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« Di credenze, spiritualit...Finalmente »

Madeleine al neon

Post n°346 pubblicato il 07 Dicembre 2013 da viburnorosso

Un giorno torno a casa:  ora, stesso traffico, stessa strada.
Anche i pensieri sono gli stessi di sempre. 
Cioè non esattamente gli stessi del giorno prima, ma comunque pensieri stanchi di quel tipo che si fanno a quell’ora della giornata.

Attraverso la piazza, passo sotto al ponte, supero l’incrocio all’angolo dove un tempo c’era la libreria, ed è lì che con la coda dell’occhio percepisco un dettaglio in grado di riattivare residue connessioni neuronali:
davanti alla vetrina del fornaio hanno appeso le luminarie di Natale.
Le prime che mi capita di vedere quest’anno:  un discutibile fiocco rosso al neon al cui interno splende stilizzata una candela sopra una foglia di agrifoglio.

Provo un moto di inquietudine.
Piano piano nella testa mi si accendono melassosi motivetti di pandori e panettoni buoni buoni, faccio un rapido calcolo mentale e mi rendo conto che mancano meno di venti giorni all’evento più atteso dell’anno.

Anche stavolta la rivelazione mi ha colto di sorpresa: non sono pronta per tutta la paccottiglia regalizia, ma soprattutto, per lo psicodramma del pranzo di Natale in famiglia.
Non si potrebbe spostare il tutto a gennaio?
Volendo anche ai primi di febbraio, giusto il tempo di abituarmi all’idea!

Questo è il mio primo pensiero. 
Ma subito ne segue un altro. 

Come una nostalgia di vischio e pungitopo. 
Di bambinelli nella greppia.
Di mani appiccicose di resina e porporina dorata.
Di attese da ingannare.
Di bustine di zucchero a velo  da far nevicare sul pandoro. 
Della vecchia scatola degli addobbi da recuperare in cantina, sotto al secchiello e gli accessori da mare. 
Dentro le campanelle dorate e un babbo Natale grande di stagnola colorata che la zia aveva spedito dalla Germania e nessuno aveva mai avuto il coraggio di scartare. 
Con il tempo gli strappi sul vestito avevano inaspettatamente svelato un cuore di cioccolato, e io custodivo quel suo segreto con rammendi di carta argentata. 

Ero ancora nella vecchia casa sulla Via Cassia,  quella col grande salone doppio con i pavimenti di marmo.
L’albero era vero e le palline di vetro: una volta avevo avuto l’azzardo di studiarne  un po’ troppo da vicino una, quella era caduta a terra spaccandosi in migliaia di schegge opalescenti e io ero rimasta con il gancetto metallico in mano che sembrava uno quegli affari che stanno dentro alle lampadine, anche se una lampadina, a dire il vero, non avevo mai avuto il coraggio di aprirla, nonostante più volte mi fosse venuto di desiderio di vedere cosa succede a far uscire la luce.

Ricordi inattesi, che la mente è capace di rievocare e ripercorrere nei pochi secondi in cui le luminarie del fornaio eseguono per intero il loro giro di luce.
Fiocco … candela …  agrifoglio …  
E sono di nuovo le sette di sera di un freddo pomeriggio di dicembre. 
Tiro dritto. Sciarpa al collo, mani in tasca e un principio di tenerezza in fondo alla via.

 
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