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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Agosto 2022

Passione per l'uomo

Post n°3760 pubblicato il 22 Agosto 2022 da namy0000
 

“Nel centenario della nascita del Servo di Dio Mons. Luigi Giussani, gli organizzatori intendono fare memoria grata del suo zelo apostolico, che lo ha spinto a incontrare tante persone e a portare a ciascuno la Buona Notizia di Gesù Cristo. Disse infatti nel suo discorso al Meeting del 1985: «Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. […] L’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la passione per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo».

A volte sembra che la storia abbia voltato le spalle a questo sguardo di Cristo sull’uomo. Papa Francesco lo ha sottolineato in tante occasioni: «La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente; ti rimette in carreggiata» (Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Città del Vaticano-Milano 2016, 31). È questo l’aspetto più penoso dell’esperienza di tanti che hanno vissuto la solitudine durante la pandemia o che hanno dovuto abbandonare tutto per sfuggire alla violenza della guerra. Ecco allora che la parabola del buon samaritano è oggi più che mai una parola-chiave, perché è evidente come «gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza […], di un amore salvifico che venga donato gratuitamente» (Intervista a S.S. il Papa emerito Benedetto XVI, in Per mezzo della fede, a cura di Daniele Libanori, Cinisello Balsamo 2016, 129).

Il Vangelo addita il buon samaritano come modello di una passione incondizionata per ogni fratello e sorella che si incontra lungo il cammino; e per questo ha un’assonanza profonda con il tema del Meeting: «Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano» (Enc. Fratelli tutti, 79).

Non si tratta solo di generosità, che alcuni hanno di più e altri meno. Qui Gesù ci vuole mettere davanti alla radice profonda del gesto del buon samaritano. Papa Francesco la descrive così: «Riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45). In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro, perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che gli conferisce con ciò una dignità infinita. A ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale» (ibid., 85).

Questo mistero non finisce mai di stupirci, come proprio Don Giussani testimoniò alla presenza di San Giovanni Paolo II il 30 maggio 1998: «“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Nessuna domanda mi ha mai colpito, nella vita, così come questa. C’è stato solo un Uomo al mondo che mi poteva rispondere, ponendo una nuova domanda: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?”. […] Solo Cristo si prende tutto a cuore della mia umanità» (Generare tracce nella storia del mondo, Milano 2019, 78).

È questa passione di Cristo per il destino di ciascuna creatura che deve animare lo sguardo del credente verso chiunque: un amore gratuito, senza misura e senza calcoli. Ma – ci chiediamo – tutto ciò non potrebbe apparire una pia intenzione, rispetto a quanto vediamo accadere nel mondo di oggi? Nello scontro di tutti contro tutti, dove gli egoismi e gli interessi di parte sembrano dettare l’agenda nella vita dei singoli e delle nazioni, come è possibile guardare chi ci sta accanto come un bene da rispettare, custodire e curare? Come è possibile colmare la distanza che separa gli uni dagli altri? La pandemia e la guerra sembrano avere allargato il fossato, facendo arretrare il cammino verso un’umanità più unita e solidale.

Ma sappiamo che la strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole: essa attraversa i tanti deserti spirituali presenti nelle nostre società. «Nel deserto – diceva Papa Benedetto XVI – si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza» (Omelia nella S. Messa di apertura dell’Anno della fede, 11 ottobre 2012). Papa Francesco non si stanca di indicare la strada che attraversa il deserto portando vita: «Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199).

Recuperare questa consapevolezza è decisivo. Una persona non può fare da sola il cammino della scoperta di sé, l’incontro con l’altro è essenziale. In questo senso, il buon samaritano ci indica che la nostra esistenza è intimamente connessa a quella degli altri e che il rapporto con l’altro è condizione per diventare pienamente noi stessi e portare frutto. Donandoci la vita, Dio ci ha dato in qualche modo sé stesso perché noi, a nostra volta, ci diamo agli altri: «Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza se non attraverso un dono sincero di sé» (Enc. Fratelli tutti, 87). Don Giussani aggiungeva che la carità è dono di sé “commosso”. In effetti, è commovente pensare che Dio, l’Onnipotente, si sia curvato sul nostro niente, abbia avuto pietà di noi e ci abbia amato ad uno ad uno di un amore eterno.

Qual è il frutto di chi, imitando Gesù, fa dono di sé? «L’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (ibid., 94). Un abbraccio che abbatte i muri e va incontro all’altro nella consapevolezza di quanto vale ogni singola concreta persona, in qualunque situazione si trovi. Un amore all’altro per quello che è: creatura di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, dunque dotata di una dignità intangibile, di cui nessuno può disporre o, peggio, abusare.

È questa amicizia sociale che, come credenti, siamo invitati ad alimentare con la nostra testimonianza: «La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo» (Evangelii gaudium, 24). Quanto bisogno hanno gli uomini e le donne del nostro tempo di incontrare persone che non impartiscano lezioni dal balcone, ma scendano in strada per condividere la fatica quotidiana del vivere, sostenute da una speranza affidabile!” (papa Francesco, messaggio per il Meeting di Rimini, agosto 2022).

 
 
 

Solidarietà

Post n°3759 pubblicato il 20 Agosto 2022 da namy0000
 

2021, Scarp de’ tenis, Dicembre

Cristina: «Incontri che segnano la tua vita».

Dobbiamo cambiare modo di intendere la solidarietà. Che non è semplicemente aiutare chi non ha, ma farsi cambiare dagli incontri con le persone. Per migliorarsi

«Solidarietà è una parola difficile per me, perché non mi piace com’è declinata nella nostra cultura: “Io che sono solidale e che ho, ti do”. Ma non è solo questo. Tutto ciò che ho ricevuto in questi anni è immenso e non sarei quella che sono senza il continuo crescere e imparare dall’altro. Per questo dico che le scelte della mia vita, più che da uno spirito di solidarietà sono state guidate da incontri con le persone».

Cristina A., presidente da oltre 20 anni della cooperativa sociale torinese Progetto Tenda e da 7 della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (fio.PSD), ringrazia ironicamente per essere stata associata alla parola solidarietà per questo numero di Scarp. Ma si presta volentieri, collegando il termine solidarietà ad altre parole-chiave che hanno caratterizzato la sua vita professionale e non solo. Ricorda il suo primo impegno sociale, quando studiava psicologia, un’attività volontaria di doposcuola per i figli delle famiglie straniere ricongiunte in Italia. Un incontro con culture diverse e una prima presa di coscienza dei meccanismi di esclusione, per ragazzini inseriti in una scuola non ancora preparata ad accoglierli.

«Sono stata accompagnata nel loro mondo, nella loro cultura e mi sono sentita davvero accolta con una forma di gratitudine pulita, semplice, fatta di piccoli gesti quotidiani».

Poi qualche anno dopo, nella cooperativa sociale, l’incontro con le donne rifugiate e vittime di tratta. «Sapevo dei loro vissuti drammatici e non riuscivo a capire come facessero a sopravvivere – racconta Cristina -, invece in loro la fiammella della vita non si era spenta».

Afferma di aver ricevuto una lezione di vita: «Non potrò mai pensare di perdere la speranza, perché se non l’hanno persa loro significa che non sarebbe giusto farlo. Con queste donne la solidarietà è stata anche apprendimento». Incontri e scambi alla base di un percorso di attività sociale: «Per me la solidarietà è questo: l’incontro che ci rende reciproci. Perché io posso aiutarti concretamente, ma tu hai la ricchezza della vita, le esperienze che io non ho e che tu mi doni. E allora per me solidarietà è reciprocità, non solo dare».

L’incontro successivo è stato con le donne senza dimora, nel primo dormitorio femminile avviato a Torino. «Emerse un mondo incredibile, venivano in quella struttura perché era riservato alle donne, si sentivano accolte e protette». Così come con le rifugiate e vittime di tratta, anche con le donne senza dimora Cristina racconta di aver vissuto la solidarietà femminile, quella “sorellanza” che non è un bel termine ma rende l’idea: «È una solidarietà diretta, spiccia, che non ha bisogno di spiegazioni, è istintiva e credo che solo tra donne si riesce a sviluppare». Da lì nacque l’impegno in fio.PSD, prima nel direttivo nazionale e poi come presidente, sui diritti e la loro esigibilità, «Perché va benissimo dare vestiti, pacchi viveri e alloggio, ma sono la dignità e i diritti i due pilastri fondanti della solidarietà, perché l’individuo ha diritto a una vita dignitosa».

Costruire dei percorsi politici affinché chi ha il potere decisionale capisca questo tema, lo assuma e si impegni a portarlo avanti, riconoscendo dignità e diritti.

Questa è diventata l’espressione di solidarietà di Cristina A. Anche perché «gli homeless non sono alieni, ma persone che per una serie di motivi si trovano in questa condizione, quindi non è pensabile non avere questo tipo di solidarietà, che non è beneficenza bensì riconoscimento dei diritti di cittadinanza». La marcia in più per svolgere con entusiasmo questo lavoro sociale, spiega Cristina, è data dallo spirito che deve rimanere quello iniziale, cioè della «partecipazione sociale e politica a una società che deve essere reciprocamente solidale». «il mio lavoro mi dà tanto, mi nutre. Poter fare qualcosa per migliorare la vita degli altri rende migliore anche la mia vita. Mi fa stare bene anche il lavorare in una cooperativa sociale, dove la distribuzione economica è più orizzontale e assume un valore di equità, che è un’altra parola che abbinerei alla solidarietà».

Così come il termine collaborazione, a cui dedica un’ultima amara riflessione: «Non ne posso più di sentir parlare della competitività del terzo settore. Non dobbiamo essere competitivi, ma lavorare assieme, riconoscendo l’altro in una logica collaborativa. Perché se non riusciamo a farlo tra Enti, difficilmente potremmo riuscire con le persone».

 
 
 

In nessun uomo alberga la Verità

In nessun uomo alberga la Verità. Ecco perché essa va cercata, quotidianamente, durante tutto il cammino della nostra vita terrena. Ecco perché nessun uomo avrà mai la Capacità di dirigere da solo le sorti della Nazione. Ecco perché sono assolutamente contraria al Presidenzialismo. C’è un detto che recita in questo modo: “Dio ci salvi da errori di sapienti: perché più sono sapienti e più gravi sono gli errori che compiono. Meglio una cattiva Democrazia alla migliore delle Dittature”.

Chi amministra la cosa pubblica deve essere UMILE; non deve essere AMBIZIOSO: l’Ambizione è la parte oscura di colui che vuole amministrare una Nazione; per questo non può e non deve un solo uomo, essere AL DI SOPRA degli altri; perciò anche una cattiva Democrazia è da preferirsi a qualsiasi “buona” Dittatura.

 

Lettura del primo libro dei re, 3,5-15

In quei giorni. A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Tu hai trattato il tuo servo Davide, mio padre, con grande Amore, perché egli aveva camminato davanti a te con fedeltà, con giustizia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai conservato questo grande Amore e gli hai dato un figlio che siede sul suo trono, come avviene oggi. Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere Giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il Bene dal Male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te. Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria, come a nessun altro fra i re, per tutta la vita. Se poi camminerai nelle mie vie osservando le mie leggi e i miei comandi, come ha fatto Davide, tuo padre, prolungherò anche la tua vita». Salomone si svegliò; ecco, era stato un sogno. Andò a Gerusalemme; stette davanti all’arca dell’Alleanza del Signore, offrì olocausti, compì sacrifici di comunione e diede un banchetto per tutti i suoi servi.

 

«Concedi al tuo servo un cuore docile!»: è la preghiera del re Salomone. «”Cuore docile” significa una coscienza, che è sensibile alla voce della Verità e per questo è capace di discernere il Bene dal Male. Nel caso di Salomone, la richiesta è motivata dalla responsabilità di guidare Israele. Ma l’esempio di Salomone vale per ogni uomo. Ognuno di noi ha una coscienza per esercitare la grande dignità umana di agire operando il Bene ed evitando il Male. Una mentalità sbagliata ci suggerisce di chiedere a Dio-Amore cose o condizioni di favore; in realtà, la vera qualità della nostra vita e della vita sociale dipende dalla retta coscienza di ognuno» (papa Benedetto XVI). Il discepolo di ogni tempo è chiamato a riconoscere come la Vera Sapienza sia dono, per questo solo nell’incontro con il Signore Gesù e nella sua sequela possiamo trovare la Vera Ricchezza della nostra vita.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 3,18-23

Fratelli, nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la Sapienza di questo mondo è Stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

 
 
 

Parole

2022, Mauro Magatti, Avvenire, 12 agosto

Siamo sommersi dalle parole. Eppure le parole non valgono più nulla. È questo il paradosso nel quale ci troviamo e che la campagna elettorale appena iniziata rende ancor più evidente. Promesse, commenti, opinioni, accuse. Si dice una cosa e il suo contrario. Tanto nessuno si ricorderà domani quello che è stato detto ieri.

Tutti parlano, gridano, esagerano per richiamare l’attenzione. Parole in libertà che non impegnano nessuno. La parola data non tiene più insieme le persone: quando viene meno la convenienza, un impegno preso può essere cambiato. Le cose che si dicono non implicano il rispetto della verità. Negli anni i cattivi maestri hanno insegnato che è vero solo ciò che raggiunge l’effetto. A prescindere da ogni referenza con il reale. Che cosa sono le fake news se non la traduzione digitale dell’uso cinico e strumentale delle parole? Se si lancia sui social una notizia falsa, caricandola di emotività e provocazione, il suo impatto comunicativo sarà comunque superiore alla rettifica che seguirà. Perché non provarci? Saper dialogare per arrivare a intendersi è un’arte sempre più rara. E così si moltiplicano i litigi che alimentano l’estenuante conflittualità tra chi si dovrebbe occupare del bene comune. Fino ad alimentare le tante guerre che insanguinano il mondo.

Viviamo in mezzo a un vero e proprio inquinamento comunicativo. Così, non sapendo più a chi credere, c’è chi cede alla tentazione di rintanarsi in nicchie chiuse dove si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo. Altri si fanno ammaliare da slogan che semplificano troppo. O addirittura da parole cariche di odio e di violenza. Nel flusso ininterrotto delle parole che, prive ormai di significato, passano senza lasciare traccia è la stessa idea di sfera pubblica il primo bene comune che viene perduto. Lo si vede in questi primi giorni di campagna elettorale: Calenda che si rimangia il patto elettorale sottoscritto due giorni prima. Azione e Italia Viva che si devono alleare, ma non si fidano l’uno dell’altro. Il Pd che negozia sottobanco con i 5S. Conte che parla come se non fosse stato parte del governo Draghi. Berlusconi che, aggiornando il suo vecchio slogan, promette «un milione di alberi». Salvini che se la prende con i migranti. Meloni che si dice pronta a risollevare l’Italia, senza però dire come. I tre che con toni diversi parlano di flat tax (al 23, al 15, incrementale), ma non spiegano quali servizi taglieranno per finanziarla. La sensazione è che i programmi siano elenchi di promesse che nessuno realizzerà mai. E dove le alleanze tra i partiti siano facciate che nascondono gelosie, rivalità, antagonismi. Destinate a disfarsi davanti alle prime curve della legislatura: come la coalizione di centrodestra, che mentre si dichiara unita a Roma, affila i coltelli per la candidatura di Palermo.

Nasce da qui la sfiducia diffusa nei confronti della politica parolaia, che parla sempre, ma combina poco. Le conseguenze possono essere molto pericolose per la democrazia. Perché laddove si smette di credere al valore vincolante delle parole, di assumersi la responsabilità di quello che viene detto, di condividere un senso che permette di dare una direzioni comune a quello che facciamo, è il potere di fatto che alla fine si impone. Senza giustificazione e legittimazione. Dissolta ogni critica nella confusione del flusso infinito delle opinioni equivalenti, è il potere di fatto, nella sua brutalità, ad affermarsi. Non si trova forse qui la ragione delle tante disuguaglianze, violenze, ingiustizie che sembrano delineare situazioni immodificabili e che perciò sembra addirittura impossibile mettere in discussione? È una malattia che si infiltra un po’ in tutte le democrazie contemporanee. A partire dagli Stati Uniti d’America, che non sono mai stati così fragili. Ma che in Italia, a causa della debolezza delle nostre istituzioni, è particolarmente grave.

Logos (parola) viene dal verbo greco legein – che significa raccogliere, rilegare. In italiano questa radice etimologica la ritroviamo in legare, rilegare, ma anche in religione. E infatti attraverso la parola che è possibile ricostruire un senso, stabilire e mantenere delle relazioni, decidere di percorrere una strada insieme agli altrimenti, ricomporre una divergenza. Senza la parola diviene impossibile allearsi, promettere e persino intendersi. Il problema è che la parola, per non essere vuota e così annichilire la realtà, esige disciplina. L’idea che la parola sia puro strumento distrugge le relazioni, il senso, il mondo. È invece la parola che ci fa esistere come persone e che ci costituisce come società.

Per questa ragione è indispensabile pretendere da coloro che si candidano a gestire la cosa pubblica il rispetto dell’intimo legame che esiste tra le parole che si dicono, quello che si conosce e quello che si fa.

Ma anche noi come elettori abbiamo delle responsabilità. Prima di tutto educandoci a non esporci a tutto, a qualunque cosa. Prima di accendere la tv o entrare nei social, verifichiamo le fonti. E impariamo ad alternare la confusione e il rumore con il silenzio e la riflessione. E poi ricordandoci che è quando siamo isolati che siamo perduti. Il discernimento è sempre il portato di una comunità di pratiche, di una vita associativa, di una esperienza partecipativa. La realtà può essere interpretata insieme. Solo con gli altri possiamo mettere alla prova le parole che usiamo e che sono usate da chi, troppo spesso, ci vuole abbindolare. Per salvare la democrazia, occorre una nuova ecologia della parola.

 
 
 

La promessa

2022, Riccardo Maccioni, Avvenire 11 agosto

Anziani, giovani e la promessa-mondo. Sì, il meglio deve venire

Il punto di partenza è dare il giusto significato alle parole. Per esempio, "attesa" che può voler dire aspettare in modo ansioso, ma anche sorridere pregustando già la dolcezza dell’incontro che verrà. E poi "promessa", cioè ipoteca di futuro, virato al bene o al contrario minaccia, verbale e non solo. Senza dimenticare "testimonianza", impegno di verità da portare avanti magari fino al martirio, termine con cui condivide la radice etimologica. Rimescolando tra loro questi concetti, mettendoli nell’ordine corretto, ieri il Papa ha disegnato la parabola umana della vecchiaia che, nel suo insegnamento, più che stagione di raccolto, di riflessione, di nostalgia, è tempo di semina, di sguardo di futuro, pur guidato da altri. Così spetta proprio agli anziani e alle anziane sostenere e dimostrare che «il meglio deve ancora venire» e che sarà nel mondo di Dio, seduti a tavola con Lui.

Perché il venir meno delle forze fisiche, l’affievolirsi della potenza non sono i tiranti con cui abbassare il sipario sull’esistenza, ma il segno che siamo destinati a un "oltre" più grande dove la misura del tempo sarà l’amore, non il successo. Inutile allora perdersi nel mito «delirante» dell’eterna giovinezza, comunque destinata a finire, l’impegno semmai dev’essere quello di cercare nel proprio io di adesso il meglio del sé stesso di prima, per farne storia, memoria luminosa, sapienza condivisa. Nell’insegnamento del Papa, infatti, la vecchiaia non è mai un’isola per naufraghi solitari, ma occasione di dialogo tra le generazioni, base su cui costruire la casa della nuova umanità.

Dalla Gmg brasiliana del 2013 fino al recente viaggio in Canada sono state numerosissime le volte in cui Francesco ha sottolineato la necessità che i nipoti ascoltino i nonni, a loro volta chiamati a essere radice per la fioritura delle benedizioni di Dio. Si tratta cioè di stabilire un legame affettuoso in cui non esistono professori e allievi, ma solo differenti modi di vivere e comprendere i doni che ogni creatura umana riceve in abbondanza. La sintesi profetica si trova nel celebre passo di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni». Un flash sulla realtà dello spirito che evoca il camminare insieme, un sentiero comune, per così dire una staffetta, il cui segreto consiste nella reciproca apertura. Quando gli anziani comunicano i loro sogni, i ragazzi vedono meglio la strada da fare e come portare avanti il disegno sul domani, se correggerlo, in quale maniera eventualmente adattarlo ai tempi cambiati. Al contrario, sottolineava il Papa lo scorso febbraio, «se i nonni ripiegano sulle loro malinconie», i nipoti «si curveranno ancora di più sugli smartphone». Vale a dire si chiuderanno al mondo reale esterno e non avranno cielo.

Altro che scarti o dischi stonati, quindi. I vecchi possono diventare il volto della sapienza capace di misurare il tempo, Il collante tra l’oggi che viviamo e ciò che sarà dopo. Per questo il Signore chiede loro un surplus di coraggio, per sé stessi e per gli altri, a cominciare dai ragazzi, cui insegnare che lo scorrere dei giorni non è una minaccia bensì una promessa. Quella fatta da Dio al profeta Geremia, non di successi e trionfi, ma di essere presente nella storia, accanto all’uomo sempre, senza stancarsi mai. Si trova lì il senso della speranza cristiana, che è altro dal banale ottimismo, che non chiude gli occhi davanti alle vecchie e nuove catastrofi, né edulcora il vocabolario dell’orrore. Il suo perimetro, al contrario, è la realtà, da vivere completamente, senza sfuggire nulla. Provando però a guardarla secondo la logica di Dio, ai cui occhi l’anziano e il giovane non sono mondi separati, ma vite differenti unite nella stessa storia.

 
 
 

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