Creato da viburnorosso il 02/06/2011
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Quando nel 1991 si sciolse l’Unione Sovietica, le Repubbliche dell’Asia Centrale, quelle, per capirci, con quei nomi complicati che finiscono tutti per –stan, proclamarono la loro indipendenza.
Dopo un inizio un po’ incerto, le giovani dittature (perché di fatto questa è la forma di governo da cui questi popoli sono retti) hanno cercato di delineare la loro nuova identità, dibattendosi tra la conservazione del vecchio apparato sovietico e la nuova deriva filoislamica. E sebbene i risultati siano stati diversi, anche perché diverse sono le risorse di cui questi Paesi dispongono (c’è, per dire, chi ha il gas e chi invece c’ha solo la steppa), oggi queste nazioni cominciano ad essere guardate con un certo interesse dalle spompate economie europee alla disperata ricerca di nuovi mercati.
Tutto questo pistolotto socio-economico per dire, prendendola effettivamente un po’ alla larga, che l’altra sera sono stata invitata al rinfresco organizzato dall’ambasciata di uno di questi –stan per l’anniversario della sua indipendenza.
Siccome a questo appuntamento presenzio, per motivi di lavoro (diventati nel frattempo di amicizia), ormai da qualche anno, non ho potuto fare a meno di notare il crescente dispiego di risorse nell’organizzazione della serata, a dimostrazione dell'affidabilità economica del Paese di fronte ai nuovi possibili investitori.
Per la location - come oramai è consuetudine dire, perché “posto” banalizzerebbe l’evento senza conferirgli il giusto glamour – ad esempio quest’anno è stato scelto uno dei più prestigiosi alberghi della capitale. L’albergo, che porta il nome di una famosissima catena nota nel mondo per le sue luccicanti 5 stelle, si trova in cima ad una collina (che però qui chiamiamo con una certa esagerazione “monte”), da cui si apre una vista mozzafiato sulla capitale.
A dir la verità, anche la vista dalla città verso il monte lascia senza fiato, ma piuttosto per l’estetica da ecomostro dell’albergo stesso, concepito in pieno boom edilizio anni ’60, quando piantare un colossale alveare di cemento al centro di un parco serviva a dimostrare il sopraggiunto benessere economico.
La tracotanza dell’esterno viene però compensata dalla raffinatezza degli interni.
Una sfilata di costose boutique conduce alla sala del rinfresco, come nella versione lusso di un centro commerciale, con l’unica differenza che qui ci si mangia dentro a piatti veri e non nei vassoi di plastica del Mac Donald. Per il resto, la stessa identica esaltazione dei consumi degli anni che hanno preceduto l’attuale richiamo ad una nuova sobrietà.
Dal soffitto a cassettoni laccato bianco, preziosi specchi fumé riflettono i complessi disegni della moquette, mentre alle pareti, lampade dorate a forma di cornucopia lanciano promesse di un’opulenza ormai fuori dai tempi, a cui sia il buffet che l’abbigliamento degli invitati sembrano conformarsi.
Qua e là raccolgo frammenti di conversazioni. C’è un signore di mezza età in doppiopetto blu con i bottoni dorati che cerca clienti per il suo business di medicina estetica e ce ne è un altro che ha già al suo attivo un avviato commercio di forniture per l’esercito –stano.
Tutti, meno che me e i soliti inevitabili imbucati, sono lì per stringere contatti, stabilire rapporti, agganciare, in una parola, il pollo da spennare.
Lo capisci perché se vedi due conversare con un’espressione di consumata confidenzialità, sì da sembrare amici di vecchissima data, puoi star certo che al momento di salutarsi tireranno ciascuno fuori dal portafogli il proprio bigliettino da visita.
Comunque sto divagando, che non è di questo che volevo parlare. Perciò senza farvi perdere ulteriore tempo passerò a quello che è stato a mio dire il pezzo forte della serata, ovvero l’esibizione canora della giovanissima cantante –stana, nonché momento rivelatorio di un sessismo che fatico a stabilire se arcaico o di ritorno.
Siccome da questo momento in poi il post subirà un'evidente deriva moraleggiante, con annesso rischio di irritante femminismo, se questo è il tipo di argomenti che vi provocano l’orticaria, passate tranquillamente oltre e non dite che non vi avevo avvertito.
Con chi è rimasto, torniamo invece dalla cantante, la quale nel frattempo si esibiva graziosamente abbigliata in una rivisitazione sexy del costume nazionale di quel Paese.
Dalle sete damascate del vestito, infatti, spuntavano in soccorso delle sue fragili corde vocali generosi centimetri di gambe.
La ragazza, dopo 3-4 tentativi di sincronizzare il suo playback con la base canora, decideva di contenere il danno limitandosi a muovere le sue grazie al ritmo trascinante del pop arabo.
Ogni esecuzione era preceduta da una breve presentazione del brano che iniziava invariabilmente con frasi del tipo “Ed adesso canterò per voi ...”, “Sono qui apposta per voi …” a evocare quel concetto esclusivo ed elitario che è l’elemento fondante dell’etica dell’arricchito.
La madre della ragazza, una versione platinata di Moira Orfei, solo di stazza leggermente meno imponente, intanto accarezzava compiaciuta il CD della figlia, tenuto casualmente in bella mostra, e tratteneva a fatica il suo orgoglio materno ogni volta che intercettava lo sguardo insalivato di qualche cariatide in giacca e cravatta.
Ovviamente l’esibizione è tutta una promessa di seduzione, un miraggio coitale da cui traspare un sottotesto che recita:
“Sono qui solo per te, prendimi”.
Non sono in grado di comprendere i testi delle canzoni, cantate in una ignota lingua altaica, però dalla mimica facciale della giovane cantante, e beh, certo, anche un po’ da quella corporea, capisco che sono pregni di significati e carichi di allusioni.
Alla fine del sesto pezzo la ragazza ci annuncia che finalmente, solo per noi, ovvio, canterà una canzone nella nostra lingua.
Mi chiedo su quale pezzo del bel canto italico ricadrà la scelta, se su un brano neomelodico o su pezzo pop sanremese. Escludo a priori la canzone d’autore, non so bene il motivo, ma mi viene di pensare così.
Parte invece una base musicale in stile RadioCairo che mi pare in tutto e per tutto identica alle precedenti, con la semplice variante che stavolta il testo è comprensibile e recita un messaggio che può essere facilmente riassunto nella seguente maniera:
“Da quanto mi hai lasciato, non vivo più: ti prego, riprendimi con te!”.
A questo punto mi partono automaticamente un paio di considerazioni.
La prima riguarda il modello femminile che in questo momento nel Paese in questione deve essere considerato quello socialmente più accettabile, ovvero la donna è un grazioso esserino ammiccante, di cui l’uomo può liberamente disporre per soddisfare le sue necessità primarie, giacché ella non sporca, non perde peli, è fedele e provvede da sola ai suoi bisogni corporei. E soprattutto non ha elevate richieste: per dare un senso della sua esistenza, le basta che l’uomo se la tenga con sé (a quale condizione non è dato sapere).
Adesso io, conoscendo splendidi esemplari di donne di quel popolo, sarei propensa a credere che le cose non stiano esattamente così. A meno che, e non lo escludo, un certo sessismo di matrice arcaica non stia minando alla base settant’anni di egalitarismo sovietico.
La seconda considerazione riguarda invece il fatto ben più grave che questo modello non solo viene considerato accettabile, ma financo esportabile.
Perché se questo è il messaggio col quale si tenta di accalappiare l’eventuale imprenditore straniero - che alla fine sempre di un’operazione di marketing si tratta - evidentemente è di ciò che diamo l’idea di avere bisogno.
Sui motivi del perché questo accade, ci sarebbe molto da dire, ma finiremmo per chiamare in causa almeno gli ultimi vent'anni della storia del nostro Paese.
E non mi pare il caso.
Soprattutto se si è in fila davanti al tavolo dei formaggi con un calice di Chianti in una mano e un piatto nell’altra.
Che gli equilibri è bene non vadano turbati.
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