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Messaggi del 24/03/2019

L'anello debole

Post n°2981 pubblicato il 24 Marzo 2019 da namy0000
 

La regola dell'anello debole

Luigino Bruni, Avvenire, sabato 23 marzo 2019

Dopo aver pregato in casa sedevo sul divano, quando entra un uomo di magnifico aspetto, in abbigliamento da pastore. Mi saluta e io rispondo al suo saluto. Si mette subito a sedere accanto a me e mi dice: «Sono stato inviato dal più venerabile degli angeli per abitare con te i restanti giorni della mia vita»
Il pastore di Erma
Rivelazione V


«Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge» (Ezechiele 34,2-3). Gerusalemme è caduta. Ezechiele, il profeta-sentinella, nella sua terra desolata dell’esilio avvista un gregge disperso per l’incuria dei suoi pastori: «Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate» (34,4-5). Non sono pastori ma "mercenari" (Gv 10,12), perché sfruttano le pecore più grasse per trarne profitto.


Il mestiere del pastore è arte complessa, e molto amato dalla Bibbia, dai profeti e da molte civiltà antiche. Vive nel rapporto di reciprocità con il gregge, un insieme composito e variegato. Accanto alle pecore grasse e sane ci sono cinque categorie di animali fragili, qualificati da altrettanti aggettivi: deboli, inferme, ferite, disperse, smarrite. La gran parte del gregge è dunque costituito da pecore bisognose di una cura speciale e specifica da parte del pastore. Ci sono quelle deboli, magari perché ancora agnellini, quelle permanentemente inferme a causa di menomazioni e incidenti, altre ferite dall’attacco di lupi o cinghiali, alcune smarritesi in seguito a un forte temporale o a un assalto, e qualche pecora che non ha più trovato la strada durante un difficile attraversamento notturno. Il buon pastore è colui che ha sviluppato la capacità di custodire l’intero gregge, che ha allargato il suo sguardo fino a includere tutte le pecore, a cominciare dalle ultime. 
Prima che il filosofo John Rawls nel 1971 ponesse il criterio del maxi-min(tra le alternative sociali possibili deve essere preferita quella dove stanno meglio gli ultimi) come pietra miliare di una società democratica, equa e fraterna, i pastori sapevano da millenni che la qualità e la bontà del loro lavoro dipendono dalla capacità di occuparsi al meglio degli animali più svantaggiati. Il primo indicatore di bontà di un pastore non è infatti il latte o la lana che ricava dalle pecore, ma l’equilibrio e l’armonia del gregge nel suo insieme, e quindi come cura gli ovini più vulnerabili: quante pecore ferite ha sanato, quante disperse ha ritrovato, quante deboli è riuscito a irrobustire. 
La leadership del pastore è speciale e diversa, se confrontata con quella del generale in battaglia, del capitano della nave durante una tempesta oppure, oggi, con la leadership d’impresa. Il suo obiettivo non è la massimizzazione dell’interesse individuale né del profitto economico, perché se così fosse non avrebbe senso dedicare energie e cura soprattutto agli animali più fragili e malati, agli "scarti". La cultura di governo del pastore è la cultura del bene comune, cioè il bene di tutti e di ciascuno – del gregge e di ogni pecora. La leadership della massimizzazione degli interessi economici è invece incentrata attorno all'efficienza, e quindi porta a trascurare e scartare gli elementi meno produttivi per concentrarsi sui migliori e più meritevoli. La cura del bene comune non può escludere nessuno, perché ogni individuo è legato a tutti gli altri, e la perdita di una sola pecora equivale all'insuccesso generale. La custodia del gregge segue quindi la regola dell’anello debole: la robustezza di una catena dipende dalla resistenza dell’anello più fragile, e quindi trascurarlo per concentrarsi sugli anelli più forti rende l’intero processo estremamente vulnerabile. Il buon pastore accudisce gli anelli deboli del gregge, perché sa che da quelli dipendono la qualità e il buon svolgimento di tutto il suo lavoro, compreso il rendimento degli elementi più forti. La leadership del buon pastore è dunque capace di sprecare tempo in lunghe ricerche notturne, di rallentare la marcia dell’intero gregge se una sola è in sofferenza; sa segnare il ritmo del cammino di tutti sulla base del passo dei più lenti. È anti-meritocratica, perché la logica che guida l’azione del pastore non è quella del merito, ma quella del bisogno, che indica ordine, priorità e gerarchie di intervento. La pecora grassa e robusta non ha più meriti della dispersa e ferita, e anche se li avesse non sarebbe preferita per i suoi meriti; la debole assorbe più cura solo perché ha più bisogni della forte. 
L’immagine del pastore come paradigma del buon governo delle comunità ha ispirato profondamente l’umanesimo occidentale, che nei secoli ha dato vita a una cultura politica centrata sull'obiettivo prioritario di non perdere le sue componenti più fragili – il welfare non è altro che la traduzione matura dell’umanesimo del buon pastore. Il XXI secolo sta però scrivendo un’altra storia, anche in Europa. La cultura della leadership di matrice aziendale, incentrata sulle categorie dell’efficienza e della meritocrazia, sta diventando un paradigma universale. Ha lasciato l’ambito economico ed è entrata nella sfera civile e politica (e tra poco forse anche nelle religioni), convincendo tutti che la cura per i deboli e i fragili vada subordinata ai vincoli di efficienza e debba essere meritocratica – getteremo via l’ultimo residuo di welfare il giorno in cui un ospedale inizierà a chiedersi se un malato che arriva al Pronto Soccorso merita di essere curato. 
Il giudizio di condanna del profeta non si limita ai capi religiosi e politici. Include anche le élite economiche, che hanno usato la loro forza e il loro potere per schiacciare e opprimere i più deboli: «Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi il resto della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito» (34,18-19). I membri più robusti della società hanno abusato della loro posizione dominante per accrescere i propri vantaggi, e hanno reso ancora più dura e povera la vita di chi vive al di sotto di essi. 
Dobbiamo notare un aspetto di estrema importanza. Ezechiele per descrivere la decadenza morale e spirituale del suo popolo, la rottura del Patto col loro Dio diverso, che è causa della tragedia della sconfitta, non ricorre ad argomenti religiosi né di culto. Non invoca la teologia né l’idolatria. Parla invece di buon governo, di politica e di economia, del tradimento della vocazione del pastore, della negazione del diritto e della giustizia economica. È questa la grande laicità della profezia e della Bibbia: nel de profundis più tremendo dell’identità religiosa di Israele il profeta non trova argomenti più "religiosi" della politica e dell’economia, non trova parole più alte di quelle umilissime del mestiere del pastore. Come fece un altro Buon Pastore, che riprendendo queste parole di Ezechiele ci rivelò (Mt 25) i suoi criteri e i suoi indicatori spirituali, tutti racchiusi in poche, laicissime parole: fame, sete, nudità, carceri, malattie, forestieri – mi colpisce e commuove sempre rileggere che nel testo più "celeste" ed escatologico del Vangelo non ci sia alcun riferimento alle pratiche del culto religioso ma solo alle pratiche della fraternità umana, e dove i nudi fatti contano più delle intenzioni: «L’avete fatto a me».
Ma ecco che un raggio di sole penetra dentro questo paesaggio desolato, e tutto si rischiara: «Così dice il Signore Dio: "Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna... Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia"» (34,11-16). 
Grandissime parole. In quei giorni bui e tremendi, con il tempio distrutto, il loro Dio sconfitto, il popolo deportato in Babilonia, in una terra straniera e idolatrica, il profeta canta la speranza, profetizza che le «spranghe del giogo» saranno spezzate (34,27), intona la salvezza che viene perché non può non venire. I profeti veri e grandi sono fatti così: nel tempo dell’illusione annunciano la dura e amara verità della sconfitta imminente; ma nel giorno in cui la devastazione è arrivata diventano voce del buon futuro possibile, cantano la vita in mezzo alle macerie di morte, riaccendono il domani nello spegnersi dell’oggi. E mentre cantano il futuro lo pregano, lo chiedono al loro Dio, sperano che quelle parole-canto si avverino nel dirle.

Ma non finisce qui il suo canto nuovo: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore. (...) Stringerò con loro un’alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive. Abiteranno tranquilli anche nel deserto e riposeranno nelle foreste (...). Manderò la pioggia a tempo opportuno e sarà pioggia di benedizione. Gli alberi del campo daranno i loro frutti e la terra i suoi prodotti; abiteranno in piena sicurezza nella loro terra» (34,23-27).
Torna Davide, il pastorello, il re secondo il cuore di Dio. E con lui l’attesa messianica di un nuovo Davide che, finalmente, sarà ancora buon pastore. Torna Isaia, l’Immanuel, la profezia della pace eterna e universale, la fine della sofferenza e della paura. È la promessa di una nuova alleanza di pace – la berit shalom –, un patto di prosperità, che includerà animali, alberi, l’intera creazione. Quando i profeti devono annunciare una grande salvezza dentro le tragedie più cupe sentono che la sola sfera umana è insufficiente. Dopo il diluvio e l’arca di salvezza, nell'Alleanza devono trovare posto anche gli animali, tutte le creature, l’arcobaleno e il cosmo intero. Nei giorni delle grandi resurrezioni le parole degli esseri umani sono troppo povere. Di quelle ore magnifiche ricordiamo volti e parole, ma ricordiamo anche suoni e fiori, e ricordiamo la luce.
E se oggi saremo capaci di una nuova alleanza di prosperità, a celebrarla saranno nuove politiche, nuove economie e nuove culture di gestione. Ma ci saranno anche gli alberi, gli animali, l’aria, il cielo, la luce. E se saremo capaci di fraternità anche con loro, «lo avete fatto a me» diventerà il canto della terra e del cielo.

l.bruni@lumsa.it

 
 
 

Donna in carriera

Post n°2980 pubblicato il 24 Marzo 2019 da namy0000
 

È quella che si dice una donna in carriera, Tiziana Bernardi, 60 anni, 40 passati a ricoprire alte cariche nelle maggiori banche, partita come impiegata e approdata alla poltrona di direttore generale di Unicredit, nonché amministratore delegato di una delle più grandi aziende del Gruppo, da lei fondata e capitanata con seimila dipendenti e filiali in tutto il mondo. «Tre anni fa da un giorno all’altro ho dato le dimissioni. Ho lasciato il mondo dei miliardi ma non il mestiere: ora l’impresa che gestisco è ancora più grande e richiede la stessa managerialità, solo che è sperduta nella savana e ha un obiettivo altissimo, cambiare il mondo». Almeno quello intorno al monastero benedettino di Mvimwa, incontrato durante un viaggio avventuroso in Tanzania e diventato la sua sfida imprenditoriale più ambiziosa.

Ci accoglie nel salone della sua villa storica, a Cornaredo, dove ha convocato i collaboratori più stretti, com’era solita fare nella sua vita precedente: «Ho scritto un enorme progetto affinché il monastero, che sorge nella regione più arretrata della Tanzania, sia protagonista della trasformazione sociale dei dieci villaggi intorno, abitati da 20mila persone, poi di tutto il distretto di Nkasi (320mila persone), infine dell’intera ragione di Rukwa, un milione e mezzo di abitanti, il 60% dei bambini denutriti e una vita media di 50 anni. Perché un modello che in piccolo ha successo è sempre replicabile in grande», spiega mostrando i contratti già stipulati con università e imprese italiane e straniere, i dati raccolti sul territorio, le strategie e gli obiettivi finali, che vedono anche la fondazione di un’università specializzata in Scienze della nutrizione infantile e in Agraria.
Trasformare la crisi in risorsa: è la deformazione professionale di Tiziana, accolta come una benedizione dall’abate del monastero il giorno in cui, 5 anni fa, se la vide arrivare per caso con al seguito una quindicina di “turisti”. «Ero partita con uno dei miei due figli e diversi amici perché una brutta notizia mi aveva stroncata. A mio marito Carlo era stato diagnosticato un cancro con tre mesi di sopravvivenza, per la prima volta ero schiacciata, mi fermai a chiedermi che cosa ci stiamo a fare quaggiù. Non avevo una ricetta ma ero consapevole che la vita andava riformulata... Carlo poi fu curato e guarì, ma io avevo bisogno di capire, così organizzai questo viaggio tra orfanotrofi». Non un’esperienza del tutto nuova per la dirigente, che in passato si era inventata di portare i manager delle sue banche a fare formazione nei centri di accoglienza africani anziché nelle capitali europee.

Arrivata al monastero di Mvimwa, qualcosa successe. «Io, la persona più razionale del mondo, ebbi una folgorazione. Avevo 55 anni e dovevo ricominciare tutto da capo. Non ero mai stata prima in un monastero, ma quel giorno mi confessai per tre ore con padre Lawrence, oggi per me come un figlio. Lì per lì non capii, tre mesi dopo negoziavo le dimissioni da Unicredit e mi accordavo con l’abate: tu preghi, io lavoro ma mi dai carta bianca». L’obiettivo era alto: combattere la fame, assicurare assistenza sanitaria di base, educare su igiene e nutrizione, creare imprese e posti di lavoro, il tutto mobilitando il monastero per arrivare, con un effetto domino, al Paese. «I novanta missionari benedettini, tutti tanzaniani giovani ed entusiasti, erano fedeli alla regola dell’ora et labora, pregavano e lavoravano... ma la parte “lavoro” era per approssimazione, ci volevo io per fare un piano industriale». L’abate poi lo ha inserito nella regola e ognuno dei novanta monaci oggi è protagonista del cambiamento, coinvolgendo i capi villaggio e via via la popolazione.

La parola utopia non è ammessa, «se vogliamo che un altro mondo sia possibile, l’unica cosa da fare è vivere come se già esistesse», spiega Tiziana Bernardi, mostrando le foto dell’ex hotel di lusso da poco acquistato per ospitare la futura università. «Era stato espropriato a un imprenditore inadempiente e io l’ho comprato all’asta a nome del monastero a un prezzo vantaggioso, grazie a un benefattore italiano». Il resto lo ha raggiunto sfruttando i suoi contatti: «Non ho cercato gli amici ma le eccellenze professionali», così oggi come partner ha l’università di Parma, il Campus Biomedico di Roma, il Politecnico di Milano e il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), in una logica di reciproco interesse: «Loro aiutano noi, noi diamo ai loro studenti la materia per tesi di laurea e specializzazioni. Alla fine novanta benedettini africani hanno un partenariato che anche la Fao ci invidia».

La parola d’ordine è «incidere»: è inutile scavare un pozzo qua e uno là, «ho questo monastero, e con questo ti cambio le sorti di un intero territorio», il tutto (finora) senza bisogno di capitali: medici, studenti, ingegneri, architetti, docenti universitari di varie discipline si sono pagati il viaggio e hanno condotto studi che a loro erano utili e al monastero non sono costati un euro. Ora però i progetti industriali devono partire e la onlus "Golfini Rossi" (l’uniforme dei bambini delle primarie in Africa) è pronta per entrare nella Cooperazione internazionale. «Golfini Rossi nell'organigramma ha scienziati, architetti, chirurghi, nutrizionisti, ricercatori nella trasformazione industriale del cibo, tutti volontari». Un Centro di tecnologia alimentare per la produzione della "pappa di Parma" (cibo iper nutriente, prodotto da start up locali) è già avviato, come l’essiccatore a pannelli solari della portata di 800 chili al giorno che permette di conservare in modo asettico gli alimenti, sotto la guida di un giovane monaco laureando in chimica.

Intanto un centinaio di studenti italiani del Campus Biomedico e dell’ateneo di Parma, sotto la guida di medici e professori, censiscono nei villaggi i bambini non registrati all’anagrafe e assistono malati e disabili, che a breve troveranno nel monastero una casa ad hoc, con vitto, alloggio e un lavoro dignitoso, mentre gli studenti di ingegneria bio-medica del Politecnico sono già a Mvimwa per progettare il centro di riabilitazione motoria. «Entro il 2019 sarà rinnovato il dispensario del monastero, attualmente fatiscente ma unico punto di riferimento raggiunto a piedi da migliaia di pazienti – continua Bernardi –. Diventarà un luogo di cura moderno, darà lavoro a molti ed erogherà corsi alle neo mamme su nutrizione e igiene: se forniamo acqua pulita ma poi i secchi sono contaminati a cosa serve?», spiega Bernardi.

Il lavoro più grande è dunque culturale, coinvolgere i capi villaggio non è solo un fatto politico: «Ci pensano i monaci, che sono il legame diretto con la popolazione, e le 500 suore formate per intercettare i casi urgenti di denutrizione, in accordo con il vescovo Beatus Urassa». Insomma, non è utopistico pensare che da quel monastero sperduto nella savana, dal quale giunge il giusto grido della famiglia umana, possa essere rilanciata una nuova meravigliosa storia italiana fatta di generosità intellettuale, competenza scientifica e coraggio imprenditoriale. Ora i fondi serviranno, ma lei è tranquilla: «La Provvidenza risponde sempre, attraverso uomini di buona volontà».

L'IMPEGNO DI TIZIANA NATO NEL VILLAGGIO DI ZENO, NOMADELFIA
L’impegno per i poveri, Tiziana lo porta scritto nel Dna. «Sono nata a Nomadelfia, in provincia di Grosseto, il villaggio di don Zeno, perché i miei genitori erano orfanelli. Papà e mamma crebbero, si sposarono ed ebbero cinque figli a Nomadelfia. Poi la famiglia uscì quando avevo tre anni... Ma è stata Nomadelfia a folgorarmi in Tanzania, la sera in cui salimmo su una montagna e lì, sotto una grande croce, improvvisamente mi sono rivista bambina sotto la croce di don Zeno», rivela. E qui il cerchio si chiude: «Nomadelfia è piccola ma perfetta, solo 320 persone... ma quando un modello funziona lo si replica in grande», ripete. Da tempo la cittadella di don Zeno cercava un luogo nel mondo in cui portare la sua esperienza, «così un anno fa ho accompagnato al monastero di Mvimwa il suo successore don Ferdinando, 90 anni, e ho portato l’abate di Mvimwa, padre Denis, a Nomadelfia... Vedremo, la Provvidenza fa giri strani». Se migliaia di africani si salveranno, gira e rigira, sarà merito anche di don Zeno. Il fondatore di questa comunità di cattolici che vogliono vivere la fraternità evangelica e che, giusto settant’anni fa, il 21 marzo 1949, si trasferì da Fossoli di Carpi in Maremma, dove si trova tuttora. (Avvenire, 23 marzo 2019)

 
 
 

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