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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 02/08/2019

Le relazioni

In un tempo come il nostro dove le relazioni rischiano di essere sostituite dalle connessioni, si fa forte il bisogno di ritornare a quella dimensione così costitutiva dell’uomo che è proprio la sua relazionalità.

Lo aveva già intuito Aristotele quando per trovare la caratteristica più significativa dell’uomo usava il termine greco politikon. Effettivamente che cosa siamo noi se non “esseri relazionali”?

È infatti nelle relazioni che comprendiamo anche il nostro esistere. Il dolore, la gioia, l’amore, la fiducia, sono esperienze possibili solo rispetto a delle relazioni significative.

Quando si ammalano le nostre relazioni si ammala la vita stessa. E molto spesso ci capita di dover fare i conti con i sintomi di una vita malata (depressione, tristezza, ansia, attacchi di panico) e non accorgerci che l’unica via d’uscita non è medicare questi sintomi, ma guarire la nostre relazioni.

È l’amicizia la parola chiave di ciò che fa un uomo davvero un uomo. Non a caso Gesù nel Vangelo di Giovanni dice chiaramente che la grande rivoluzione che è venuto a portare non riguarda più la Legge fatta di precetti, né tanto meno la preghiera fatta di sacrifici, ma il rapporto stesso con Dio: ‹‹Non vi chiamo più servi ma amici›› (cfr. Gv 15,15). L’amicizia diventa così il grande alfabeto del Vangelo.

Ma in una società che riduce l’uomo a individuo, a solitudine ripiegata su sé stessa, c’è ancora spazio per l’uomo-persona, l’uomo-relazione?

Credo che sia questa la grande intuizione che c’è nell’ultimo testo dell’arcivescovo Francesco Gioia, L’amicizia, terapia della solitudine (Città Nuova, 2019). ‹‹L’amicizia è l’unica terapia e l’unico antidoto contro la solitudine››: così si apre questo piccolo e intenso testo, che oserei dire essere un distillato di saggezza, bellezza e umanità. Non è la prima volta che Francesco Gioia ci regala riflessioni simili, il cardinal Gianfranco Ravasi lo aveva già definito nella prefazione a un altro suo testo, Nati per la gioia (Ancora, 2005), il teologo dei sentimenti. Ed è proprio questo che ha mostrato di essere ancora una volta in questo libro sull’amicizia.

Con una pazienza certosina ha messo insieme innumerevoli citazioni di grandi scrittori, teologi, filosofi, poeti, artisti, disponendoli in un grande discorso che è paragonabile a un fiume di luce. È la luce della bellezza di chi ha già trovato le parole giuste per parlare dell’amicizia e che colpiscono il lettore nelle pieghe più nascoste del suo animo e della sua esistenza. Non si esce indenni da questa lettura senza avvertire in fondo all’animo la netta sensazione che ognuna di queste pagine in realtà ci ha prestato le parole per dire bene ciò che noi non riusciamo mai a dire fino in fondo.

Se l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2011 ha sentito l’esigenza di istituire ogni 30 luglio la Giornata mondiale dell’amicizia, forse lo avrà fatto come antidoto a un mondo che si è ammalato di solitudine e infelicità. La globalizzazione è un fenomeno che sembra riguardare tutto fuorché l’umano. Sono le economie a circolare, le merci, le informazioni, i dati, ma il crescere della possibilità di scambio paradossalmente ha fatto aumentare la sensazione di sentirsi soli in mezzo agli altri.

La via dell’amicizia diventa quindi il grande ponte su cui si può costruire una differenza. Non a caso uno dei capitoli del libro di Gioia si intitola proprio L’amicizia, “ponte” sull’isola della solitudine. Per assonanza penso alla parola Pontefice, che sta a significare proprio la capacità di essere ponte e d’un tratto capisco meglio tutti i tentativi di amicizia che papa Francesco tenta di gettare in un mondo che crede più ai nemici che agli amici. Il ruolo stesso del Papa è un ruolo che ha in sé responsabilità di creare amicizia, legami significativi, innanzitutto tra il cielo e la terra, ma soprattutto tra uomo e uomo, perché come ci ricorda san Giovanni: ‹‹Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello›› (1Gv 4,20-21) (Luigi Maria Epicoco, FC n. 30 del 28 luglio 2019).

 
 
 

Codice rosso

Post n°3096 pubblicato il 02 Agosto 2019 da namy0000
 

“Il 18 luglio – dice Michelle Hunziker – ho vissuto una grande emozione Codice rosso è riuscita a passare. E in così poco tempo che possiamo parlare sicuramente di un miracolo. Era da tanto tempo che Giulia e io volevamo fare qualcosa di concreto per riuscire ad aiutare le vittime di violenza a non morire in attesa di giudizio. Non ce la fcevamo più a vedere donne denunciare più e più volte e poi morire perché nessuno, non solo lo Stato, le ascoltava, e tutti sottovalutavano il problema. Culturalmente, quando una donna denuncia una violenza non si coglie l’emergenza. Le viene detto: ‹‹Ma no, signora… sono fatti privati, torni a casa e vedrà che si risolverà››. E con questa superficialità sono morte troppe donne. Nella Fondazione Doppia Difesa, che ho creato insieme a Giulia Bongiorno, sono coinvolti diversi avvocati. Proprio lei, prima di diventare ministro, era estremamente attiva in questo campo e le è successo diverse volte di depositare una denuncia e di vedere una donna uccisa perché nessuno l’aveva ascoltata. Si tratta di una tragedia, di un’emergenza civile in un Paese che fingeva che non ci fosse il problema. O peggio, tutti ne parlavano, ma alla fine non si faceva niente. Abbiamo scritto questa proposta di legge intitolandola Codice Rosso. Significa che quando una donna vive una violenza è in pericolo di vita, esattamente come succede quando ti fai male. Adesso questa legge è passata e mi ricordo che pronunciai una scommessa all’interno di un programma d’intrattenimento. Nessuno ci credeva, e gli autori avevano sgranato gli occhi. La scommessa era che cercando un accordo comune su un argomento così importante e facendo firmare ai leader dei partiti una promessa, forse non attraverso la politica, ma attrverso la sensibilizzazione della persona, saremmo riuscite a raggiungere il nostro obiettivo. Così ho fatto: sono andata da tutti i politici e ho chiesto loro di sottoscrivere la promessa di nuove norme contro la violenza sulle donne. Non era ancora stato formato il Governo, ma tutti mi assicurarono che nel momento in cui sarebbe avvenuto avrebbero portato a termine questa missione. Ed è andata così”…  (FC n. 30 del 28 luglio 2019)

 
 
 

Sui Navigli a Milano

Post n°3095 pubblicato il 02 Agosto 2019 da namy0000
 

2019, Avvenire 1 agosto.

Sui navigli a Milano, nel brusio giovanile della Darsena e della movida estiva. Al tavolino di una birreria frequentata da studenti guardo le facce, ascolto le battute, sono incuriosito da questa versione milanese dell’estate e del tempo degli esami. La cosa che più mi impressiona è che nello stesso tavolo ci siano studenti con un’aria decisamente straniera, orientale o africana. Eppure, visto che sono talmente vicino da potere distinguere le voci scopro che gli 'stranieri' sono in realtà milanesi, che parlano con un accento spiccato e non hanno il più vago gesto che li distingua dai loro coetanei. Avevo osservato la stessa cosa nei tram in questi giorni. Ragazzi e ragazze eritree, filippine, singhalesi, ma in realtà no, sono milanesi di seconda o terza generazione assimilate ai costumi, ai modi di fare, ai gusti, alla vivacità di questa nuova ondata di giovani che invadono la sera la città. A me come antropologo, ma a me soprattutto come conoscitore di altre città, New York, Parigi, Amsterdam, Bombay, Maputo la cosa rincuora: significa che questo nostro Paese bello e infelice sta crescendo, è nonostante tutto un posto non infognato nella provincia più marginale del mondo.

Ci sono nuove generazioni di italiani che hanno tratti, pelle, occhi, diversi da quelli a cui siamo abituati, ma sono italiani a tutti gli effetti, è bello vedere una ragazza asiatica che ci si aspetta di non capire nel suo idioma, esprimersi in un italiano 'lingua madre'. Perché è bello? Perché ci fa capire che l’italiano e l’essere italiani ha un valore di universalità, è una maniera di essere al mondo che riesce a rielaborarsi, a riprodursi, a vivere. Il contrario di quello che si pensa quando si parla di pericolo dello straniero e di nostra povertà demografica. A fronte dei problemi dell’integrazione c’è l’altro piatto della bilancia. L’Italia, l’italiano, la nostra maniera di essere è talmente ricca da potere essere assunta e rielaborata e rilanciata dalle future generazioni 'che ci saranno' perché il processo di assimilazione prende una o due generazioni e poi dà luogo a 'italiani'. Dico cose ovvie e banali, mi meraviglio di cose banali, ma è un periodo in cui un certo ritorno all’evidenza e all’osservazione del presente è necessario proprio perché nessuno si guarda intorno. Si chiama antropologia, ma si chiama anche buonsenso.

Allora nella città più cosmopolita d’Italia, dove il numero degli studenti cinesi sfiora un terzo di quelli italiani e le nostre accademie possono non chiudere perché si fanno ricche delle rette pagate dagli asiatici, comincio a pensa- re che l’Italia è diversa dall’Italia ritratta nei giornali, nelle tv, negli exit poll e compagnia bella. Il pensiero successivo è però: perché invece vince una visione che vorrebbe l’Italia chiusa e da difendere dall’esterno? La visione salviniana del mondo, assunta come propria da chi lo vota o lo voterebbe, cattolico o meno, è irrealistica, questo mi viene da pensare. Cioè non ha a che fare con quanto sta in effetti accadendo. È una visione arretrata di venti, trent’anni, non ha a che fare con l’evoluzione stessa del nostro Paese. Lo sa perfino l’imprenditore leghista che non può permettersi di chiudersi al mondo, sia per commerciare che per avere lavoratori nella sua azienda. Salvini è un vecchio da questo punto di vista, qualcuno che si comporta con la stessa incapacità di vedere il mondo dell’ultimo e più disinformato di noi.

È una vecchia malattia senile, è il tentativo costante della Italietta di restare indietro, di perdere il treno, tutti i treni, per potersi lamentare. Che questa sia anche una parte di certa mentalità cattolica non c’è dubbio. L’idea che la fede sia in pericolo perché non è capace di affrontare il mondo. È un vecchio errore teologico e pastorale, la contrapposizione Chiesa/Mondo che ha fatto più danni di qualunque altro atteggiamento. Oggi in Africa c’è un mondo cattolico in crisi, proprio come in America Latina, proprio perché ha preso le parti del 'passato'. Alle folle povere africane questa Chiesa raccontava che Dio le amava proprio perché erano povere. Per cui quando sono arrivate le sette evangeliche che invitavano i fedeli a cercare di arricchirsi ovviamente hanno vinto. Non c’è un valore nel vivere male, nell’essere poveri, nell’essere emarginati. È sicuramente importante stare dalla parte dei poveri, ma proprio perché smettano di esserlo. Questo miserabilismo è anche un classico del catto-comunismo e come tale è straperdente.

Qui non c’è una questione di buonismo o meno, c’è una pecca fondamentale: il benessere, il piacere di vivere, la vita sviluppata nelle sue potenzialità sono valori cristiani e universali, ce lo ha insegnato Amartya Sen. L’altro grande problema di quel mondo cattolico che vota Salvini è avere creduto in un tipo di 'fraternità' comunitario e tendenzialmente confessionale. Fratelli sì, ma con i simili a te, con i tuoi conterranei, anzi peggio, con i tuoi 'confratelli'. La Chiesa perde così la funzione universale e assume le chiavi malate del nazionalismo francese o del nazionalismo tout-court. La fraternité della trilogia della rivoluzione francese è diventata nella riflessione di Michelet una forma settaria della egalité. C’è una malattia tipica di un certo spirito religioso che mutila l’afflato universalista delle religioni stesse. Che sia la 'chiesa come comunità', la 'Umma' islamica, o la 'Sangha' buddista, il problema è lo stesso. Siamo fratelli solo con quelli che hanno la nostra stessa fede. È proprio l’opposto del messaggio paolino, dell’idea di umanità che ha distinto il cristianesimo da altre fedi. Oggi ce ne sarebbe un bisogno estremo e proprio oggi manca un messaggio forte e chiaro sull’Universalismo.

Ovviamente papa Francesco lo sa e lo fa, ma sarebbe interessante proprio il distinguo. La fraternità non si ispira all’idea di partecipare alla stessa famiglia. Il cristianesimo va più in là. «Non vi ho chiamato servi ma amici», significa che il legame di amicizia che tiene insieme gli umani è preferito da Cristo a qualunque altro legame 'dato': famiglia, tribù, clan, etnia, nazione, maschio o femmina e appartenenza religiosa. Oggi nel mondo il discorso universalista è screditato dalla globalizzazione che ne è la sua versione diabolica. Eppure nella stessa globalizzazione c’è più speranza che nei localismi e nei nazionalismi. Il punto è riscattare la globalizzazione e riportare l’accento sull’universalismo. La Chiesa è una delle poche presenze al mondo che lo può fare, ricusando qualunque tentazione di 'comunitarismo' e 'comunalismo'. Altrimenti passerà la versione spaventata, nostalgica, vecchia, provinciale del 'noi', una versione a cui in fondo nemmeno Salvini crede, perché va contro il suo non essere ancora vecchio. Il suo messaggio è un invito all’arteriosclerosi di un intero Paese. All’irrigidire qualcosa di vivente che si evolve e che ha scambi costanti con il resto dei mondi. D’altro canto tutti i nazionalismi o i fascismi o i nazismi non hanno bisogno di capi che ci credano, ma di furbetti che costringano gli altri a restare indietro rispetto al mondo.

 
 
 

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