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Messaggi di Settembre 2013

Apprendimento cooperativo

Post n°325 pubblicato il 27 Settembre 2013 da viburnorosso
 

“Conoscere e rispettare le fragilità reciproche”.
Così è scritto al terzo punto del progetto psicopedagogico di apprendimento cooperativo promosso dalla scuola media del Gufetto.
Mentre la giovane professoressa di ginnastica me lo illustra, lo sguardo si posa sulla sua maglietta, ha un cuore all’altezza del cuore e una faccia coperta di lentiggini che fanno estate.
Mi fa delle domande e si appunta su un foglio le risposte: la scrittura le si arriccia verso l’alto come un sorriso.

Il sole che entra dalla finestra arroventa la formica verde del banco al quale sono seduta. Qui dentro d’estate mi sa che si suda, penso.
Sposto la sedia per guadagnare un po’ d’ombra e lei sposta la sua per farmi spazio.
Per un attimo i nostri pensieri inciampano l’uno su l’altro e si riconoscono, ma ognuna tira a sé il proprio trascinandolo sul pavimento, prima che possano simpatizzare più  di quanto l’ufficialità del contesto autorizzi.
“Che caldo!” ci limitiamo  ad esclamare contemporaneamente.

Il progetto è stato pensato perché questo è una zona con delle problematicità, mi dice.
Lo so. Lo sapevo anche quest’inverno, mentre mi ponevo dubbi sull’opportunità della mia scelta.
Certo, nella scuola bene del quartiere  bene a poca distanza da qui, il programma psicopedagogico prevede una settimana di campo sportivo per imparare i fondamenti della vela e del tiro con l’arco.
Le famiglie che possono permetterselo, comprano a basso costo per i loro figli socializzazione e divertimento.
Quelle che non possono, restano a guardare – gratis – lo spettacolo di quelli che socializzano e si divertono.
E  anche questo, se vogliamo, è a suo modo istruttivo.

Io però rimango dell’idea che se si insegna ai ragazzi il coraggio di mostrarsi fragili, sapranno difendersi anche senza aver imparato a lanciare frecce in attacco o a issare vele per la fuga.
Più semplicemente aiutandosi l’uno con l’altro.
E sollevando in due il banco verde da sotto la finestra, che in effetti quando ci batte il sole là  sotto non si resiste.

 

 
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Come talvolta all'estero restituiscano un'immagine sessista della nostra società. Però la selezione di formaggi era fantastica

Post n°324 pubblicato il 23 Settembre 2013 da viburnorosso
 

Quando nel 1991 si sciolse l’Unione Sovietica, le Repubbliche dell’Asia Centrale, quelle, per capirci, con quei nomi complicati che finiscono tutti per –stan, proclamarono la loro indipendenza.

Dopo un inizio un po’ incerto, le giovani dittature (perché di fatto questa è la forma di governo da cui questi popoli sono retti) hanno cercato di delineare la loro nuova identità, dibattendosi tra la conservazione del vecchio apparato sovietico e la nuova deriva filoislamica. E sebbene i risultati siano stati diversi, anche perché diverse sono le risorse di cui questi Paesi dispongono (c’è, per dire, chi ha il gas e chi invece c’ha solo la steppa), oggi queste nazioni cominciano ad essere guardate con un certo interesse dalle spompate economie europee alla disperata ricerca di nuovi mercati.

Tutto questo pistolotto socio-economico per dire, prendendola effettivamente un po’ alla larga, che l’altra sera sono stata invitata al rinfresco organizzato dall’ambasciata di uno di questi –stan per l’anniversario della sua indipendenza.
Siccome a questo appuntamento presenzio, per motivi di lavoro (diventati nel frattempo di amicizia), ormai da qualche anno, non ho potuto fare a meno di notare il crescente dispiego di risorse nell’organizzazione della serata, a dimostrazione dell'affidabilità economica del Paese di fronte ai nuovi possibili investitori.

Per la location - come oramai è consuetudine dire, perché “posto” banalizzerebbe l’evento senza conferirgli il giusto glamour – ad esempio quest’anno è stato scelto uno dei più prestigiosi alberghi della capitale. L’albergo, che porta il nome di una famosissima catena nota nel mondo per le sue luccicanti 5 stelle, si trova in cima ad una collina (che però qui chiamiamo con una certa esagerazione “monte”), da cui si apre una vista mozzafiato sulla capitale.
A dir la verità, anche la vista dalla città verso il monte lascia senza fiato, ma piuttosto per l’estetica da ecomostro dell’albergo stesso, concepito in pieno boom edilizio anni ’60, quando piantare un colossale alveare di cemento al centro di un parco serviva a dimostrare il sopraggiunto benessere economico.

La tracotanza dell’esterno viene però compensata dalla raffinatezza degli interni.
Una sfilata di costose boutique conduce alla sala del rinfresco, come nella versione lusso di un centro commerciale, con l’unica differenza che qui ci si mangia dentro a piatti veri e non nei vassoi di plastica del Mac Donald.  Per il resto, la stessa identica esaltazione dei consumi degli anni che hanno preceduto l’attuale richiamo ad una nuova sobrietà.
Dal soffitto a cassettoni laccato bianco, preziosi specchi fumé riflettono i complessi disegni della moquette, mentre alle pareti, lampade dorate a forma di cornucopia lanciano promesse di un’opulenza ormai fuori dai tempi, a cui sia il buffet che l’abbigliamento degli invitati sembrano conformarsi.

Qua e là raccolgo frammenti di conversazioni. C’è un signore di mezza età in doppiopetto blu con i bottoni dorati che cerca clienti per il suo business di medicina estetica e ce ne è un altro che ha già al suo attivo un avviato commercio di forniture per l’esercito –stano.
Tutti, meno che me e i soliti inevitabili imbucati, sono lì per stringere contatti, stabilire rapporti, agganciare, in una parola,  il pollo da spennare.
Lo capisci perché se vedi due conversare con un’espressione di consumata confidenzialità, sì da sembrare amici di vecchissima data, puoi star certo che al momento di salutarsi tireranno ciascuno fuori dal portafogli il proprio bigliettino da visita.

Comunque sto divagando, che non è di questo che volevo parlare. Perciò senza farvi perdere ulteriore tempo passerò a quello che è stato a mio dire il pezzo forte della serata, ovvero l’esibizione canora della giovanissima cantante –stana, nonché momento rivelatorio  di un sessismo che fatico a stabilire se arcaico o di ritorno.
Siccome da questo momento in poi il post subirà un'evidente deriva moraleggiante, con annesso rischio di irritante femminismo, se questo è il tipo di argomenti che vi provocano l’orticaria, passate tranquillamente oltre e non dite che non vi avevo avvertito.

Con chi è rimasto, torniamo invece dalla cantante, la quale nel frattempo si esibiva graziosamente abbigliata in una rivisitazione sexy del costume nazionale di quel Paese.
Dalle sete damascate del vestito, infatti, spuntavano in soccorso delle sue fragili corde vocali generosi centimetri di gambe.
La ragazza, dopo 3-4 tentativi di sincronizzare il suo playback con la base canora, decideva di contenere il danno limitandosi a muovere le sue grazie al ritmo trascinante del pop arabo.
Ogni esecuzione era preceduta da una breve presentazione del brano che iniziava invariabilmente con frasi del tipo “Ed adesso canterò per voi ...”, “Sono qui apposta per voi …” a evocare quel concetto esclusivo ed elitario che è l’elemento fondante dell’etica dell’arricchito.  

La madre della ragazza, una versione platinata di Moira Orfei, solo di stazza leggermente meno imponente, intanto accarezzava compiaciuta il CD della figlia, tenuto casualmente in  bella mostra, e tratteneva a fatica il suo orgoglio materno ogni volta che intercettava lo sguardo insalivato di qualche cariatide in giacca e cravatta.
Ovviamente l’esibizione è tutta una promessa di seduzione, un miraggio coitale da cui traspare un sottotesto che recita:
“Sono qui solo per te, prendimi”.

Non sono in grado di comprendere i testi delle canzoni, cantate in una ignota lingua altaica, però dalla mimica facciale della giovane cantante, e beh, certo, anche un po’ da quella corporea, capisco che sono pregni di significati e carichi di allusioni.
Alla fine del sesto pezzo la ragazza ci annuncia che finalmente, solo per noi,  ovvio,  canterà una canzone nella nostra lingua.
Mi chiedo su quale pezzo  del bel canto italico ricadrà la scelta, se su un brano neomelodico o su pezzo pop sanremese. Escludo a priori la canzone d’autore, non so bene il motivo, ma mi viene di pensare così.

Parte invece una base musicale in stile RadioCairo che mi pare in tutto e per tutto identica alle precedenti, con la semplice variante che stavolta il testo è comprensibile e recita un messaggio che può essere facilmente riassunto nella seguente maniera:  
“Da quanto mi hai lasciato, non vivo più: ti prego, riprendimi con te!”.

A questo punto mi partono automaticamente un paio di considerazioni.
La prima riguarda il modello femminile che in questo momento nel Paese in questione deve essere considerato quello socialmente più accettabile, ovvero la donna è un grazioso esserino ammiccante, di cui l’uomo può liberamente disporre per soddisfare le sue necessità primarie, giacché ella non sporca, non perde peli, è fedele e provvede da sola ai suoi bisogni corporei. E soprattutto non ha elevate richieste: per dare un senso della sua esistenza, le basta che l’uomo se la tenga con sé (a quale condizione non è dato sapere).
Adesso io, conoscendo splendidi  esemplari di donne di quel popolo, sarei propensa a credere che le cose non stiano esattamente così. A meno che, e non lo escludo, un certo sessismo di matrice arcaica non stia minando alla base settant’anni di egalitarismo sovietico. 

La seconda considerazione riguarda invece  il fatto ben più grave che questo modello non solo viene considerato accettabile, ma financo esportabile.
Perché se questo è il messaggio col quale si tenta di accalappiare l’eventuale imprenditore straniero - che alla fine sempre di un’operazione di marketing si tratta - evidentemente è di ciò che diamo l’idea di avere bisogno.
Sui motivi del perché questo accade, ci sarebbe molto da dire, ma finiremmo per chiamare in causa almeno gli ultimi vent'anni della storia del nostro Paese.
E non mi pare il caso.
Soprattutto se si è in fila davanti al tavolo dei formaggi con un calice di Chianti in una mano e un piatto nell’altra.
Che gli equilibri è bene non vadano turbati.

 

 
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Visioni menta-li

Post n°323 pubblicato il 17 Settembre 2013 da viburnorosso
 
Tag: menta

Quel giorno di fine agosto,
che abbiamo mangiato al sacco sui tavoli sotto ai castagni, che era ancora caldo, ma noi sotto all'ombra fitta e umida sentivamo quasi freddo,
e allora ci siamo spostati sotto a quell'albero con i rami più spogli, dove il sole disegnava un ricamo di luce e tepore sulle assi sconnesse di legno,
quel giorno, che abbiamo pranzato afferrando con le mani le fette di mortadella direttamente dal pacchetto di carta oleata e strappando il pane a morsi dalla pagnotta, e poi abbiamo lavato le susine al fontanile e ci siamo chiesti se fosse il caso di buttare il nocciolo a terra, che magari ci viene su un bell'albero, ma magari no, e poi chi fa il pic-nic in quel posto lì non è bello che trovi un nocciolo masticato, che fa subito discarica, e allora l’abbiamo gettato nel secchio dei rifiuti,
quel giorno, quando dopo mangiato abbiamo preso il sentiero che dai castagni porta su, verso la faggeta, e lungo la strada abbiamo raccolto le more, con i piedi che affondavano nell’argilla morbida, e i sandali che si riempivano di terra e foglie, e intanto dicevamo, accidenti, a saperlo ci mettevamo le scarpe chiuse, ma non ci era venuto in mente, che erano ancora giornate da sandali e calzoncini corti,
quel giorno, giunti nella radura, io mi sono chinata verso i cespugli verdi che crescevano a macchia nell’unico punto dove batteva il sole, e ho esclamato con la soddisfazione di chi ha trovato quello che stava cercando:

“Ecco la è menta selvatica”.

Poi ho sfilato tre rametti da terra e sono venuti via facile facile, con tutta la loro zolla ancora attaccata, li ho scossi delicatamente in aria per liberare le radici dalla terra e li ho messi nella busta con le more.
A casa ho infilato le piantine in un barattolo pieno d’acqua e le ho lasciate lì tre giorni, finché le foglie appassite si sono riprese.
Al secondo giorno ho pure rabboccato l’acqua, che mi piaceva pensare se la fossero bevuta i rametti assetati.
La mattina che P. aveva il treno, ho avvolto le radici nello scottex bagnato e poi le ho ficcate in una bustina del supermercato. Quindi ho sistemato la bustina nella tasca esterna dello zaino di L., con i rami che uscivano fuori dalla cerniera lampo e puntavano verso l’alto come l’antenna di una radio.
E così P. e L sono partiti verso casa, laggiù nell’Oltrepò Pavese.

Poi ci sono stati altri giorni di caldo, e quando nessuno se l’aspettava più, è arrivata anche la pioggia,
io sono tornata in città, ho ripreso il lavoro, allineando carte e pensieri in pile alte e ordinate sulla scrivania.
Presto quei cumuli sono crollati sotto al loro stesso peso, spargendosi irrisolti ovunque, fino a seppellire per intero anche il tavolo di legno sotto ai castagni.
Abbiamo finito il ricordo delle more senza riuscire a farne marmellata e i nostri visi sono rapidamente sbiaditi all’ombra della noia.
Della menta è rimasto solo il nome su un pacchetto di gomme masticate troppo a lungo, per la pigrizia di trovare un secchio dentro al quale buttarle.
ll primo di settembre ho strappato dal calendario il foglio di un agosto che forse, ho pensato, non c’era mai stato.
Dopo una settimana quel dubbio è diventato una certezza.
Alla fine della seconda settimana la certezza si è fatta costanza.

Finché stamattina mi è arrivato questo messaggio:

“Ciao Viburna, scusa se non mi sono fatta più sentire, ma sono stata travolta dall'inizio, da settembre e  da mille seccature.
Però volevo dirti che la menta è attecchita benissimo.
A presto P.”

Ecco, il pensiero che quella ueIl pensiero che quella piantina sia sopravvissuta all'entropia di settembre, mettendo le radici in terra di brume, nebbia e risaie,
è bastato da solo a restituirmi quello scampolo d’estate.
Insieme alla consolante visione di un piatto di melanzane grigliate olio, aglio e menta fresca.

 

 
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Arguzie al ristorante

Post n°322 pubblicato il 14 Settembre 2013 da viburnorosso
 

-       Scusa mamma, ma perché ci hanno fatto pagare il coperto se abbiamo mangiato fuori in giardino?

-       In effetti …

 
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Dialoghi (sur)reali, ovvero i poeti non invecchiano mai

Post n°321 pubblicato il 11 Settembre 2013 da viburnorosso
 

-        Professoressa, lei conosce il poeta lituano Vytautas Juškaitis?

-        No, mai sentito? Le piace?

-        Molto! ha un modo molto peculiare di affrontare tematiche attuali.  Scrive su questioni che ci toccano tutti, perché è un poeta contemporaneo, anzi è vivente. Anche se in verità non è più tanto giovane.

-        Ah, interessante. E quanti anni ha?

-        36.

-        Quanti? [da leggere con intonazione retorica interrogativa che in realtà tradisce un’incredulità che vira verso lo sgomento]

-        36, Professoressa! Bè, certo non è più giovane, però dovrebbe leggerlo, da non credere le cose che riesce a scrivere! [da sottintendere la presenza dell’avverbio “ancora”, facilmente ricavabile dal profilo intonazionale dell’enunciato]

-        Accidenti! nonostante l’età?
Comunque grazie del consiglio, e visto che è qui gliene do uno anche io: provi a riformulare meglio il suo pensiero.
E si ricordi che il 25 c’è l’esame.
Arrivederci.

 
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