Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Agosto 2019

Io sto dalla parte degli angeli

Post n°3120 pubblicato il 31 Agosto 2019 da namy0000
 

Richard Gere, attore, compie oggi 70 anni. La sua prima parte importante in un film, In cerca di Mr. Goodbar, l’ha avuta nel 1969, l’anno di Woodstock. «Volevo andarci, ma ho preferito guadagnare i miei primi soldini». Il grande successo arriva negli anni 80 e 90, con una serie di film controversi per i messaggi che trasmettono sulla donna e sulla sessualità: American GigolòUfficiale e gentiluomo, Pretty Woman. Il suo impegno politico e sociale comincia presto: negli anni 70 assieme ad altre migliaia di giovani sposa le battaglie per i diritti civili e delle minoranze etniche, poi incontra il Dalai Lama, di cui diventa seguace e sostenitore.

Nel 1993 durante la cerimonia degli Oscar da lui presentata, accusa la Cina di compiere «azioni orribili» in Tibet. Da allora viene "emarginato" dalle grandi produzioni di Hollywood, oramai dipendenti dai capitali cinesi. Nel 2016 produce il docufilm Gli invisibili, dedicato ai senzatetto.

Lo abbiamo incontrato al ritorno dal suo blitz sulla "Open Arms", la nave dell’Ong spagnola Open Arms, una delle associazioni – le più note sono Tibet House e Survival International – che si occupano dei diritti delle minoranze e dei più disagiati che Richard Gere da anni appoggia e finanzia.

Come le è venuto in mente di sposare la causa di Open Arms? Molti l’hanno accusata di essere la solita star in cerca di pubblicità, tra un cocktail e una gita in motoscafo d’altura...
Guardi, ho settant’anni suonati, un discreto conto in banca e diciamo che sono abbastanza famoso. Inoltre, sono appena diventato padre di uno splendido bambino, al quale dedico volentieri tutto il mio tempo libero. Secondo lei, ho bisogno di pubblicità? Non solo non ne ho bisogno, non la cerco nemmeno.

Perché allora ha deciso di salire a bordo della "Open Arms"?
Perché da buddhista non posso non fare qualcosa per alleviare la sofferenza, ovunque essa sia. Seguo da tempo gli insegnamenti del Dalai Lama, di cui sono umile seguace e convinto sostenitore. So che ho fatto e sto facendo la cosa giusta... ci sono esseri umani che soffrono, che scappano da orrori e torture. E per fortuna ci sono "angeli" che tentano di salvarli. Bene. Io sto dalla parte degli angeli, come dovremmo essere tutti.

Il Dalai Lama in una recente intervista alla Bbc ha messo in guardia contro i pericoli dell’immigrazione: l’Europa non può permettersi di essere invasa dall’islam, bisogna aiutarli a casa loro...
Non so in quale contesto abbia detto, se le ha dette, queste parole. Io so solo che c’è un’emergenza, che ci sono persone che hanno bisogno di aiuto immediato e che questo aiuto va dato. Punto. Poi, non che sia importante, ma a bordo della "Open Arms" l’80% dei rifugiati era cristiano...

Che cosa l’ha portata a bordo, lei era qui in vacanza...
Sì, ero in vacanza, vengo spesso in Italia, un Paese che adoro, ma che ho trovato profondamente cambiato... Una mattina, un mio caro amico, Fabrizio Pallotti, ex monaco, interprete e traduttore ufficiale del Dalai Lama, è venuto a trovarmi e mi ha raccontato del nuovo Decreto sicurezza. Nel quale si prevedono pesanti sanzioni per le Ong che salvano i rifugiati in mare. Non volevo credere alle mie orecchie. Una cosa indegna. Incompatibile con una società civile. Criminalizzare uno dei valori fondamentali, la solidarietà? Arrestare gli "angeli"? Non esiste. Qui c’è gente che dopo aver dovuto abbandonare la propria casa, il proprio Paese – e non importa per quale motivo lo faccia: cercare la felicità è un sacrosanto diritto, lo sappiamo bene noi americani e voi europei che in passato abbiamo vissuto questa situazione – ha subito ogni sorta di orrore. È come se fosse scoppiato un incendio. La gente si butta dal quinto piano, non ha scelta. E per fortuna a terra trova gli "angeli": vigili del fuoco, guardia costiera, volontari delle Ong. Ma poi si sente dire: bravo, ce l’hai fatta. Ora ti rispediamo all’inferno. Perché la Libia è l’inferno. Ho ascoltato i racconti di queste persone. Ci sono cose che non si possono inventare. Occhi che non si possono dimenticare. Quindi, ho immediatamente chiamato i responsabili di Open Arms, associazione che ammiro e da tempo finanzio, e ho detto loro che volevo salire a bordo.

È stato facile salire a bordo?
Non tanto. Abbiamo avuto difficoltà a trovare una barca che ci portasse sotto bordo, al largo. Ci eravamo messi d’accordo con un pescatore, ma ci ha richiamato dopo poche ore dicendo che non se la sentiva, aveva paura, era terrorizzato dalle conseguenze. C’è un brutto clima di intimidazione, di paura. Siete cambiati, voi italiani. Avete perso il sorriso, la gioia di vivere, vi siete incattiviti anche voi...

Anche noi?
Sì, perché l’incattivimento è un fenomeno globale. Il mondo è guidato da piccoli e grandi Trump, che con la loro ignoranza, le loro bugie, le loro promesse e le loro minacce stanno manipolando la verità.

Nel frattempo, avanza il secolo cinese...
Bisogna aver paura della Cina, del loro sistema. Quello che fanno in Tibet, nello Xinjiang e più in generale, ovunque, perseguitando e imprigionando chiunque esprima dissenso, è pazzesco. Non possiamo permetterlo. Sono anche molto preoccupato per Hong Kong, seguo la situazione grazie ad alcuni amici che sono lì, temo il peggio. Anche perché oggi non c’è nessuno che possa opporsi a Pechino.

Dalla generazione dei "sit-in" e "be-in" siamo passati a quella dei "sit-out" e "stay-out". Molta gente oggi non vuole coinvolgersi. Ha paura, è preoccupata, pensa a se stessa. Qualcuno dice che il liberalismo è fallito, che sia ormai obsoleto. Lo ha detto Putin di recente...
La democrazia funziona solo se c’è partecipazione, continua, consapevole e diffusa. In America avevamo un buon sistema, con una serie di meccanismi costituzionali, di pesi e contrappesi, che sinora avevano funzionato. Pensavamo di essere al sicuro da ogni rischio dittatoriale. Ma non basta più.

Lei sulla Cina va sempre giù duro. È vero che dopo la sua dichiarazione di guerra durante la cerimonia degli Oscar del 1993 non lavora più alle grandi produzioni di Hollywood?
In parte sì. Ma non è un problema, mi creda. Hollywood da tempo produce film che non mi interessano, è un disinteresse reciproco, diciamo così. Certo i produttori cinesi hanno messo il veto sul mio nome, ma grazie al cielo ho altre offerte e altri interessi.

Ma lei crede davvero che basti essere un po’ più buoni, per salvare il nostro mondo? Che oltre ad aprire le braccia, dovremmo aprire i confini?
Il primo confine che dobbiamo spalancare e dal quale dobbiamo uscire è quello del nostro cuore e della nostra mente. Dobbiamo aprirci agli altri, alla sofferenza altrui. Il resto viene da sé. Dobbiamo essere più seri, più riflessivi, studiare di più. È un percorso, un cammino di conoscenza e tolleranza che abbiamo interrotto e che dobbiamo riprendere. Ed è un messaggio comune a tutte le religioni. Io sono buddhista, ma non mi risulta che Gesù abbia mai detto qualcosa come: «Amate il vostro prossimo, tranne gli... africani».

 
 
 

Torneremo sulla Luna?

Post n°3119 pubblicato il 29 Agosto 2019 da namy0000
 

Torneremo sulla Luna?

‹‹Sì, forse nel 2024. Gli scienziati vogliono tornarci, come test di prova, per poi andare su Marte. Io sono dell’idea che bisogna puntare a Marte. Per riuscirci, una volta lì dobbiamo imparare a fare alcune cose. Primo: estrarre dalle rocce locali idrogeno e ossigeno indispensabili per il ritorno. Qui al Politecnico stiamo facendo già degli esperimenti. Secondo: coltivare cibo fresco con l’idrocoltura (tecnica che utilizza acqua e argilla espansa al posto del terriccio, ndr) perché non si può scavare nella terra e andare avanti per due anni con le scatolette. Terzo: difenderci dalle radiazioni. Quarto: imparare a vivere un po’ lontano dalla Terra in un gruppo di poche persone. Sembra facile, psicologicamente non lo è››.

Quando arriveremo su Marte?

‹‹Io dico nel 2037››

Perché?

‹‹Il 37 è un gran bel numero e gode di tante particolarità: 2+2+2 fa 6, 37 per 6 fa 222››.

Spera di vedere l’arrivo su Marte?

‹‹Io non ci sarò, ma sarò comunque lì a dirigere i lavori (ride, ndr). Marte è una meta ambiziosissima perché difficile da raggiungere. Sarà il grande balzo per pensare, un domani, di trasferire lì l’umanità, ma dovremmo riportare il Pianeta alla condizione di ospitare la vita. Quello che si può immaginare, può diventare realtà, nulla è impossibile››

Lei crede in Dio?

‹‹Profondamente. La mia convinzione è che c’è un Dio buono che pensa a noi. La fede come la mia aiuta a sapere che oltre alle persone che ci vogliono bene c’è uno potente, più in alto di noi, che non ci lascia mai soli››.

C’è contrasto tra fede e scienza?

‹‹No, perché sono due campi diversi. La scienza è logica, la fede è trascendente e dà le risposte a quelle domande che alla scienza restano precluse. Noi abbiamo l’impressione nel campo scientifico di poter toccare i risultati, con la fede no. Invece anche chi crede, spesso riceve dei segni tangibili e concreti, magari incontra un angelo. Il Padreterno sa di quello di cui abbiamo bisogno››.

C’è vita sulle comete?

‹‹Noi abbiamo trovato alcune molecole organiche, persino un amminoacido che sono i mattoni della vita. Forse le comete sono quelle che portano la vita in giro per l’universo››.

Perché sostiene che Dio, quando ha creato le comete, sorrideva?

‹‹Perché sono bellissime. Hanno almeno due code: una di polveri e una di ioni. E sono protagoniste di una grande storia d’amore. Sono in un ambiente freddo, buio e ogni tanto, per ragioni gravitazionali, si muovono e si avviano sull’orbita che le porta vicino al Sole. Ecco, io lo vedo come un innamoramento: si avvicinano al loro principe azzurro ed emettono la loro lunga scia. Il Sole, come certi uomini, le lascia andare, per lui tutte le comete sono buone››. (Intervista ad Amalia Ercoli-Finzi, scienziata, fra le massime esperte di ingegneria aerospaziale, 82 anni, FC n. 34 del 25 agosto 2019)

 
 
 

La Chiesa oggi

Noi cristiani oggi

(Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, sociologi, sposi e genitori di 7 figli, 5 naturali e 2 adottati, Como, dove vivono, in una comunità di famiglie ospiti delle suore Figlie di Sant’Angela Merici, FC n. 34 del 25 agosto 2019)

 

L’uomo moderno è come il figliol prodigo della parabola evangelica che dopo più di 1000 anni di cristianità diventa consapevole di sé stesso, si prende la responsabilità di uscire di casa e di vivere autodeterminandosi, nell’illusione di bastare a sé stesso.

Il tema cruciale che la modernità ha sollevato, senza saperlo risolvere e che la Chiesa fa fatica a gestire, è quello della libertà. La parabola del figliol prodigo riassume in modo sintetico ed efficace diversi aspetti: da una parte un Dio che è Padre. In questa parabola emerge tra l’uomo e Dio un rapporto di filiazione basato sull’Amore reciproco. Dio crea l’uomo a sua immagine. Come diceva il poeta Hölderlin, lo crea come il mare la terra: ritirandosi.

Dopo la Riforma, la Chiesa ha sempre avuto il bisogno di controllare. Oggi invece c’è l’occasione di ripensare, anche partendo dai fallimenti della modernità, come giocare questa libertà.

La parabola è esemplare perché dice che il padre che ama non è colui che desidera che il figlio faccia tutto quello che vuole lui, ma colui che desidera che il figlio sia libero, anche a costo di sbagliare. Se il figlio non fosse uscito di casa, avrebbe subìto il comportamento del padre. Il figlio che è uscito ha sperimentato e fatto i suoi errori e solo allora si costituisce tra i due un rapporto maturo e fecondo. La cosa bella è che il padre non gli dice di non andare via, ma gli dà la sua parte di eredità, nonostante non sia d’accordo. Chi è genitore lo sa: non si può impedire ai figli di prendere in mano la propria vita e di sbagliare. Quello che il genitore può e deve fare, dopo aver cercato di trasmettere con la vita ciò che ha imparato di importante, è stare sulla soglia con le braccia aperte, pregando e sperando che il figlio ritorni e che, nel frattempo, non si sia fatto troppo male. Il ritorno è una festa, è un’alleanza rinnovata, basata non sulla paura, ma sul desiderio.

Noi moderni, come quel figlio, siamo cresciuti nella cultura cristiana ma abbiamo deciso di abbandonarla e siamo ancora là fuori, spaesati, delusi, in mezzo a tanti guai.

La modernità, che ha tanti meriti, produce anche molti guai: solitudine, logica dello scarto, disuguaglianza, distruzione della natura. Tutti questi effetti possono essere letti, nell’ottica biblica e cristiana, come conseguenza del fatto che l’uomo pensa di autodeterminarsi. È quello che tutti i figli pensano di poter fare quando raggiungono l’età adulta. A livello storico siamo nel bel mezzo di questa contraddizione e non è ancora maturata nella modernità, se non in alcune componenti, questo desiderio del ritorno. Il ruolo della Chiesa è quello di essere la voce della coscienza, che sussurra: “Ma non ti ricordi di quanto stavi bene nella casa del padre?”, facendo maturare questo desiderio del ritorno.

Serve una riflessione adeguata. Dal Concilio sono passati più di 50 anni e il mondo, in questo tempo, è cambiato radicalmente.

La Chiesa, come sempre nella storia, è peccatrice e profetica allo stesso tempo. Forse oggi non riesce a essere consapevole del proprio ruolo. Anzitutto, va superata a divisione tra progressisti e conservatori che si è prodotta dopo il Concilio…

Questo è il momento in cui noi moderni, come il figliol prodigo, ci siamo resi conto che l’autonomia e l’autosufficienza non regalano la felicità che avevano promesso. Se la Chiesa fa come il fratello maggiore della parabola e dice: “Ecco, te l’avevo detto di non andartene” non aiuta questo tempo. Se invece assume il ruolo del padre misericordioso, come a volte riesce a fare, forse può intercettare questa domanda di senso, suscitare il desiderio di una alleanza rinnovata.

La Chiesa e l’uomo contemporaneo devono re-imparare quel movimento paradossale predicato da Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita la perderà, chi è disposto a perderla, la trova”. La dottrina è un tentativo di mettere in sicurezza la verità e di definirla in maniera chiara, circoscrivendola come possesso di qualcuno e come qualcosa a cui bisogna sforzarsi di aderire…

 
 
 

Dio Pare e Giudice?

Post n°3117 pubblicato il 28 Agosto 2019 da namy0000
 

Dio è Padre o Giudice?

Un chiarimento è fondamentale perché, come ebbe a dire padre David Maria Turoldo, ‹‹sbagliarsi su Dio significa sbagliarsi su tutto!››.

In passato la religione cattolica, purtroppo, in gran parte ha impostato la sua catechesi sulla paura. Dio era misericordioso, ma bastava non aver rispettato qualche precetto e ci si ritrovava, senza appello, all’inferno. Ciò provocava nelle persone più sensibili paura e angoscia. Ma si può amare un Dio così? I ministri di una Chiesa siffatta, rappresentanti in terra di tale Dio, acquistavano un immenso potere, nel concedere intercessioni, grazie e perdono. E c’è chi rimpiange tale impostazione. L’enorme ostilità all’interno della Chiesa verso papa Francesco ne è la prova lampante. Per nostra fortuna, però, Dio non lo possiamo inquadrare nei nostri schemi, nei nostri sensi di colpa. Lo Spirito, continuamente all’opera, ci svela, attraverso Cristo, il volto di Dio. L’unico credibile e in piena sintonia con il nostro essere creature umane.

Non quindi un Dio che ci aspetta al varco per trattarci come meritiamo, un Dio da conquistare a suon di sacrifici e privazioni, un Dio che quasi si pente della sua creazione, tanto da permettersi che una gran parte vada perduta. No, il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della libertà, della vita vissuta in pienezza, con tutti i suoi limiti e imperfezioni. Frutto di una creazione in divenire, non ancora compiuta. La sua caratteristica è la liberazione dalla paura, in particolare dalla paura delle paure: quella di Dio. Egli ci spinge a vivere intensamente, anche a costo di sbagliare, a rischiare nelle scelte, a crescere nell’Amore, che è l’unica caratteristica che ci fa essere veramente umani. Per il resto ci invita a vivere con fiducia questa avventura difficile e impegnativa che è la vita, affidandosi a un Padre che ci ama e che ci amerà sempre e comunque, qualunque cosa succeda – Luigi M. (FC n. 34 del 25 agosto 2019). 

 
 
 

Clima e guerre

Post n°3116 pubblicato il 28 Agosto 2019 da namy0000
 

2019, Internazionale n. 1310 del 7 giugno. CLIMA E GUERRE.

Il cambiamento climatico ha provocato la guerra in Siria? O il genocidio in Darfur? La risposta è no: “Nessun conflitto scoppia senza un leader che dia ordini e dei soldati che sparino. Nessuna atrocità è compiuta senza che degli esseri umani abbiano deciso di compierla”, scrive l’Economist.

Fatta questa premessa, un numero crescente di studiosi avverte che il cambiamento climatico rende più probabili i conflitti, in particolare in alcune aree del Pianeta. L’aumento della frequenza e dell’intensità di fenomeni estremi come siccità e alluvioni, e la loro maggiore variabilità  e imprevedibilità, rendono vulnerabili intere regioni, dal Ciad al Bangladesh, dalla Nigeria allo Yemen. Tutti posti dove l’emergenza climatica, unita a povertà e malgoverno, rischia di fare da detonatore. E di far precipitare i paesi in una spirale perversa, perché le guerre aumentano la povertà, che a sua volta alimenta le guerre. Con un altro fattore chiave: la disuguaglianza. Lo raccontano bene sulla rivista Nature due geografi, Mark Pelling, del King’s college di Londra, e Matthias Garschagen, della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. In Mozambio, per fare un esempio recente, due terzi della popolazione vivono in estrema povertà. Tra marzo e aprile il Paese è stato colpito da due cicloni, lasciando più di mille vittime e tre milioni di persone che hanno bisogno di aiuti. Le zone più colpite sono state proprio quelle rurali, povere e isolate, tagliate fuori dai soccorsi. Ma se è chiaro dove bisogna intervenire, è altrettanto chiaro che la risposta al cambiamento climatico deve guardare ai bisogni dei più deboli, scrivono Pelling e Garschagen, mettendoli al centro dei processi decisionali: “Il cambiamento climatico sta trasformando il nostro mondo. Dovremo adattarci. E combattere la povertà e le disuguaglianze allo stesso tempo”. È una doppia sfida. La buona notizia è che, se lo vogliono, gli esseri umani possono fare molto.

 
 
 

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