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Un mondo nuovo

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Messaggi del 22/12/2018

Non l'avevo mai incontrato

Post n°2888 pubblicato il 22 Dicembre 2018 da namy0000
 

‹‹Io Antonio Megalizzi non l’avevo mai incontrato, ed è strano. Ci occupavamo tutti e due di Europa nella stessa città di provincia, lavoravamo tutti e due per promuovere delle reti di testate europee, abitavamo a 500 metri di distanza. Uno pensa che quella degli appassionati dell’Europa sia una bolla di persone molto piccola, in cui un po’ tutti si conoscono a vicenda – e invece forse così piccola non è. Alla notizia di quest’ultima uccisione ho continuato a stupirmi di quanti siamo. Negli ultimi dieci anni, gli islamisti fanatici hanno ucciso dodici italiani in Europa. Tra loro c’erano giovani e anziani, donne e uomini, lavoratori e turisti. Però ben uno su quattro era un laureato intorno ai trent’anni, in giro per l’Europa per lavoro. Pur nelle loro differenze, il lavoro di Valeria Solesin, Fabrizia Di Lorenzo e Antonio Megalizzi era rendere l’Europa un posto più giusto, interconnesso e aperto. Simon Kuper dice che le persone come loro sono la nuova maggioranza silenziosa, “la generazione meglio istruita, più cosmopolita e più globale della storia”. Sono quelli che la mamma di Giulio Regeni chiama “ragazzi contemporanei”: preparati, curiosi di scoprire e di ascoltare. Non credo che siamo la maggioranza – ma anche quest’ultima storia suggerisce che siamo molti di più di quanto siamo abituati a pensare. Alcune delle ragioni per cui questi “ragazzi contemporanei” non sono così visibili le conosciamo: certi li perdiamo di vista perché si trasferiscono altrove in Europa, altri restano in Italia ma faticano a conquistarsi uno spazio degno nel mercato del lavoro. (Quale che sia la ragione, non è però possibile che la società si accorga di loro e del loro lavoro nel momento in cui muoiono.) Esiste anche un problema di rappresentanza politica di questo pezzo di popolazione italiana, che certo ha opinioni molto diverse, ma che sembra condividere alcuni valori di base, che ruotano intorno all’apertura, a un’etica del lavoro e al rifiuto del provincialismo. Per la prima volta la generazione nata negli anni Ottanta si ritrova un governo e un Parlamento con molti coetanei in posizioni chiave: ma quei coetanei sembrano venire da un’altra epoca o forse da un altro paese, tanto appaiono lontani il loro linguaggio e il loro orizzonte. Non è solo una questione di lontananza politica. All’inizio Matteo Renzi aveva suscitato simpatia in una parte di questi ragazzi contemporanei, ma poi s’è rivelato di un provincialismo disarmante. Nella situazione in cui stiamo, credo che potrei facilmente votare chiunque sia in grado sostenere una conversazione in un paio di lingue straniere e abbia vissuto qualche mese fuori dall’Italia: sulle questioni specifiche poi potremo discutere, ma almeno condivideremmo orizzonti simili. Se i trentenni che lavorano e si muovono sono poco rappresentati nella politica italiana, è anche perché una parte di loro ha trovato altri sbocchi più praticabili o congeniali per il suo impegno. Ci sono cose preziose e urgenti da fare anche in campi della vita sociale diversi dalla politica, soprattutto se si vuole dare un contributo per rendere l’Europa un posto migliore. Uno dei principali ostacoli per cui il progetto di integrazione europea si è incartato nell’ultimo decennio è la debolezza della sfera pubblica europea: finché il progetto di integrazione era un progetto elitario non era un problema; ora che finalmente coinvolge e interroga le persone questo è un problema enorme. Perché se i dibattiti rimangono confinati a livello nazionale “l’Europa” diventa il capro espiatorio perfetto, e perché le idee e le posizioni degli altri attori europei ci arrivano filtrate e stereotipate, quando ci arrivano. In questo panorama, appaiono particolarmente preziose le intuizioni che avevano avuto Antonio Megalizzi e i suoi amici, che sarebbe stato bello conoscere in altri modi. Costruire una rete di testate, cercando di promuovere la sfera pubblica europea dal basso e spesso a partire da una dimensione locale. Dare voce a quei ragazzi contemporanei d’Europa che faticano a ritrovarsi in molta della loro stampa e politica nazionale. E soprattutto farlo attraverso la radio – un mezzo antico che costringe al dialogo e all’ascolto: le virtù più contemporanee che ci siano.›› (Lorenzo Ferrari è uno storico, di mestiere fa libri. Gli piacciono l'Europa, le mappe e le montagne; di solito vive a Trento. Su Twitter è @lorferr.)

 
 
 

Il mio sogno

Post n°2887 pubblicato il 22 Dicembre 2018 da namy0000
 

Un parto in anonimato, una neonata data in adozione. Poi un silenzio lungo oltre mezzo secolo, prima della svolta che permetterà a due famiglie romane di recuperare affetti lontani

Amalia non si dimenticherà mai del Natale 2018. Perché quello di quest’anno sarà il primo che trascorrerà insieme alla sua famiglia ritrovata. Dopo 58 anni ha incontrato per la prima volta la mamma. Insieme a due sorelle e un fratello che non aveva mai saputo di avere. Soltanto fino a un paio di mesi fa non avrebbe mai immaginato di ricevere un dono un tanto grande. E che quel regalo sarebbe arrivato attraverso i social. Anzi, stava per affogare nel più cupo pessimismo.

Dopo anni e anni di ricerche, aveva vissuto la delusione più grande per una persona che cerca di riannodare i fili delle sue origini. Il tribunale di Roma, a cui si era rivolta lo scorso anno per rintracciare la mamma, l’aveva convocata per 'comunicazioni urgenti'. Lei era arrivata con il cuore il gola nell’ufficio della psicologa che si occupa di queste vicende.

Ma dallo sguardo della donna aveva capito subito che le notizie erano tutt’altro che positive. «Sua madre purtroppo ha deciso di confermare la scelta dell’anonimato. Mi spiace». Amalia, romana, classe 1960, è stata abbandonata alla nascita. Capitava spesso tanti anni fa. Si calcola che dagli anni Cinquanta ad oggi siano stati ab- bandonati alla nascita tra i duecento e i trecentomila bambini. Le punte più elevate a cavallo degli anni Sessanta.

E capita tuttora. Ancora lo scorso le donne che hanno deciso di non riconoscere il figlio appena partorito e l’hanno lasciato in ospedale sono state circa un migliaio. Gravidanze arrivate troppo presto, situazioni familiari complicate, povertà, solitudine e tanti motivi ancora. La storia di Amalia è solo una tra le tante. Un mese dopo la nascita, la piccola viene adottata da una generosa famiglia, sempre nella Capitale, che le assicura una vita serena e tranquilla. Amalia cresce, si sposa e ha due figli. «I miei genitori adottivi – racconta – non hanno mai tentato di nascondere le mie origini.

Mi hanno sempre raccontato tutto con tenerezza e semplicità. A me, dopotutto, quella storia della mamma 'naturale' che non aveva potuto tenermi con sé, non importava molto. Mi sentivo amata dalla mamma e dal papà che mi avevano accolto e, senza discussioni, quella era la mia vera famiglia». Con il trascorrere degli anni però il desiderio di alzare il velo sul proprio passato diventa sempre più forte. E i figli, ormai cresciuti, fanno il resto.

Anche per loro è importante scoprire l’identità di quella nonna che era stata costretta a una scelta tanto difficile e tanto dolorosa. «Era una pagina scura su cui noi tutti volevamo fare luce ad ogni costo ». Da qui, anche grazie al sostegno del Comitato per il riconoscimento delle origini biologiche, la 'richiesta di interpello' avanzata al Tribunale di Roma, le ricerche che in pochi mesi sembrano concludersi positivamente. Poi, inattesa, nell’estate scorsa, quella doccia ghiacciata. «Tua madre non desidera incontrarti».

Solo più tardi Amelia scoprirà i motivi di una decisione che al momento le appare incomprensibile. Ma intanto vive settimane di sofferenza acuta, chiede aiuto, verifica le possibilità di proseguire la sua ricerca, poi non può fare altro che rassegnarsi. Il vuoto legislativo che tuttora esiste nel nostro Paese (vedi articolo qui sotto) impedisce alla magistratura di aggirare la volontà di una donna che, dopo un parto in anonimato, decide anche a distanza di molti anni, di confermare quella scelta. Ma verso la fine dell’estate, scorrendo i vari post su un gruppo social, la svolta inattesa. Legge l’appello di una donna romana, poco più giovane di lei, che cerca una sorella maggiore mai conosciuta. E quella sorella si chiama proprio Amalia. Lei, che non ha mai saputo di avere fratelli o sorelle, all’inizio è inevitabilmente incerta.

«Non posso essere io…». Poi la voglia di scoprire chi c’è dietro quell’appello prevale. Uno scambio di messaggi, l’incontro con la donna che potrebbe essere sua sorella, la scoperta che lei conosce molti particolari decisivi. È informata per esempio sul fatto che la mamma nel 1960, aveva avuto una figlia da un fidanzatino poi subito dileguatosi. E che quella bambina era stata lasciata in quel tale ospedale, e poi trasferita in quel tale brefotrofio e poi adottata.

«E la mamma come si chiama? Oddio, sì è proprio lei. Sta bene? Perché non vuole incontrarmi?». Domande angoscianti a cui la sorella – perché ormai è certamente tale – è in grado di fornire tutte le risposte del caso: «Teme il giudizio di nostro padre a cui non ha mai rivelato nulla. E poi, dopo il parto, le avevano detto che tu eri morta. Ma ora le parlo io. Stai tranquilla. Ci siamo ritrovate e non ci lasceremo più».

E così avviene. L’anziana donna, alla notizia che le due sorelle si sono incontrate e hanno immediatamente solidarizzato, scioglie ogni riserva. Anche il tribunale viene informato. Si organizza l’incontro. Arrivano anche l’altra sorella e il fratello. «Quando io e la mamma ci siamo ritrovate per la prima volta da sole, una di fronte all’altra, non abbiamo avuto la forza di dirci nulla. Ci siamo guardate, ci siamo sedute vicine e siamo rimaste così per una ventina di minuti, tenendoci la mano, con le lacrime che ci rigavano il volto». Una mamma ritrovata, tre sorelle e un fratello per cui il Natale sarà davvero avvolto nella luce della vita che ricomincia.

 
 
 

Si può sbagliare festa

Post n°2886 pubblicato il 22 Dicembre 2018 da namy0000
 

Come si fa a non "sbagliare festa", come ci dice il Papa? Stando insieme a un povero, senza limitarci a parlare di povertà o a qualche pur importante gesto. Scopriremo una verità del Natale.

«Si può sbagliare festa», ha detto il Papa. Il rischio c'è, lo sappiamo, ne siamo coscienti. Il rischio di dimenticare il "Festeggiato" e di essere distratti dalle mille cose, pur belle, che accompagnano il Natale. Se sbagli festa puoi ritrovarti in un luogo dove non sei atteso, tra gente sconosciuta, un estraneo tra estranei. Il Papa ci invita a guardare oltre, ad allargare gli orizzonti, sempre troppo angusti. A prendere atto delle nostre potenzialità, delle nostre forze, delle nostre capacità. Ci invita a osare. Francesco ci ha chiesto, per questo Natale, di aiutare «almeno un povero che assomiglia a Dio». Uno solo? Non è troppo poco? Padre Davide Maria Turoldo in una lettera al compianto vescovo di Molfetta, don Tonino Bello, scriveva: «Di gente che ama in astratto è pieno il mondo, ed è piena anche la Chiesa. Ma di gente cha ama in concreto, individualmente e nel modo giusto, come tu vuoi che si avveri, perché la stessa verità cristiana sia vera, e cioè nel modo pieno della condivisione, di gente simile, ripeto, ce n'è poca, o, comunque, troppo poca, anche nella Chiesa».
Ecco, quello del Papa non è un invito al risparmio per mettere a tacere la coscienza, al contrario: è il richiamo a non amare in astratto, a non demandare agli altri quello che possiamo fare noi, a non rimanere affacciati alla finestra a guardare quanto accade, ma a scendere, sporcarci le mani, prendere posizione, essere protagonisti. Ad avere il coraggio di credere che il Signore ha bisogno anche dei nostri pochi pani. Francesco ci chiede di prendere contatto con "questo" povero, "questa" famiglia, "questo" senzatetto, fissarli negli occhi, chiamarli per nome, conoscerne la storia. Da lontano sembriamo tutti uguali, ma prova ad avvicinarti a chi ti tende la mano, fermati a parlare un po' con lui e vedi che ti accade. Padre Turoldo continua: «Caro fratello vescovo, vorrei quasi dirti paradossalmente: non inoltrarti troppo su queste strade dei poveri. Vedrai quanto avrai da soffrire». Turoldo dei poveri se ne intendeva, sapeva bene quanto siano capaci di coinvolgere e, in un certo senso, fare prigioniero chi li avvicina. Quanto sia concreto il rischio di rimanere contagiati dalla "febbre" del farsi prossimo. Secondo Chiara Lubich «meglio il poco fatto da molti che il molto fatto da pochi», e per il beato Pino Puglisi «se ognuno fa qualcosa si può fare molto». 
Quanti siamo nel mondo le donne e gli uomini che sul bambino di Betlemme ci stiamo giocando la vita? Tanti, siamo tanti. Proviamo a immaginare che cosa può accadere se ognuno, secondo il suo carisma, la sua posizione economica, sociale, politica, mettesse in pratica le parole di papa Francesco. E si facesse carico di un povero. 
Mentre scrivo mi giunge dalla Lombardia un messaggio telefonico. È Mimma, la mamma della piccola Fortuna, la bambina di sei anni violentata e uccisa dal suo aguzzino quattro anni fa. Ha altri due figli e per assicurare loro un futuro è emigrata verso il Nord. Cerca un lavoro ma non riesce a trovarlo ancora. Insiste. Resiste. Indietro non vuol tornare, non deve tornare, non torna. Ha bisogno di aiuto. Una donna povera, con un volto, un nome, una tragedia alle spalle. Il Papa non ci ha chiesto di essere eroi, di rinunciare a tutto ciò che abbiamo, di non addobbare di luci colorate l'albero, di non godere del calore della famiglia. No, ci ha chiesto di non dimenticarci del "Festeggiato", di non lasciarci distrarre dal consumismo eccessivo, di non smarrire l'indirizzo esatto del luogo dove si tiene la festa. Di non badare troppo all'apparenza trascurando la sostanza. 
Natale è ormai alle porte, in tanti affolleremo le chiese in questo giorno benedetto. Doppio appuntamento, dunque. Davanti all'Altare, dove Gesù nascosto nella Parola e nel Pane ci perdona, ci parla, ci consola. E dal povero, dal quale abbiamo il dovere di correre per consolare lui e Gesù con la stessa consolazione con cui siamo stati consolati. Solo allora possiamo essere certi di non aver sbagliato il luogo della festa (
Maurizio Patriciello venerdì 21 dicembre 2018).

 
 
 

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