specie di colpo di Stato al rallentatore».

mi rendo conto di come il fuoco del populismo si alimenti della disaffezione derivante dalle attuali ingiustizie e, nel contempo, prometta di illuminare un futuro migliore. In un nome di un “popolo” fittizio, però, il populismo va politicamente all’attacco di quelli che vengono di volta in volta definiti diversi, dissidenti o addirittura nemici. Peggio ancora, le persone sono incoraggiate a schivare l’estrema complessità del mondo contemporaneo con un espediente alla Don Chisciotte, e cioè nascondendo la testa nelle sabbie di una deliberata ignoranza. Si punta a fluttuare cinicamente attraverso la vita, prendendo gli altri a male parole e trattandoli in modo aggressivo. Il populismo rafforza le illusioni più folli e si congeda dalla verità, concentrandosi sulle sciocchezze.

La democrazia monitorante La vedo come la cura più adatta per contrastare gli effetti tossici del populismo, perché permette di consolidare il rispetto della complessità da parte dei cittadini attraverso la libera circolazione di punti di vista differenti, la denuncia delle ipocrisie, la messa in discussione dei politici corrotti e con processi di analisi serrata che permettono di tenere sotto osservazione le attività dello Stato e delle industrie.

Per capire che cosa è la democrazia monitorante, Bisogna risalire al significato del verbo latino monere: mettere sull’avviso, consigliare. Con l’espressione monitory democracy ci riferiamo a una forma storicamente innovativa di democrazia, che poggia sulla rapida diffusione di molte nuove istituzioni di controllo: cani da guardia, se così vogliamo chiamarli, che all’occorrenza non smettono di abbaiare. Nella mia vita ho assistito alla nascita di oltre cento soggetti di questo tipo, sorti in contesti molto differenti, non solo in Occidente. Le prime forme di cogestione lavorativa (Mitbestimmung) si incontrano nella Germania degli anni Quaranta, i comitati per le generazioni future vengono inizialmente istituite in Galles, le cosiddette “sentinelle dei ponti” sono una specialità sudcoreana, il Sudafrica ha garantito notorietà internazionale alle commissioni per la verità e la riconciliazione, i bilanci partecipativi sono un’invenzione brasiliana. Queste realtà di monitoraggio possono attecchire ovunque, nell’ambito del governo locale o nazionale così come nella società civile e nei contesti di frontiera. Favorendone il cambiamento.

oggi l’istanza etica che presiede alla democrazia monitorante è quella di “una persona, molti interessi, molti voci, voti molteplici, molteplici rappresentanti”. A queste condizioni, la democrazia non si esaurisce più nel libero processo elettorale, ma comporta un percorso molto più complesso. Nel momento in cui tengono in costante stato d’allerta aziende, governi, partiti, politici e governi eletti, questi nuovi cani da guardia possono denunciare gli abusi di potere, indurre gli esecutivi e le imprese a cambiare le rispettive agende, talvolta perfino condannare alla riprovazione generale.

Non dobbiamo dimenticare che la democrazia monitorante non è mai un progetto concluso e non può promettere di portare il paradiso in terra. Tuttavia, laddove il modello funziona ragionevolmente bene, troviamo sempre leader politici non corrotti, cittadini animati da forte senso civico, numerose piattaforme mediatiche e numerosi organismi di controllo pronti a contrastare ogni abuso di potere. Non meno importante, come ho cercato di dimostrare in Potere e umiltà, è la riconsiderazione accurata dei motivi originari della democrazia monitorante così come è emersa nel corso degli anni Quaranta del secolo scorso. Allora circolava un’energia oscura, scatenata dal tremendo massacro della guerra, dalle dittature, dai totalitarismi. In quella fase, sfidando la cupezza cosmica di quanto stava avvenendo, l’universo di senso della democrazia subì un’espansione straordinaria. Thomas Mann diede voce a questo sentimento insistendo sulla necessità che la democrazia rinnovasse «la coscienza spirituale e morale che ha di sé». Fu proprio in questo decennio che si cominciò a immaginare e a costruire un altro modello, che scacciasse i demoni di un potere incontrollabile e arbitrario. Lo comprese bene C.S. Lewis, quando respinse l’idea ingenua per cui la democrazia sarebbe la forma di governo migliore perché permette alle persone di avvantaggiarsi delle rispettive quote di rappresentanza. La vera importanza della democrazia, sosteneva Lewis, sta nel fatto che, essendo gli esseri umani creature fallaci, a nessuno può essere consegnato un potere esente dal controllo. In questo senso la democrazia è l’arma migliore per contrastare gli abusi, compresi i misfatti perpetrati da leader che, avendo vinto le elezioni, pretendono di agire nel nome di un fantomatico “popolo sovrano” (Lewis pensava a Hitler e a Mussolini).

Siamo abituati a concepire la sovranità in termini di demarcazione territoriale, in particolare con il riferimento agli Stati: la democrazia canadese, della Francia, dell’India. La collocazione geografica parrebbe essere il luogo in cui la democrazia si manifesta, un po’ come se fosse il suo indirizzo postale. A dispetto di quanto vogliano sostenere i nazionalisti e gli antiglobalisti di oggi, il problema che è ormai ogni democrazia territoriale agisce in condizioni di post-sovranità. Il contagio da Covid-19 è l’ennesima conferma di quanto le reti mondiali di interdipendenza, sorrette da flussi di informazione digitali ravvicinati nello spazio e nel tempo, non consentano più alle singole democrazie territoriali di rimanere splendidamente isolate rispetto al resto del pianeta. Le famose “azioni a distanza” di Einstein, i salti di specie e gli effetti-farfalla sono una realtà incontestabile. Personalmente li considero come fenomeni quantici che trascinano gli ideali e le pratiche della democrazia tradizionale in una crisi al rallentatore, la cui soluzione può consistere solamente in un ripensamento delle pratiche democratiche in modalità quantiche, appunto, ossia più fluide e capillari. Il mio auspicio è che il sentimento democratico si sviluppi in geometrie nuove. Riandiamo alla duplice convinzione per cui la Terra sarebbe stata piatta e posta al centro di un piccolo universo immutabile e limitato. Dopo di che, pensiamo a come ci stiamo finalmente sbarazzando del pregiudizio per cui gli esseri umani si troverebbero in una posizione separata e predominante nei confronti degli animali e di ogni altra specie vivente, o ancora al modo in cui Carlo Rovelli ci ha mostrato quanto la nostra visione convenzionale, che fa della realtà qualcosa di oggettivamente osservabile e fattuale, debba lasciare spazio alla consapevolezza della “realtà” come rete spaziale di eventi granulari soggetti alla probabilità e alla aleatorietà. È con questo spirito che in Potere e umiltà mi interrogo sulla possibilità che la democrazia possa esistere anche al di fuori di una cornice territoriale. Perché non immaginare la democrazia in maniera del tutto differente, come una speciale forma politica e un organico sistema di vita volti a garantire uguali opportunità all’interno di una molteplicità di contesti spaziali profondamente interconnessi? Che cosa ci impedisce di riconoscere nella democrazia un processo mai del tutto concluso mediante il quale i popoli, con il sostegno dei loro rappresentanti, giungono a governare sé stessi e il proprio ecosistema con modalità differenti, corrispondenti a differenti ritmi spazio-temporali e a regole non esclusivamente delimitate dai confini statali?

È il caso dell’Antartide?

Di solito ci si appassiona allo scioglimento dei ghiacci del Polo Sud e alle conseguenze sul cambiamento climatico, ma non si sa nulla di come sia governato questa vasta distesa di freddo. Eppure il modello dell’Antartide può aiutarci a riflettere sulla democrazia. Non soltanto rappresenta uno spazio nel quale si sono messi a punto nuovi modelli rappresentativi per la biosfera e nel quale la distinzione tra natura e politica risulta molto affievolita. Benché qualcosa di simile sia già avvenuto in Europa, questo è il primo continente che si sia formalmente affrancato dalla condizione di Stato territoriale sovrano. L’Antartide post-sovrana è un genere inedito di conglomerato governativo, regolato dal Trattato Antartico, da un parlamento in via di costituzione, dal rispetto di leggi proclamate da istituzioni che condividono il proprio potere sulla base di valutazioni trasparenti e dell’esercizio del diritto di voto. Questi strumenti di governo, insieme con gli scienziati che esercitano la propria cittadinanza agendo da cani da guardia in rappresentanza della biosfera, intrattengono con il territorio legami tutt’altro che semplici. Insomma, sì: l’Antartide è governata da una sorta di democrazia monitorante.

Uno degli esiti più singolari e inattesi di questa grande pestilenza sta nel fatto che il Paese colpito per primo può ora godere dei vantaggi tecnologici, di governo e di soft power derivanti dal fatto di essere stato anche il primo a liberarsi del virus. Ricordiamo che nel 2020 la Cina ha stretto accordi che valgono il 30% del Pil globale, un record assoluto. Nel mio The New Despotism invito a non sottovalutare l’intima capacità di resilienza e la posizione di potere espresse dalla Cina a livello planetario. Questo potrebbe essere un momento d’oro per Pechino, una seconda svolta dopo quella verificatasi all’epoca di Nixon e Kissinger, quando senza aver bisogno di sparare un colpo la Cina riuscì ad approfittare pienamente del caso negli Usa per farsi avanti per ricostruire il proprio impero, mandando in pezzi l’illusione della superiorità americana. Alcuni osservatori sono tentati dal trarre la conclusione che il “modello cinese” sia il modo migliore per affrontare eventuali pestilenze future.

Non sono di questo parere. Una manciata di governi democratici (Urugay, Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda e la stessa Australia) ha dimostrato l’esistenza di alternative efficaci. Nell’ultimo anno queste democrazie monitoranti hanno rivelato di avere qualcosa in comune. Sostenuti da messaggi chiari e inequivocabili diffusi sui social media, questi governi hanno provveduto a chiudere progressivamente scuole, bar e ristoranti, centri commerciali e altri luoghi pubblici. Il rilevamento digitale è stato impiegato per individuare e bloccare le catene di trasmissione del contagio. Tutte le decisioni governative sui provvedimenti da adottare sono passati al vaglio della valutazione scientifica. Di norma si è fatto ricorso ad accertamenti clinici su larga scala, a strumenti sofisticati di tracciamento e al confinamento delle comunità in cui erano presenti malati. Nel momento in cui l’infezione risultava incontrollabile, sono state avviate campagne mirate di test molecolari e di rilevamento digitale, che hanno permesso a una serie di categorie, dagli anziani agli insegnanti, dalle squadre di calcio alle équipe mediche e ad altri gruppi di cittadini, di tornare rapidamente alla loro vita sociale, con costi governativi molto ridotti. L’elemento davvero interessante è che i processi di diagnosi precoce e di allerta digitale messi in atto dai governi hanno ribadito quanto sia cruciale la trasparenza. All’opposto, lo stile di governo alla Boris Johnson, con le sue decisioni alla cieca, ha generato confusione, accentuato la disparità nell’accesso ai test e ai dispositivi di protezione individuale, portato a chiudere un occhio sulle violenze domestiche consumate durante la quarantena. Il risultato? Milioni di contagi, centinaia di migliaia di morti evitabili. Una delle principali lezioni di quest’anno è che la trasparenza governativa attribuisce un nuovo significato all’antico adagio di Socrate, secondo il quale una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Servendosi di strumenti digitali, i Paesi sopra ricordati si sono attenuti a quel “pensiero nell’emergenza” che secondo Elaine Scarry consente di assicurare “eguaglianza nella sopravvivenza”. Questi governi hanno affrontato il picco e abbassato la curva non solo attraverso chiusure di confini e di istituzioni. Il segreto del loro successo sta nel dichiarato coinvolgimento e nella responsabilizzazione dei cittadini, puntualmente invitati a fare la loro parte. Così si è incentivata la vigilanza di vicinato e si sono allestiti presidi santari di drive-through, si sono offerte ogratuitamente mascherine e disinfettanti, si sono indotte le società di big data e di telefonia mobile a condividere informazioni, si sono incoraggiati comportamenti di autodiagnosi e di segnalazione dei sintomi. Il tutto con l’obiettivo di corroborare la fiducia e la solidarietà sociale durante la crisi.

Ora come ora la mia maggior preoccupazione riguarda i tentativi di scatenare una guerra contro la Cina. Vivo in quell’area geografica e posso assicurare che la distruzione del regime di Pechino rappresenta la priorità di molti “falchi”, persuasi che la Cina sia un castello di carte da far volare in aria con uno schiocco di dita. Un’altra Guerra fredda, ecco che cosa vogliono. Sono convinti della superiorità della democrazia di matrice statunitense, sostengono che la Cina sia un drago minaccioso, responsabile di una pandemia e pronto a rubare altri posti di lavoro. Alimentano l’ostilità contro il “totalitarismo” e l’”autoritarismo” del regime comunista. Dal mio punto di vista, Questi attacchi sfrenati guardano con sufficienza alle disastrose conseguenze che la caduta di Pechino avrebbe su scala globale. Nell’epoca degli arsenali nucleari evocare uno scontro militare è una follia. Gli storici definiscono “trappola di Tucidide” la convinzione che un conflitto armato diventi pressoché inevitabile quando un impero nascente ne sfida uno già consolidato. Ma questa trappola esiste solamente nella testa dei nuovi paladini della Guerra fredda. Per trattare con la Cina occorrono strategie più realistiche, nella logica di quello che mi piace chiamare “non allineamento agile”. È un atteggiamento che presuppone un impegno di cooperazione critica con la Cina in campi quali lo sviluppo delle infrastrutture, la ricerca scientifica, l’alta formazione e le energie rinnovabili. Il non allineamento agile prende atto del fatto che, non essendo oggi possibile trovare una soluzione ai problemi planetari senza il sostegno della Cina, la collaborazione con questo Paese fatalmente destinata a subire alti e bassi. Gli accordi commerciali saranno prevedibilmente spinosi, come conferma l’esperienza dell’ex premier australiano Kevin Rudd: quando si arriva al negoziato con la Cina, con i suoi alleati e con i suoi avversari, diceva Rudd, una vera amicizia duratura (è il concetto di zhèng you) si edifica solo su un’incrollabile franchezza e sulla piena consapevolezza degli interessi e degli obiettivi fondamentali. Solo così si possono raggiungere risultati positivi. Rompere con la Cina non è necessario. Anzi, sarebbe un’impresa insensata e autodistruttiva.

Le virtù democratiche sono molte: pazienza, misericordia, coraggio, rispetto degli altri eccetera. Lo stesso vale per l’attitudine al compromesso, che secondo un antico proverbio tedesco è l’arte di dividere la torta in modo che ciascuno si convinca di aver ottenuto la fetta più grande. Tutto considerato, però, la virtù cardinale è proprio quella dell’umiltà. Uso la parola italiana perché per me è stato molto significativo l’incontro con Norberto Bobbio e il suo Elogio della mitezza. Come lui penso che le democrazie abbiano bisogno di cittadini democraticamente virtuosi e che, prima ancora, poggino sulle fondamenta delle virtù. Mi convince meno il suo inno alla mitezza, che Bobbio considerava alla stregua di una virtù sempre in balia della politica, intesa come lotta potenzialmente violenta condotta attraverso le strutture statuali. L’umiltà è altro e non ha nulla a che vedere con la sottomissione del gregge. L’umiltà sa sempre opporsi all’arroganza del potere, è la consapevolezza dei propri limiti e di quelli altrui e, insieme, è l’assunzione di responsabilità affinché il riconoscimento e il rispetto di questi limiti siano universalmente garantiti. Le persone umili si percepiscono come abitanti della terra, nel senso di humus, terreno, che è la radice della parola umiltà. Si rendono conto di avere un debito verso il mondo non umano, sanno di non essere onniscienti, di non esseri dèi oppure dèe, meno che meno Dio. L’umiltà è l’esatto opposto del desiderio smodato di conseguire un potere predatorio, e in questo si distingue dall’umiliazione. L’umiltà incoraggia, rafforza chi non ha potere, conferisce un’energia interiore che permette di agire al cospetto del mondo. Detesta l’arroganza, la dismisura, così come la violenza e i violenti, sempre convinti che la ragione stia dalla loro parte. L’umiltà si irradia alla presenza degli altri, in modo quieto e gioioso. È una virtù sociale, una forma di generosità. Giustamente sant’Agostino sosteneva che, lì dove si trova l’umiltà, si trova anche la carità. Le persone umili, in definitiva, vivono nella democratica convinzione che il mondo possa essere un posto migliore, più tollerante e più ispirato all’uguaglianza.

 
 
 

Ripartire dal capitale umano

2021, David Lazzari, HuffPost 15 marzo.

Lo spirito del Rinascimento per ripartire dal capitale umanoRicordiamoci il significato profondo dell’Uomo Vitruviano di Leonardo: ripartiamo da qui per dare linfa alla psiche degli italiani

Siamo tutti consapevoli che da anni l’Italia appare un paese in difficoltà, ripiegato su sé stesso. Che cerca di guardare a modelli considerati più virtuosi per uscire dalla stagnazione e rilanciarsi.

Il post pandemia, se la storia non si smentisce per la prima volta, produrrà una accelerazione nei processi sociali ed economici e chi stava indietro dovrà accelerare ancora di più per non rendere il gap drammatico ed essere troppo penalizzato nelle dinamiche internazionali.

Noi arriviamo a questo appuntamento con diverse evidenti criticità, come l’eccessiva burocratizzazione, una visione economica spesso miope, la grave carenza di infrastrutture sociali adeguate e moderne. Pubblica amministrazione e servizi pubblici, come la scuola, la sanità, il welfare, i servizi per il lavoro, sono stati considerati più una spesa passiva che un fattore di sviluppo.

Questa logica ha penalizzato il Paese perché non si è compreso la forte interdipendenza che esiste tra economia e capitale umano, e come va inteso quest’ultimo.

L’idea che il capitale umano sia il frutto di crescita spontanea, che non necessità di investimenti o che sia solo la somma di un budget informativo (trasferimento di nozioni) o dell’economia è fuorviante. L’italica arte di arrangiarsi, il “genio” italico, è una ottima base ma da solo non basta più, ha bisogno di investimenti mirati.

La mancanza di supporti e strutture efficaci per lo sviluppo degli individui e della comunità incide molto non solo sul clima sociale ma anche sulla capacità delle persone e della società nel suo complesso. La storia dell’umanità mostra come lo sviluppo sociale ed umano ha comportato la necessità di investimenti mirati pubblici in settori prima lasciati al dominio privato ed individuale: la scuola o la sanità pubbliche sono esempi eloquenti di questo tipo. Garantire un certo livello di istruzione o di cure è diventato ad un certo punto della storia un’esigenza di promozione e competitività di una società nel suo complesso.

In questa prospettiva una società “libera” ma anche “civile” non può certo dire ai singoli che cosa devono fare della loro vita, deve però rendere disponibili strumenti per fare in modo che le persone possano fare al meglio i loro percorsi di vita, sviluppare ed esprimere le proprie potenzialità. Fornire questo supporto al fattore umano vuol dire aumentare il capitale umano nel suo complesso e quindi divenire più ricchi come Paese di una fondamentale materia prima, moltiplicatore basilare di ogni progresso sociale, culturale, tecnologico ed economico.

La “madre” Grecia ci ha consegnato un seme: “conosci te stesso” e “l’uomo è la misura di tutte le cose” che, a Roma prima ed in Italia poi, ha dato i suoi frutti più potenti, arrivando sino a far sbocciare quel Rinascimento che si basa sulla valorizzazione della dignità e della capacità umana, sulla possibilità dell’uomo, attraverso la conoscenza di sé e della realtà, di costruire nuove visioni e nuove prospettive.

“Fattore umano”, cuore del Rinascimento, significa tutto ciò che caratterizza il sapiens sapiens rispetto alle altre specie: ovvero la sua psiche, quella potente dimensione capace di dare identità e specificità al singolo, di trasformare gli accadimenti in esperienze e memorie personali, di darci le facoltà per essere coscienti di noi stessi e della nostra vita e le capacità per organizzarla. La psiche è il luogo che mette in relazione, che integra tutti gli aspetti della nostra realtà e della nostra vita: tra biologia e contesto, tra situazioni ed emozioni, tra sentimenti ed affetti, tra un “io” e gli altri.

Così un organismo biologico diventa una persona e un corpo vissuto, un insieme di situazioni diviene una storia personale, così si costruisce il mio (o il tuo) modo di vedere e affrontare le cose, così, in definitiva, una vita biologica diviene una esistenza dotata di scopo.

Dopo la seconda guerra mondiale molti Paesi occidentali hanno capito che lo sviluppo psicologico era la base del capitale umano e doveva diventare un investimento pubblico: hanno così cominciato a rendere disponibili strumenti ad hoc nell’ambito della scuola, del lavoro, del welfare e della sanità. Non a caso la Psicologia è una delle sette scienze “hub” più influenti.

Ma in Italia questo, purtroppo, non è avvenuto, per fattori culturali che non possiamo approfondire in questa sede.

Viviamo in una società che ha amplificato le complessità e sviluppato nuove sensibilità e bisogni in questo campo, che richiede strumenti psicologici molto più complessi del passato per orientarsi e realizzarsi, mentre i tradizionali contesti e percorsi “naturali” per acquisirli si sono frammentati ed indeboliti e si rivelano sempre più insufficienti.

E dobbiamo affrontare quella che Jeremy Rifkin chiama (prima della pandemia) “l’età della resilienza”, pensando alle indispensabili transizioni ecologica e digitale, che – attenzione – saranno delle “transizioni umane” di portata storica, con enormi implicazioni psicologiche individuali e collettive.

La pandemia ha messo a nudo l’assenza in Italia di un uso sociale della Psicologia, fattore fondamentale per ridurre gap e discriminazioni ma anche per potenziare le risorse del Paese. Non mi dilungo su questo, perché ne ho parlato in diversi altri articoli: gli italiani sono lasciati a se stessi da questo punto di vista per la mancanza di una rete pubblica per la promozione e il sostegno. Aumentando il divario tra chi può procurarsi col danaro questi servizi e chi non può.

Quello che temo è che, mentre il principale pensatore del World Economic Forum, Klaus Schawb, parla della Psicologia come risorsa fondamentale per il “great reset” che deve costruire il post pandemia, in Italia si manchi ancora una volta questo appuntamento. Che Piano di Resilienza finisca col dimenticarsi che proprio la resilienza è una capacità eminentemente psicologica, che si può sviluppare e potenziare in modo ben definito e assai vantaggioso per tutti.

Ecco perché parlo di recuperare la visione che ci ha regalato il Rinascimento, dove si è partiti dalla realtà umana, da ciò che ci rende umani, persone, soggetti, protagonisti della vita, per creare un mondo dove la bellezza si sposa con i commerci e l’economia.

Ricordiamoci il significato profondo dell’Uomo Vitruviano di Leonardo che ci guarda dalle monete da un euro: ripartiamo da qui per dare linfa alla psiche degli italiani.

 
 
 

Non ci sentiamo soli

FC n. 11 del 14 marzo

Una famiglia in quarantena

La mia famiglia è in quarantena: mio marito e due figli positivi al Covid-19, per fortuna con pochi sintomi. Io e mia figlia maggiore negative. Abbiamo spazio in casa e quindi siamo tutti qui, ma con stanze dedicate e mascherine da indossare. È una situazione strana, non difficile, ma sicuramente molto particolare. Rinchiusi da più di una settimana, stiamo sperimentando una quotidianità pacata. Recuperiamo momenti che nella vita “normale” sono sempre soffocati o ritagliati: leggere, cucinare, pregare, ma quello che maggiormente ci ha positivamente colpito è stata la presenza premurosa e costante di tanti amici.

Ci trasferimmo a Rimini circa dodici anni fa, e le nostre famiglie di origine sono lontane. Abbiamo vissuto, in questi anni, la realtà parrocchiale, lavorativa, scolastica dei nostri figli intessendo rapporti personali sinceri. Ed ecco che ora, nel “momento del bisogno”, sboccia la disponibilità di chi ci è amico e ci vuole stare vicino. Riceviamo continui messaggi o chiamate per sapere il nostro stato di salute, sappiamo che c’è chi prega per noi, si propongono di farci la spesa. Alcuni si sono persino presentati alla porta di casa portando biscottini e ravioli, altri sono andati in biblioteca a prenderci dei libri, altri ancora hanno portato le fotocopie date al catechismo o le figurine dei calciatori. Tutte piccole cose, che riempiono il cuore non facendoci assolutamente sentire soli e lontani da tutti. Ognuno di noi è strumento di Dio e il Signore ci sta mandando i suoi angeli! – Silvia M., Rimini

 
 
 

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