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Messaggi del 23/01/2019
Post n°1840 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
22 novembre 2018 L'alba dell'industria litica in Cina Decine di schegge di pietra scoperte nella grotta di Guanyindong, nella Cina meridionale, risalgono a un periodo compreso tra 80.000 e 170.000 anni fa: dimostrano che la tecnica di scheggiatura Levallois, che segnò un progresso importante nella produzione di utensili in pietra nel Paleolitico, emerse in quella regione molto prima di quanto era stato stimato(red) Quando si parla di tecnologia Made in China si pensa immediatamente all'elettronica di consumo prodotta dal gigante asiatico. Per una volta invece bisogna andare con la mente all'alba della civiltà umana, perché stiamo parlando di utensili in pietra che risalgono a un periodo compreso tra 80.000 e 170.000 anni fa. gli archeologi di una collaborazione internazionale guidata dall'Università di Washington, firmatari di un articolo apparso su "Nature". E testimoniano l'esistenza in quella regione e in quell'epoca di un metodo di scheggiatura della pietra noto come tecnica Levallois, dal nome del sobborgo parigino nei pressi del quale, nell'Ottocento, furono scoperti i primi reperti di quel tipo. Alcuni dei manufatti litici analizzati nello studio (Credit: Marwick et al.) in Europa occidentale a partire da 300.000 anni fa, ma si riteneva che in Asia orientale fosse comparsa solo 30.000-40.000 anni fa. successive e rappresenta un approccio più sofisticato alla produzione di utensili rispetto ai periodi precedenti, in cui si usavano semplici pietre di forma ovale. Il prodotto finale è una scheggia di grandi dimensioni con una superficie sfaccettata, usata come una sorta di attrezzo universale, con cui si poteva trafiggere, tagliare, raschiare o scavare. Levallois è il coltellino svizzero della preistoria", ha spiegato Ben Marwick, primo autore dell'articolo. "Era efficace e duratura, indispensabile in una società di cacciatori-raccoglitori in cui una punta di lancia rotta avrebbe potuto significare morte certa sotto gli artigli o i denti di un predatore". sono stati scoperti nella grotta di Guanyindong, nella provincia di Guizhou, già negli anni sessanta e settanta, ma la loro datazione è rimasta a lungo incerta: la tecnica degli isotopi dell'uranio aveva infatti stimato l'età del sito entro un ampio arco temporale, tra i 50.000 e i 240.000 anni. lontano dai manufatti di pietra", ha sottolineato ha detto Marwick. "L'analisi dei sedimenti vicini fornisce indizi più specifici sul periodo in cui erano in uso". usato una tecnica detta luminescenza ottica stimolata (OSL) che può stabilire quando un campione di sedimento - basta anche un solo granello di sabbia - è stato esposto per l'ultima volta alla luce solare. Da ciò si può quindi stimare per quanto tempo è rimasto sepolto un manufatto scoperto nello stesso strato di sedimenti. trovati nella Grotta di Guanyindong, riducendo poi l'analisi a 45 reperti in pietra in stile Levallois. Per quelli ritenuti più antichi, risalenti a 130.000- 180.000 anni fa, è stato identificato anche l'ambiente in cui erano stati utilizzati: un bosco che sorgeva su un paesaggio roccioso, in una foresta pluviale più piccola rispetto a oggi. retrodatazione è particolarmente importante perché non ci sono fossili umani che possano collegare gli utensili alla migrazione di popolazioni nella regione. Questo significa che la tecnologia si è evoluta in modo indipendente in parti diverse del mondo preistorico. emersa in Cina in tempi relativamente recenti", ha aggiunto Marwick. "Il nostro lavoro rivela la complessità e l'adattabilità delle popolazioni che vivevano qui, equivalenti a quelle che si osservano nei reperti archeologici di altre parti del mondo, e mostra la diversità dell'esperienza umana". |
Post n°1839 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
30 novembre 2018 Hanno 2,4 milioni di anni i più antichi manufatti del Nord Africa Strumenti in pietra risalenti a quasi due milioni e mezzo di anni fa sono stati scoperti in un sito archeologico algerino. Di poco più recenti dei primissimi utensili litici dell'Africa orientale, ndicano che la tecnologia della scheggiatura della pietra ha avuto una rapida diffusione, oppure che si è sviluppata simultaneamente in più regioni del continente(red) Manufatti di pietra e ossa di animali macellati risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa sono stati scopeti nel sito archeologico di Ain Boucherit, nel bacino del Beni Fouda, sull'altopiano dell'Algeria nord-orientale. La scoperta - opera di un gruppo di ricercatori diretto da Mohamed Sahnouni del Centre National de Recherches Préhistoriques ad Algeri, e pubblicata su "Science" - retrodata di oltre mezzo milione di anni i più antichi strumenti litici mai trovati in Nord Africa. Un nucleo di pietra scheggiata rinvenuto ad Ain Boucherit. (Cortesia M. Sahnouni) La loro fabbricazione risalirebbe approssimativamente allo stesso periodo di quelli in assoluto più antichi, scoperti in Africa orientale in diverse regioni della Rift Valley, dalla gola di Olduvai, in Kenya, fino al bacino dell'Hadar, in Etiopia. Ciò implica, osservano i ricercatori, che la tecnica di produzione di manufatti litici si diffuse dall'Africa orientale in altre regioni del continente in modo eccezionalmente rapido, oppure che ebbe origine quasi simultaneamente in regioni differenti. sono stati portati alla luce anche in uno strato di roccia più recente, databile a 1,9 milioni di anni fa, e dunque coevi o di poco precedenti a quelli finora considerati i più antichi dell'Africa settentrionale. ottenere gli strumenti di Ain Boucherit - che comprendono utensili da taglio a spigolo vivo per la lavorazione di carcasse animali - sembra la stessa di quella usata per i manufatti di Olduvai, pur mostrando sottili variazioni, forse imputabili al tipo di pietra calcarea e selce disponibili localmente. Tuttavia sono state scoperte anche pietre lavorate di una forma che non trova riscontri nei reperti provenienti dall'Africa orientale, e la cui funzione non è stata ancora chiarita. degli utensili in pietra sono composte principalmente da resti di bovini ed equidi di piccole e medie dimensioni. I segni rilevati suggeriscono che venissero scuoiati, eviscerati e scarnificati, e che diverse ossa venissero frantumate per accedere al midollo. Non è però chiaro se questi antichi ominidi si dedicassero alla caccia o si limitassero ad approfittare di animali morti, caduti preda di grandi carnivori. Un piccolo osso di bovino con segni di taglio (nel riquadro) dovuti agli utensili in pietra trovati ad Ain Boucherit. (Cortesia I. Caceres)Finora non sono stati trovati resti di ominidi in associazione diretta con i primi strumenti di pietra conosciuti, né in Nord Africa, né in Africa orientale, per cui non si sa a quale o quali specie vada attribuita la paternità di quei manufatti e neppure se gli autori appartenessero al genere Australopithecus o a una delle prime forme di Homo, che secondo una recente scoperta forse era già presente in Etiopia 2,8 milioni di anni fa. Sahnouni - cambiano il punto di vista precedente secondo cui l'Africa orientale sarebbe stata la culla dell'umanità. Di fatto, è stata l'intera Africa a essere la culla dell'umanità." |
Post n°1838 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 09 novembre 2018 Una nuove versione del popolamento delle Americhe L'analisi del DNA ottenuto dai resti di antichi abitanti del Nord e del Sud America ha mostrato che il popolamento del continente americano ha seguito modelli di dispersione complessi, rivelando anche l'enigmatica presenza di antichi gruppi umani imparentati con popolazioni dell'Australasia. Il popolamento delle Americhe è stato molto più complesso di quanto ipotizzato, e in alcune regioni vi hanno contribuito gruppi ancestrali finora sconosciuti, come dimostra una "firma" genetica che li apparenta alle popolazioni australasiatiche, in particolare agli indigeni del Papua, dell'Australia e delle isole Andamane. A scoprirlo è stato un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Eske Willerslev e J. Víctor Moreno-Mayar dell'Università di Copenaghen, in Danimarca, che firmano un articolo pubblicato su "Science". umane in Nord e Sud America, arrivando alla conclusione - basata prevalentemente sul confronto del genoma di persone viventi e un numero limitato di DNA antichi, provenienti per lo più dal Nord America - che le prime popolazioni americane avrebbero iniziato a differenziarsi dai loro antenati siberiani ed estremo-orientali poco meno di 25.000 anni fa; in seguito, circa 15.000 anni fa, queste prime popolazioni si sarebbero diversificate ulteriormente in nordamericane e sudamericane. Tuttavia ben poco si sapeva sulla dinamica dei successivi spostamenti di queste genti. Una delle sepolture in cui sono stati rinvenuti i resti analizzati. (Cortesia Mark Aldenderfer) Ora Moreno-Mayar e colleghi hanno sequenziato il genoma di 15 antichi americani, sei dei quali vissuti oltre 10.000 anni, provenienti da località di tutto il continente: dall'Alaska fino alla Patagonia. La scoperta più sorprendente è stata la presenza di un chiaro segnale genetico australasiatico in popolazioni del Sud America, del tutto assente in quelle del Nord America. documentato in Nord America - osserva Moreno- Mayar - implica che un gruppo precedente [a quelli considerati i primi americani] che lo possedeva era già scomparso, oppure che un gruppo giunto più tardi ha attraversato il Nord America senza lasciare alcuna traccia genetica." Il sito di Trail Creek, in Alaska, dove sono stati scoperti resti umani risalenti a circa 9000 anni fa. (Cortesia NPS photo by Jeff Rasic)Inoltre, le analisi hanno mostrato che le ondate migratorie da nord a sud sono state molteplici, portando a popolazioni chiaramente diversificate, ma secondo un modello tutt'altro che lineare. Le popolazioni insediatesi per prime in America centrale, per esempio, sono risultate geneticamente più differenziate sia dalle popolazioni del nord sia da quelle del sud. A mostrare la complessità del quadro è stata anche la scoperta che il genoma estratto dai resti umani scoperti nella Spirit Cave, in Nevada, quindi Stati Uniti, è sorprendentemente simile a quello dei resti trovati a Lagoa Santa, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, a testimonianza di un rapidissimo spostamento nel continente del loro gruppo di appartenenza. e di Lagoa Santa sono molto più vicini ai nativi americani contemporanei rispetto a qualsiasi altro gruppo antico o contemporaneo sequenziato fino a oggi nel continente. Una scoperta, questa, che ha anche permesso di porre fine a una ventennale contesa giuridica fra le autorità statunitensi e la nazione dei Paiute-scioscioni - la principale popolazione di nativi americani che vivono in Nevada - che dopo la scoperta dei resti ne aveva rivendicato la restituzione in base al Native American Graves Protection and Repatriation Act. Willerslev e colleghi, nel 2016 lo scheletro di Spirit Cave è stata restituito alla tribù e all'inizio di quest'anno si è svolta una cerimonia di sepoltura privata a cui ha partecipato anche Willeslev. Un altro studio specificamente dedicato alla genetica delle popolazioni andine degli altopiani e al loro adattamento a quel difficile ambiente - effettuato da un gruppo internazionale di ricercatori diretto da John Lindo della Emory University di Atlanta e pubblicato su "Science Advances" - ha mostrato che i primi insediamenti stabili sull'altopiano risalgono a un periodo compreso fra i 9200 e gli 8200 anni fa. di età compresa fra i 6800 e i 1400 anni fa - hanno rivelato che i primi adattamenti all'altitudine sono insorti piuttosto rapidamente; tuttavia - abbastanza sorprendentemente, come osservano i ricercatori - non hanno interessato geni legati all'adattamento all'ipossia (carenza di ossigeno). (Le popolazioni andine attuali sono geneticamente predisposte a una più elevata produzione di emoglobina nel sangue.) Le prime mutazioni hanno invece interessato il sistema cardiovascolare. la capacità di digestione dell'amido. Verosimilmente è stata una risposta adattiva alla dipendenza da una dieta che per millenni ha visto la patata, ricca di amido, come fonte alimentare assolutamente primaria. |
Post n°1837 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Uno studio basato sulla datazione di ossa di mastodonte e pietre fratturate scoperte in California suggerisce la presenza di specie umane in Nord America 130.000 anni fa, cioè 115.000 anni prima rispetto allo scenario più accreditato dalla comunità scientifica. Ma gli scettici non mancanodi Ewen Callaway/Nature Trovati i teschi dei primi americani archeologiapaleontologiaantropologia America circa 130.000 anni fa, suggerisce uno studio controverso che sposta indietro di oltre 100.000 anni la data che la maggior parte degli scienziati accetta. L'annuncio strabiliante, fatto su "Nature", è basato su pietre scheggiate e ossa di mastodonte frammentate scoperte in California che, secondo un gruppo di ricercatori, indicano un'attività umana. La loro affermazione, se fosse corretta, imporrebbe un profondo ripensamento di quando, come e da chi le Americhe furono colonizzate per la prima volta. La maggior parte degli scienziati sottoscrive il modello secondo cui Homo sapiens arrivò in Nord America meno di 20.000 anni fa. L'ultimo studio solleva la possibilità che un'altra specie di ominini, come i Neanderthal o un gruppo conosciuto come Denisovani, lo abbia fatto in qualche modo prima di allora, partendo dall'Asia e arrivando in Nord America , dove poi avrebbe prosperato. "È una scoperta sorprendente e, se fosse autentica, cambierebbe le carte in tavola. Muterebbe completamente lo scenario", dice John McNabb, archeologo del paleolitico all'Università di Southampton, nel Regno Unito. "Sospetto che ci saranno molte reazioni all'articolo, e la maggior parte di esse non sarà di accettazione". Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe? Due teste di femore di mastodonte recuperate negli scavi (Credit: San Diego Natural History Museum) animali trovati nel 1992 durante alcuni lavori stradali nei sobborghi di San Diego. La scoperta aveva fatto f ermare i lavori, e il paleontologo Tom Deméré del Museo di storia Naturale di San Diego aveva condotto uno scavo di cinque mesi. Il suo gruppo aveva scoperto denti, zanne e ossa di un parente estinto degli elefanti chiamato mastodonte (Mammut americanum), accanto a grandi rocce frantumate e usurate. Il materiale era stato seppellito da sedimenti fini lasciati da un flusso d'acqua, ma Deméré aveva intuito che le rocce erano troppo grandi per essere state trasportate dall'acqua. "Abbiamo pensato ad alcune spiegazioni possibili per questa situazione, e continuava a uscire fuori che avrebbero potuto essere coinvolti degli esseri umani", dice. Le analisi effettuate dagli anni novanta fino a oggi hanno indicato che l'avorio era vecchio di circa 300.000 anni, ma Deméré era scettico: il metodo usato dai suoi colleghi soffriva di alcuni inconvenienti e l'epoca sembrava improbabile per esseri umani vissuti in California. Un consenso rimesso in discussione studi del DNA moderno e antico hanno raggiunto un consenso sul popolamento delle Americhe: gli esseri umani provenienti dall'Asia attraversarono un ponte di terra sull'attuale Stretto di Bering in Alaska circa 20.000 anni fa e raggiunsero la punta meridionale del Sud America circa 14.000-15.000 anni fa. Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe? (Credit: San Diego Natural History Museum) umani sono arrivati in epoche precedenti. Essi si basano su siti contenenti pietre che somigliano a utensili litici e grandi ossa animali con danni apparentemente causati da esseri umani. I co-autori di Deméré, Kathleen Holen e suo marito Steven Holen, archeologi del Center for American Paleolithic Research a Hot Springs, in South Dakota, hanno proposto diversi siti nel Midwest degli Stati Uniti come prova di una presenza umana nelle Americhe fino a 40.000 anni fa. Ma molti scienziati hanno guardato a queste affermazioni con scetticismo. Dopo aver sentito parlare del mastodonte di San Diego, gli Holen hanno visitato Deméré nel 2008 per vedere i resti impacchettati. "Stavamo guardando qualcosa di molto, molto vecchio, ma aveva schemi di fratturazioni già visti", dice Kathleen Holen. Era come se le ossa fossero state poste sopra una grossa pietra che faceva da incudine e fossero state colpite con una pietra che faceva da martello. Il gruppo afferma che le rocce recuperate dal sito sono state usate per estrarre il midollo osseo del mastodonte o per creare utensili ossei più delicati. Sull'osso del mastodonte non ci sono evidenti segni da taglio, il che indica che l'animale non è stato ucciso o macellato per la sua carne. Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe? Gli autori dello studio durante i test per verificare gli schemi di fratturazione delle ossa sottoposte a percussione con una grossa pietra (Credit: Kate Johnson/San Diego Natural History Museum) hanno cercato nuovamente di determinare l'età del sito. Non potevano usare la tecnica al radiocarbonio sul mastodonte, perché nelle ossa non c'era traccia di proteine collagene contenenti carbonio. Un secondo metodo era troppo impreciso. Una terza tecnica, che misura i livelli relativi di uranio e di torio radioattivi nell'osso, ha suggerito che i resti risalgono a 130.000 anni fa. "Sono sicuro che molti dei nostri colleghi saranno assai scettici. Me lo aspetto. Questo è molto, molto prima di quanto la maggior parte degli archeologi si aspetta per la presenza di ominini in Nord America", dice Steven Holen. "E parlo anche per me stesso". Alistair Pike, archeologo dell'Università di Southampton, specializzato nella datazione all'uranio, osserva che il metodo del gruppo si basa su modelli semplificati di come l'uranio passa dall'acqua di falda alle ossa, ma non vede difetti evidenti nel lavoro di datazione. "All'apparenza, questi risultati sono quanto di meglio si possa ottenere", afferma Pike. La raccolta di DNA antico dai resti e la determinazione della relazione evolutiva dell'animale con altri mastodonti potrebbe anche permettere di stabilire l'età del sito, osserva Pontus Skoglund, genetista di popolazioni della Harvard Medical School di Boston, in Massachusetts, che lavora sul DNA antico. Se la scoperta reggesse, aggiunge, "sarebbe una delle revisioni più profonde del nostro modello di come si è popolato il mondo". Un annuncio che desta scetticismo Tuttavia, prima di invocare gli esseri umani, i ricercatori devono escludere in modo più netto la possibilità che le pietre e le ossa siano state frantumate da forze naturali, afferma David Meltzer, archeologo della Southern Methodist University di Dallas, in Texas. "Se vuoi spingere l'antichità umana nel Nuovo Mondo più indietro di 100.000 anni in un colpo solo, dovrai farlo con un caso archeologico migliore di questo". Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe? Frantumazione delle ossa per effetto dell'impatto con una grossa pietra: grazie a questo schema, è possibile determinare se i resti archeologici portano i segni di una manipolazione umana (Credit: Kate Johnson/San Diego Natural History Museum) analizzati in modo più dettagliato. Trova "curioso" che il sito non abbia prodotto altre tracce di presenza umana, come gli utensili in pietra di forma caratteristica che si trovano tipicamente in molti siti di macellazione di animali in Africa. Erella Hovers, archeologa della Hebrew University di Gerusalemme, che ha esaminato l'articolo per "Nature", dice di essere rimasta un po' sorpresa quando il manoscritto è arrivato nella sua posta elettronica: "Mi sono detta: 'ma veramente?'". Tuttavia, dopo le revisioni che hanno approfondito il lavoro di datazione e hanno dimostrato che colpire le ossa moderne di elefanti con grandi rocce produce schemi di danno simili a quelli osservati sulle ossa dei mastodonti, Hovers è ora convinta che siano stati ominini a creare il sito californiano. "Tutto questo è sbalorditivo," dice. "Lascia aperte un sacco di domande perché non sappiamo nient'altro, tranne che c'erano delle persone laggiù". Chi erano i primi americani? i candidati sono diversi. Gli antenati degli esseri umani moderni non africani hanno lasciato il continente meno di 100.000 anni fa, ma migrazioni precedenti dall'Africa avrebbero potuto raggiungere il Nord America, dicono Deméré e i suoi co-autori. Essi si riferiscono a denti simili a quelli di Homo sapiens risalenti a 100.000 anni fa scoperti in Cina e agli indizi secondo cui alcuni gruppi indigeni in Sud America portano traccia di una possibile migrazione precedente nelle Americhe. Chris Stringer, paleoantropologo del Museo di storia naturale di Londra, propende per i denisovani o i neanderthaliani, che vivevano entrambi nella Siberia meridionale almeno 100.000 anni fa. Eppure, non vi è alcuna prova che l'uno o l'altro dei due gruppi potesse sopravvivere all'epico viaggio artico dalla Siberia all'Alaska. "Molti di noi vogliono vedere prove da altri siti di questa antica colonizzazione prima di abbandonare il modello convenzionale di un primo arrivo da parte degli esseri umani moderni negli ultimi 15.000 anni", spiega Stringer. "Tra poco inizieremo a cercare", dice Deméré, che ha già adocchiato un altro sito della California, scavato da suo gruppo alcuni anni fa. Steven Holen spera che altri scienziati si uniscano alla ricerca. "Teniamo gli occhi aperti per trovare questo tipo di materiale quando siamo sul campo", afferma. "Non diciamo semplicemente 'questo non può essere'". (L'originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 26 aprile 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°1836 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
FONTE: Le scienze articolo riportato integralmente Il cimitero monumentale di un'antica società egualitaria La scoperta di un cimitero monumentale edificato 5000 anni fa da una società egualitaria di pastori nomadi lungo le coste del lago Turkana smentisce la tradizionale convinzione che la costruzione di strutture megalitiche fosse possibile solo in presenza di un'organizzazione sociale complessa e con una forte stratificazione gerarchica(red) Risale a 5000 anni fa il primo, grande cimitero monumentale dell'Africa orientale scoperto nel sito di Lothagam North Pillar, lungo le coste del lago Turkana, in Kenya. I reperti venuti alla luce durante gli scavi suggeriscono che la popolazione di pastori che lo edificò avesse un'organizzazione sociale sostanzialmente egualitaria, priva di significative gerarchie. che la costruzione di grandi edifici o monumenti megalitici - da quelli di Stonehenge e Carnac alle altre migliaia sparsi per il mondo - sia necessariamente espressione di una struttura sociale stratificata con forti specializzazioni nei diversi lavori. gruppo internazionale di archeologi, sono illustrati sui "Proceedings of the National Academy of Sciences". Il sito Lothagam North Pillar.Il cimitero - che è stato usato per diversi secoli, da 5000 a 4300 anni fa circa - è costituito da una piattaforma di circa 30 metri di diametro, al cui interno si trovava una profonda fossa per l'inumazione delle salme. Una volta riempita, la fossa fu coperta da uno strato di pietre, al di sopra del quale vennero collocati diversi megaliti, alcuni dei quali trasportati fin lì anche da un chilometro di distanza. Il complesso era stato poi completato con l'aggiunta, sopra e accanto alla piattaforma, di una serie di cerchi di pietre e di cairn, caratteristiche strutture formate da pietre impilate a secco. 580 persone, di ogni età e sesso, senza segni di un trattamento particolare riservato ad alcuna di esse, come si osserva invece dove esistono gerarchie sociali. Inoltre, quasi tutti gli individui erano stati sepolti con ornamenti personali, la cui fattura e distribuzione era grosso modo sempre uguale. Entrambi i fattori suggeriscono quindi la presenza di una società di tipo egualitario Ornamenti rinvenuti a Lothagam North Pillar. (Cortesia Carla Klehm)Lothagam North - osservano i ricercatori - fornisce un esempio di una struttura monumentale che non è legata all'emergere di gerarchie sociali, spingendo a considerare altre spiegazioni. di aggregazione, di rinnovamento dei legami sociali e di rafforzamento dell'identità della comunità", osserva Anneke Janzen del Max Planck Institut per la scienza della storia umana a Jena, e coautrice della ricerca. "Lo scambio di informazioni e l'interazione attraverso un rituale condiviso possono aver aiutato questi pastori itineranti a sopravvivere in un paesaggio in rapido mutamento". North sia stato costruito in un periodo di profondi cambiamenti ambientali durante il quale la riduzione delle precipitazioni annuali fece quasi dimezzare la superficie del lago Turkana. |
Post n°1835 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
Le Scienze LE SCIENZEIn Borneo le più antiche pitture rupestri figurativeIn Borneo le più antiche pitture rupestri figurative. Raffigura un animale, probabilmente un bovino, la più antica pittura rupestre mai rinvenuta. Scoperta in Borneo, risale ad almeno 40.000 anni fa e precede quindi di alcune migliaia di anni le prime rappresentazioni figurative prodotte dai nostri antenati in Europa e in Indonesia. La scoperta è avvenuta applicando la tecnica di datazione uranio-torio alle piccole concrezioni calcaree che si sono formate sopra i disegni(red) L'origine preistorica del puntinismo .L'origine preistorica del puntinismoDiecimila anni in più per le pitture rupestri di ChauvetDiecimila anni in più per le pitture rupestri di ChauvetArte rupestre: in Indonesia è antica come in EuropaArte rupestre: in Indonesia è antica come in EuropaConfermato il primato di antichità delle pitture della grotta di Chauvet. Confermato il primato di antichità delle pitture della grotta di ChauvetL'arte preistorica della grotta di Chauvet L'arte preistorica della grotta di Chauvet L'arte della grotta ChauvetI cavalli del Neolitico e il realismo delle pitture rupestriI cavalli del Neolitico e il realismo delle pitture rupestria Le trecento mani della grotta di Lubang Si trova in una grotta sulla costa orientale del Borneo la più antica pittura rupestre figurativa conosciuta, e raffigura un animale non chiaramente identificato, ma probabilmente un bovino. allo stesso periodo delle più antiche statuette in avorio di mammuth rinvenute nelle grotte del Giura Svevo, in Germania, di fattura attribuibile a umani moderni. A stabilirlo è stato un gruppo di ricercatori della Griffith University, a Brisbane, in Australia, in collaborazione con studiosi del Centro nazionale di ricerca archeologica di Giacarta, in Indonesia, che firmano un articolo pubblicato su "Nature". In Borneo le più antiche pitture rupestri figurative La parte in alto a destra di questa pittura rupestre nella grotta di Lubang Jeriji Saléh risale a circa 40.000 anni faLe pitture rupestri in assoluto più antiche note - come alcune di quella presenti nel la grotta di La Pasiega, in Spagna - risalgono a circa 65.000 anni fa e furono create dai Neanderthal. Tuttavia, si tratta di serie di linee e punti variamente disposti. La pittura figurativa - con la rappresentazione di animali, persone o altri oggetti - è emersa solo più tardi: finora le più antiche pitture di questo tipo note erano quelle della grotta di Chauvet, nella Francia meridionale (da 37.000 a 33.500 anni fa) e quelle trovate nell'isola di Sulawesi, in Indonesia (35.400 anni fa circa). penisola di Sangkulirang - Mangkalihat - una regione di difficile accesso della provincia indonesiana di Kalimantan - è stata scoperta una ricchissima serie di pitture rupestri, costituite da figure geometriche, impronte di mani in negativo, pitture di animali (principalmente bovini selvatici) e, infine, figure umane e rappresentazioni di barche. Tuttavia, la datazione di queste opere era risultata finora molto difficile. In Borneo le più antiche pitture rupestri figurativeL a composizione di mani in nero è stata sovrapposta a una precendente molto più antica, di cui si possonono verere le tracce rossastre. Le due composizioni sono state realizzate a 20.000 anni di distanza una dall'altra. Ora Maxime Aubert e colleghi sono riusciti a stabilire l'età di una serie di pitture in quattro grotte di Sangkulirang-Mangkalihat analizzando con la tecnica di datazione uranio-torio le piccole concrezioni calcaree che si sono formate sopra ai disegni. Nella grotta di Lubang Jeriji Saléh - che contiene 20 immagini di animali e umani e circa 300 impronte di mani - hanno in particolare individuato una raffigurazione incompleta di un animale databile ad almeno 40.000 anni fa, due immagini di banteng (Bos javanicus lowi) di 37.200 anni fa e diverse impronte di mani in negativo di datazione più incerta e varia, ma comunque compresa fra un minimo di 23.600 anni fa (l'età delle concrezioni successive alla pittura) e 51.800 anni fa (l'età del substrato). compare solo in un'epoca più tarda, a partire da circa 20.000 anni fa, e corrisponde anche a un cambiamento di stile, sia nei tratti sia nei colori usati che da rosso-ocra (a base di bauxite) diventano viola-nero (a base di ematite). Figure umane rinvenute in una delle grotte del Borneo orientale indonesiano. Queste immagini risalgono a un periodo compreso fra 13.600 e 20.000 anni fa (Cortesia Pindi Setiawan) Poiché l'arcipelago indonesiano e l'Australia hanno iniziato a essere popolati da umani moderni già a partire da 60-70.000 anni fa, ma la pittura figurativa ha fatto la sua apparizione più o meno in contemporanea alla comparsa in Europa e Indonesia, in un lasso di tempo compreso fra i 52.000 e i 40.000 anni fa, osservano i ricercatori, diventa naturale chiedersi se questa coincidenza possa essere legata a qualche flusso migratorio di nuove popolazioni finora non rilevato. E la stessa domanda si può porre per il successivo cambiamento stilistico. CERCA NEL WEBChi siamoBlog ufficialeLibero EasyAiutoNote legaliPrivacyCookie PolicyCommissariato P.S.© ITALIAONLINE 2019 - P. IVA 11352961004 |
Post n°1834 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
30 ottobre 2018 Ancora più antica la storia del cioccolato La prima domesticazione della pianta del cacao risale a 5300 anni fa e fu opera dei Mayo- Chinchipe, popolazioni amazzoniche dell'Ecuador sud-orientale. La scoperta smentisce l'ipotesi finora prevalente, che attribuiva il primato a popoli dell'America centrale, dove invece la pianta arrivò quasi 1500 anni dopo «La domesticazione della pianta del cacao (Theobroma cacao) e il suo uso a fini alimentari risale ad almeno 5300 anni fa, e fu realizzata dalle popolazioni amazzoniche dell'Ecuador sud-orientale, e non in America centrale, come finora ritenuto. Gli inizi della produzione della materia prima alla base del cioccolato - che muove un mercato di oltre 120 miliardi di dollari all'anno ed è il prodotto dolciario più apprezzato al mondo - va dunque anticipata di oltre 1400 anni. A dimostrarlo è stata una ricerca condotta da un gruppo internazionale di archeologi e genetisti, che firmano un articolo pubblicato su "Nature Ecology and Evolution". per la prima volta in America centrale circa 3900 anni fa si basava sulla ricchezza di prove archeologiche, etnografiche e iconografiche che testimoniano la grande importanza, sia rituale che alimentare, attribuita a questo alimento dalle popolazioni di quell'area. dimostrato che la maggiore diversità genetica della pianta - ben superiore a quella presente in America centrale - si trova nelle foreste umide della regione degli affluenti del Rio delle Amazzoni superiore. pianta di cacao nella foresta ecuadoriana. (© Science Photo Library / AGF=In questa zona - nella regione compresa fra i fiumi Chinchipe e Marañón - si era sviluppata, a partire da 5450 anni fa la cultura Mayo-Chinchipe, che solo di recente ha iniziato a essere studiata con attenzione, ed è caratterizzata dalla costruzione anche di edifici in pietra e da un fiorente artigianato della ceramica. luce nel 2002 nel sito di Santa Ana-La Florida, e risalenti a 5500-5300 anni fa, Sonia Zarrillo, Claire Lanaud e colleghi hanno ora ritrovato al loro interno microscopicigrani di un amido tipico di Theobroma; residui di teobromina, un alcaloide amaro presente nei semi di Theobroma cacao, ma non nei suoi parenti selvatici; e frammenti di DNA antico con sequenze uniche di T. cacao, sequenze per di più molto simili a quelle della cultivar Criollo, che discende direttamente dalla varietà coltivata dai Maya e da altre popolazioni precolombiane del Centro America. poi confermata anche dall'analisi dei danni al DNA riscontrati nei residui organici. commerciali fra le popolazioni Mayo-Chinchipe dell'interno con quelle della cultura di Valdivia - una delle più antiche del Sud America, fiorita sulla costa del Pacifico dell'Ecuador - gli autori ipotizzano che questa sia stata la prima tappa del lungo viaggio che avrebbe poi portato il cacao in America centrale. |
Post n°1833 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Un nuovo studio evidenzia una carenza di comunicazione fra le scienze che si occupano delle estinzioni avvenute nell'era glaciale, spesso attribuite alla nostra specie nonostante non ci sia un numero sufficiente di prove per poter affermare che la scomparsa di mastodonti, tigri dai denti a sciabola e altri grandi animali sia una responsabilità esclusiva- mente umana di Brian Switek/Scientific American. È la domanda che mi sto facendo da quando ho saputo che quelle bestie sono esistite e sono morte non molto tempo fa. Il motivo esatto della loro scomparsa dipende dalla persona a cui lo chiedete. Alcuni esperti indicano drammatici cambiamenti climatici alla fine del Pleistocene che hanno rimpicciolito l'habitat preferito di quell'elefante. Un'opinione dissenziente condanna la predazione umana, invocando orde di persone voraci che hanno mangiato la megafauna del pianeta, quando Homo sapiens si è diffuso dall'Africa al resto del mondo. E se a volte si trova un compromesso tra questi punti di vista - il cambiamento climatico che destabilizza gli ecosistemi, per esempio, può aver reso più drammatici gli effetti delle attività umane - il fatto che stiamo accelerando la sesta estinzione di massa è stato spesso inserito in una narrazione di morale ecologica secondo cui dalla fine dell'era glaciale a oggi l'umanità è stata una piaga per la biodiversità mondiale. Il problema dell'overkill nell'era glaciale
(Megatherium americanum) e del loro ambiente. Non si tratta di un dibattito accademico isolato od oscuro. Le nostre opinioni su quello che ha ucciso la megafauna dell'era glaciale hanno avuto un ruolo chiave nelle discussioni sul ripristino naturale del Pleistocene - portando, per esempio, gli elefanti asiatici in Nord America a sostituire i mammut - e le false notizie sulla clonazione o altre forme di "de-estinzione". Se gli esseri umani sono stati responsabili della scomparsa di questi animali e delle connessioni ecologiche che queste specie hanno favorito, allora abbiamo la responsabilità di riportarli indietro. E forse è così. Ma vale anche la pena indagare come l'idea di overkill [ossia di un tasso di uccisioni superiore alle capacità riproduttive della specie predata. NdT] - che si adatti o meno al modello - abbia influenzato gli ambienti scientifici che a loro volta suggeriscono obblighi politici ed etici nei confronti dell'ecologia globale. Proprio quello che esaminano gli archeologi Lisa Nagaoka, Torben Rick e Steve Wolverton in un'analisi dal titolo The overkill model and its impact on environmental research (Il modello dell'overkill e il suo impatto sulla ricerca ambientale). La questione di ciò che è successo alla nostra mega - fauna dell'era glaciale non ricade nell'ambito di un'unica disciplina. È un mistero all'incrocio di scienze varie a differenti, come archeologia, antropologia, ecologia, zoologia, paleontologia, climatologia, botanica e altro ancora. E dato che i fatti non sono qualcosa di autosufficiente ma sono interpretati attraverso la teoria, non c'è da meravigliarsi che professionisti di scienze diverse abbiano punti di vista differenti. Così, per tenere traccia di come le varie scienze hanno risposto all'idea di overkill del Pleistocene, Nagaoka e colleghi hanno analizzato le citazioni nella letteratura scientifica del paleontologo Paul Martin - il principale promotore dell'idea che gli esseri umani hanno portato all'estinzione la mega- fauna del Pleistocene - fino alla sua morte nel 2010. Nagaoka e coautori si sono focalizzati principalmente su due campi di studio che, nonostante la loro connessione, spesso comunicano e collaborano poco tra loro: archeologia ed ecologia. I ricercatori hanno scoperto che le due discipline hanno punti di vista molto differenti su quello che è accaduto al termine dell'era glaciale, e questo a sua volta influisce sul modo in cui l'estinzione del mammut e del mastodonte è usata come strumento retorico nelle moderne argomentazioni sull'estinzione. Questo è importante perché, nonostante la sua accettazione apparentemente diffusa, i dati a conferma dell'idea di esseri umani affamatissimi che sterminano i grandi animali del Pleistocene non solo sono controversi, ma spesso sono addirittura carenti. "La realtà - scrivono Nagaoka e i coautori - è che l'argomento usa una serie di affermazioni non testate sulle interazioni uomo-ambiente" e le prove dirette di una caccia definitiva da parte degli esseri umani del Pleistocene sono assai rare nonostante la ricca documentazione fossile dell'era glaciale. Quindi, che cosa mostra il confronto tra le scienze? In archeologia, il ruolo svolto dall'essere umano nell'estinzione del Pleistocene è una questione aperta. Facendo riferimento a un sondaggio su 91 archeologi e alla ricerca di citazioni, Nagaoka e colleghi hanno scoperto che la maggior parte degli archeologi del campione non riteneva che l'essere umano fosse l'unica, o addirittura la causa principale, delle estinzioni. Il cambiamento climatico è stato menzionato più spesso, con l'essere umano che avrebbe esercitato una pressione aggiuntiva o secondaria sotto forma di caccia o di alterazione del paesaggio. Secondo la maggior parte degli archeologi, che si concentra sulle abitudini delle persone nel tempo, la colpa dell'estinzione di Megatherium e Smilodon non è solo dell'essere umano. E anche se ci sono problemi con il cambiamento climatico e altre ipotesi, le ricerche scritte e citate dagli archeologi hanno molte più probabilità di riconoscere che c'è un dibattito in corso e che servono altre indagini. Nell'ecologia il quadro è molto diverso, e ha ottenuto una risonanza mediatica molto più grande grazie a libri come La sesta estinzione [di Elizabeth Kolbert, BEAT, 2016] ed eventi altamente pubblicizzati riguardanti la de-estinzione. A questo proposito il catalogo delle citazioni è di aiuto. Mentre gli archeologi sono più propensi a citare i primi lavori di Paul Martin sull'overkill - che si concentravano principalmente sul Nord America e sui movimenti umani attraverso il continente - gli ecologi sono più propensi a citare i suoi lavori successivi in cui il modello è globale. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che gli articoli di ecologia avevano più probabilità di usare l'ipotetico scenario di Martin come prova dell'argomento che gli esseri umani avrebbero eliminato la megafauna invece che come semplice riferimento a quell'idea. Il problema dell'overkill nell'era glaciale Il limite di questa pista basata sulle citazioni è che molti dei presupposti non testati di Martin - cioè che la megafauna fosse "impreparata" agli invasori umani, e che la dispersione umana nel mondo spieghi la distribuzione della megafauna moderna - sono spesso affermati come fatti. A questa situazione non giova la carenza di comunicazione interdisciplinare, come la chiamano Nagaoka e colleghi, come appare chiaro dall'esame delle pubblicazioni degli esperti. I critici dell'ipotesi dell'overkill, o coloro che vedono l 'uomo come una delle varie pressioni che hanno portano all'estinzione del Pleistocene, spesso scrivono su riviste di archeologia o che hanno come specifico oggetto l'ultima parte del Cenozoico. Gli articoli a sostegno dell'ipotesi dell'overkill, invece, sono spesso pubblicati su riviste scientifiche di respiro più ampio e hanno ricevuto molta più pubblicità, sotto forma di citazioni, nei dibattiti sul ripristino naturale del Pleistocene e sulla de-estinzione; proprio per questo è più probabile che siano presi come indice di un consenso tra gli ecologi anche quando tale consenso non esiste. Si può sperare che il processo scientifico possa aiutare a correggere questa situazione. Archeologi o paleobiologi potrebbero pubblicare le loro indagini e critiche su riviste di ecologia, come suggeriscono Nagaoka e colleghi, ma il processo di peer-review non è omogeneo e gli ecologi sono più propensi ad ascoltare altri ecologi - che sono già propensi ad accettare l'idea di overkill - che esperti di altri campi. Questo è strano, scrivono Nagaoka e i coautori, dato che l'archeologia è la scienza che si occupa delle persone e del loro comportamento nel orso del tempo. Per determinare se gli esseri umani sono stati responsabili o meno dell'estinzione di tigri dai denti a sciabola e bradipi giganti non sarebbe utile conoscere idee e informazioni in loro possesso? A partire, per esempio, dal fatto che nonostante una ricchissima documentazione fossile del Pleistocene disponiamo solo di una manciata di associazioni tra esseri umani e megafauna che possono essere considerate una prova della caccia? Di fatto, alcuni dei più strenui sostenitori dell'overkill non leggono né citano la letteratura che riguarda direttamente l'argomento. Questa situazione è difficile da cambiare, soprattutto perché vediamo la terribile influenza dell'attività umana sulla biodiversità di oggi. Così, il fatto che gli esseri umani abbiano iniziato questo comportamento già nell'era glaciale diventa una presa di posizione politica, e metterla in discussione è talvolta considerato alla stregua della negazione della moderna crisi di estinzione. Il fatto è che l'overkill è un'ipotesi non testata e non verificata che ha comunque preso il sopravvento, con tanto di senso di colpa per la tendenza distruttiva dell'umanità, che è alla base di un'idea di espiazione ecologica. Il fatto che gli esseri umani abbiano scatenato o meno una crisi globale di estinzione nel Pleistocene è diventato quasi irrilevante nella comunicazione sulla conservazione in virtù del valore retorico dell'argomento. "Quando l'overkill è usato come un racconto ammonitore e un mezzo per mobilitare il sostegno all'ambientalismo, l'essere umano è descritto come una specie distruttiva", scrivono Nagaoka e colleghi, a quanto pare non a causa di quello che scegliamo di fare, ma perché la distruttività sarebbe intrinseca alla nostra natura. È una visione fosca e deterministica della nostra specie. Inoltre, questa visione ignora le diversità culturali nel tempo e nello spazio, trattando l'essere umano come uniformemente vorace e distruttivo, una concezione offensiva giustificata da una fragile correlazione. Anche se alla fine si scoprisse che l'overkill è stato un fenomeno reale e sostanzialmente globale durante il Pleistocene, scrivono Nagaoka e colleghi, la storia non è solo un racconto ammonitore o un viaggio nella colpa nei confronti degli ecosistemi. Una prospettiva alternativa, scrivono, è quella secondo cui l'overkill offre informazioni sui diversi modi in cui le culture umane hanno interagito con l'ambiente - in quali tempi e luoghi ci sono state più persone distruttive rispetto a quelle più interessate alla sostenibilità? - aiutandoci così ad apprezzare meglio il modo in cui siamo intrecciati con la natura invece di separarcene come forza distruttiva a sé stante. Non si tratta semplicemente della mancanza di dati a sostegno dell'overkill: quell'idea ci separa dalla natura e ci rende cattivi, in modo forse irrimediabile. Possiamo fare di meglio. ---------------- autore di libri di paleontologia come Il mio amato brontosauro (Codice, Torino 2014). (L'originale di questo articolo è stato pubblicato s u "Scientific American" il 5 ottobre 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°1832 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Narrativa Straniera » Il museo dell'innocenza Pamuk Orhan Un'avventura sentimentale che presto diventa un'ossessione amorosa. Il primo romanzo scritto da Orhan Pamuk dopo il conferimento del Premio Nobel. Una struggente storia d'amore ambientata nella Istanbul degli anni Settanta.Rampollo di una ricca famiglia di Istanbul, Kemal sta per fidanzarsi con l'altolocata Sibel. Tutto sembra filare per il verso giusto, ma Kemal si innamora perdutamente della giovane e bellissima Füsun, una sua cugina appartenente al ramo povero della famiglia. Fra i due ha inizio una relazione eroticamente molto intensa, che travalica le leggi morali della Turchia degli anni Settanta. Ma i valori tradizionali (e l'opportunismo) hanno la meglio: Kemal si fidanza con Sibel pensando di continuare comunque la relazione con l'amante povera. Però Füsun scompare e lui cade in una forte depressione, si ritrae dal suo ambiente e si rifugia nell'appartamento in cui era solito incontrarla. Dopo un anno di sofferenze i due si ritrovano: la ragazza si è ormai sposata con uno sceneggiatore. Kemal non si dà per vinto: fonda una società per finanziare il debutto cinematografico del marito, va con la coppia sul Bosforo a vedere film sentimentali nei cinema all'aperto. E, soprattutto, diventa un loro ospite fisso: in otto anni cena con Füsun e il marito mediamente quattro volte la settimana. Quasi tutti intuiscono cosa nascondano quelle visite, ma nessuno dice niente, un po' per interesse, un po' per senso dell'onore, e poi la stessa Füsun ha un comportamento ineccepibile. Durante questi otto anni la Turchia vive una fase di grandi tensioni politiche che culminano nel colpo di Stato del 1980 (per Kemal un'autentica iattura: deve abbreviare le visite a causa del coprifuoco). Nel 1984 Füsun decide di divorziare e di sposare Kemal, ma dopo la prima notte d'amore muore in un incidente d'auto. Kemal decide di comprare dalla madre di Füsun la casa in cui vive e di farne un museo dedicato alla donna, il Museo dell'innocenza, nel quale sistemare tutti gli oggetti che per consolarsi sottraeva durante gli inviti a cena: cagnetti di porcellana, orecchini, cicche, calzini, uno spargisale, uno slip, una grattuggia, degli accendini... e la Chevrolet dell'incidente. Infine, commissiona all'amico Pamuk il catalogo romanzato del museo: questo libro. Narratore elegante e sottile, Orhan Pamuk torna a raccontare la Turchia e Istanbul, la sua amata città, attraverso le storie, le vite e gli amori dei suoi abitanti, perennemente sospesi tra Oriente e Occidente, tra impellente modernità e stringente tradizione. In questo romanzo, il primo dopo il premio Nobel per la Letteratura ricevuto nel 2006, l'autore indaga nelle profondità dell'animo umano con l'abilità dello scrittore di qualità, portando allo scoperto passioni inconfessabili, irrinunciabili e al contempo irraggiungibili. Il racconto prende il via nei primi anni Settanta, nel pomeriggio di un bel lunedì di maggio, rischiarato dal "cielo tipico delle giornate di primavera a Istanbul". È in questa cornice che il protagonista, Kemal, scopre il significato più vero della parola felicità, tra le braccia della donna amata, la diciottenne Füsun, lontana cugina. Tra i due si accende una passione al primo incontro dopo molti anni di lontananza, una folgorazione che li travolge e li trascina in un rapporto che si alimenta di un erotismo intenso e coinvolgente. La passione non si spegne nemmeno di fronte ai sensi di colpa, alle convenzioni sociali e ai doveri familiari che attanagliano Kemal: è infatti fidanzato con Sibel, ragazza giovane, elegante e di buona famiglia, per di più colta ("Ha studiato alla Sorbona", ama ripetere il padre di Kemal). È la fidanzata ideale per uno come lui, anche se "la belva del desiderio ribelle lo divora", il miraggio di avere l'una e l'altra lo seduce, l'idea di perdere la fidanzata "approdo sicuro" economicamente e socialmente lo spaventa e la prospettiva di una vita senza l'amante gli procura una sofferenza non solo emotiva ma anche fisica. Nel racconto di questo rovello interiore e nella descrizione dell'anatomia della sofferenza amorosa si concentra e si ammira l'abilità del narratore Pamuk, che affonda a piene mani nel labirinto delle emozioni e dei desideri di una vita. Sullo sfondo di questo intreccio di sensazioni si snodano le tappe della tormentata esistenza di Kemal: il fidanzamento ufficiale con Sibel, la rottura del loro rapporto, il casto riavvicinamento a Füsun e l'entrata nella nuova vita che lei ha saputo crearsi. E poi l'amore per il cinema, l'impegno come produttore cinematografico, i viaggi alla scoperta dei principali musei del mondo (con numerose tappe anche in Italia) e infine, sconvolgente e certo insospettabile anche per il lettore più smaliziato, una rivelazione, che avrà il potere di trasformare il sogno in realtà e la realtà in un sogno. Felicità è stare accanto alla persona che si ama recitano i pensieri del protagonista e lo stesso autore, is there a way to view private instagram Orhan Pamuk si materializza nelle pagine finali di questo romanzo per aiutarlo a raggiungere il suo obiettivo, in un onirico passaggio di consegne, da cui nascerà, un Museo dell'innocenza, monito perpetuo all'amore, che travalica i confini del libro per raggiungere direttamente il cuore dei lettori. "Un museo del genere esisterà davvero - ha dichiarato Pamuk in un'intervista - Così spero per lo meno. Dovrebbe aprire nel giugno 2010." Avrà sede a Istanbul, nel quartieri di Cukurcuma. Il biglietto di entrata è riprodotto in una pagina del libro. Narratore vibrante e appassionato, Orhan Pamuk, tratteggia con maestria la storia di un amore che sfida la morale e le convenzioni comuni, sullo sfondo della Turchia degli ultimi trent'anni, regalandoci un romanzo di grande impatto emotivo, malinconico e travolgente, che farà riscoprire il sottile piacere della lettura. |
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