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Messaggi del 23/01/2019

I primordi dell'industria litica in Cina..

Post n°1840 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

22 novembre 2018

L'alba dell'industria litica in Cina

L'alba dell'industria litica in Cina

Decine di schegge di pietra scoperte nella

grotta di Guanyindong, nella Cina meridionale,

risalgono a un periodo compreso tra 80.000 e

170.000 anni fa: dimostrano che la tecnica di

scheggiatura Levallois, che segnò un progresso

importante nella produzione di utensili in pietra

nel Paleolitico, emerse in quella regione molto

prima di quanto era stato stimato(red)

Quando si parla di tecnologia Made in China si

pensa immediatamente all'elettronica di consumo

prodotta dal gigante asiatico.

Per una volta invece bisogna andare con la mente

all'alba della civiltà umana, perché stiamo parlando

di utensili in pietra che risalgono a un periodo

compreso tra 80.000 e 170.000 anni fa.

Li hanno scoperti in un sito nella Cina meridionale

gli archeologi di una collaborazione internazionale

guidata dall'Università di Washington, firmatari di

 un articolo apparso su "Nature". E testimoniano

l'esistenza in quella regione e in quell'epoca di un

metodo di scheggiatura della pietra noto come

tecnica Levallois, dal nome del sobborgo parigino

nei pressi del quale, nell'Ottocento, furono scoperti

i primi reperti di quel tipo. 

L'alba dell'industria litica in Cina

Alcuni dei manufatti litici analizzati nello studio

(Credit: Marwick et al.)
 La tecnica Levallois si è sviluppata in Africa e

in Europa occidentale a partire da 300.000 anni

fa, ma si riteneva che in Asia orientale fosse

comparsa solo 30.000-40.000 anni fa.

La tecnica consiste in una serie di scheggiature

successive e rappresenta un approccio più

sofisticato alla produzione di utensili rispetto ai

periodi precedenti, in cui si usavano semplici pietre

di forma ovale. Il prodotto finale è una scheggia di

grandi dimensioni con una superficie sfaccettata,

usata come una sorta di attrezzo universale,

con cui si poteva trafiggere, tagliare, raschiare o

scavare.

"La scheggia di pietra ottenuta con la tecnica

Levallois è il coltellino svizzero della preistoria",

ha spiegato Ben Marwick, primo autore dell'articolo.

"Era efficace e duratura, indispensabile in una

società di cacciatori-raccoglitori in cui una punta

di lancia rotta avrebbe potuto significare morte

certa sotto gli artigli o i denti di un predatore".

I manufatti di Levalloisesaminati nello studio

sono stati scoperti nella grotta di Guanyindong,

nella provincia di Guizhou, già negli anni sessanta

e settanta, ma la loro datazione è rimasta a lungo

incerta: la tecnica degli isotopi dell'uranio aveva

infatti stimato l'età del sito entro un ampio arco

temporale, tra i 50.000 e i 240.000 anni.

"Quella stima riguardava in particolare fossili trovati

lontano dai manufatti di pietra", ha sottolineato ha

detto Marwick. "L'analisi dei sedimenti vicini fornisce

indizi più specifici sul periodo in cui erano in uso".

Per datare i manufatti, Marwick e colleghi hanno

usato una tecnica detta luminescenza ottica stimolata

(OSL) che può stabilire quando un campione di 

sedimento - basta anche un solo granello di sabbia -

è stato esposto per l'ultima volta alla luce solare.

Da ciò si può quindi stimare per quanto tempo è

rimasto sepolto un manufatto scoperto nello stesso

strato di sedimenti.

I ricercatori hanno analizzato oltre 2.200 manufatti

trovati nella Grotta di Guanyindong, riducendo poi

l'analisi a 45 reperti in pietra in stile Levallois.

Per quelli ritenuti più antichi, risalenti a 130.000-

180.000 anni fa, è stato identificato anche l'ambiente

in cui erano stati utilizzati: un bosco che sorgeva su

un paesaggio roccioso, in una foresta pluviale più

piccola rispetto a oggi.

La scoperta di questi strumenti litici e la loro

retrodatazione è particolarmente importante

perché non ci sono fossili umani che possano

collegare gli utensili alla migrazione di popolazioni

nella regione. Questo significa che la tecnologia

si è evoluta in modo indipendente in parti diverse

del mondo preistorico.

"Finora si pensava che la tecnica Levallois fosse

emersa in Cina in tempi relativamente recenti",

ha aggiunto Marwick. "Il nostro lavoro rivela la

complessità e l'adattabilità delle popolazioni che

vivevano qui, equivalenti a quelle che si osservano

nei reperti archeologici di altre parti del mondo, e

mostra la diversità dell'esperienza umana".

 
 
 

I più antichi manufatti del Nord Africa...

Post n°1839 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

30 novembre 2018

Hanno 2,4 milioni di anni i più antichi

manufatti del Nord Africa

Strumenti in pietra risalenti a quasi due milioni

e mezzo di anni fa sono stati scoperti in un sito

archeologico algerino. Di poco più recenti dei

primissimi utensili litici dell'Africa orientale,

ndicano che la tecnologia della scheggiatura

della pietra ha avuto una rapida diffusione,

oppure che si è sviluppata simultaneamente

in più regioni del continente(red)

Manufatti di pietra e ossa di animali macellati

risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa sono stati

scopeti nel sito archeologico di Ain Boucherit,

nel bacino del Beni Fouda, sull'altopiano

dell'Algeria nord-orientale. La scoperta - opera di

un gruppo di ricercatori diretto da Mohamed

Sahnouni del Centre National de Recherches

Préhistoriques ad Algeri, e pubblicata su "Science" -

retrodata di oltre mezzo milione di anni i più antichi

strumenti litici mai trovati in Nord Africa.

Hanno 2,4 milioni di anni i più antichi manufatti del Nord Africa

Un nucleo di pietra scheggiata rinvenuto

ad Ain Boucherit. (Cortesia M. Sahnouni)

La loro fabbricazione risalirebbe approssimativamente

allo stesso periodo di quelli in assoluto più antichi,

scoperti in Africa orientale in diverse regioni della

Rift Valley, dalla gola di Olduvai, in Kenya, fino al

bacino dell'Hadar, in Etiopia. Ciò implica, osservano

i ricercatori, che la tecnica di produzione di manufatti

litici si diffuse dall'Africa orientale in altre regioni del

continente in modo eccezionalmente rapido, oppure

che ebbe origine quasi simultaneamente in regioni

differenti.

Altri manufatti e ossa con segni di macellazione

sono stati portati alla luce anche in uno strato di

roccia più recente, databile a 1,9 milioni di anni fa,

e dunque coevi o di poco precedenti a quelli finora

considerati i più antichi dell'Africa settentrionale.

La tecnica di scheggiatura della pietra usata per

ottenere gli strumenti di Ain Boucherit - che comprendono

utensili da taglio a spigolo vivo per la lavorazione di

carcasse animali - sembra la stessa di quella usata

per i manufatti di Olduvai, pur mostrando sottili variazioni,

forse imputabili al tipo di pietra calcarea e selce disponibili

localmente. Tuttavia sono state scoperte anche pietre

lavorate di una forma che non trova riscontri nei reperti

provenienti dall'Africa orientale, e la cui funzione non è 

stata ancora chiarita.

Le ossa fossilizzate che conservano traccia dell'uso

degli utensili in pietra sono composte principalmente

da resti di bovini ed equidi di piccole e medie dimensioni.

I segni rilevati suggeriscono che venissero scuoiati,

eviscerati e scarnificati, e che diverse ossa venissero

frantumate per accedere al midollo. Non è però chiaro

se questi antichi ominidi si dedicassero alla caccia o si

limitassero ad approfittare di animali morti, caduti

preda di grandi carnivori.

Hanno 2,4 milioni di anni i più antichi manufatti del Nord Africa

Un piccolo osso di bovino con segni di taglio

(nel riquadro) dovuti agli utensili in pietra trovati

ad Ain Boucherit. (Cortesia I. Caceres)Finora non

sono stati trovati resti di ominidi in associazione

diretta con i primi strumenti di pietra conosciuti,

né in Nord Africa, né in Africa orientale, per cui non

si sa a quale o quali specie vada attribuita la

paternità di quei manufatti e neppure se gli

autori appartenessero al genere Australopithecus 

o a una delle prime forme di Homo, che secondo

una recente scoperta  forse era già presente in

Etiopia 2,8 milioni di anni fa.

"I dati provenienti dall'Algeria - ha affermato

Sahnouni - cambiano il punto di vista precedente

secondo cui l'Africa orientale sarebbe stata la culla

dell'umanità. Di fatto, è stata l'intera Africa a essere

la culla dell'umanità."

 
 
 

L'antico DNA delle genti americane...

Post n°1838 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

 

Fonte: Le Scienze

09 novembre 2018

Una nuove versione del popolamento delle Americhe

L'analisi del DNA ottenuto dai resti di antichi

abitanti del Nord e del Sud America ha mostrato

che il popolamento del continente americano ha

seguito modelli di dispersione complessi, rivelando

anche l'enigmatica presenza di antichi gruppi

umani imparentati con popolazioni dell'Australasia.

Il popolamento delle Americhe è stato molto più

complesso di quanto ipotizzato, e in alcune regioni

vi hanno contribuito gruppi ancestrali finora

sconosciuti, come dimostra una "firma" genetica

che li apparenta alle popolazioni australasiatiche,

in particolare agli indigeni del Papua, dell'Australia

e delle isole Andamane.

A scoprirlo è stato un gruppo internazionale di

ricercatori diretti da Eske Willerslev e J. Víctor

Moreno-Mayar dell'Università di Copenaghen,

in Danimarca, che firmano un articolo

 pubblicato su "Science".

Molti studi si sono concentrati sulle prime migrazioni

umane in Nord e Sud America, arrivando alla

conclusione - basata prevalentemente sul confronto

del genoma di persone viventi e un numero limitato

di DNA antichi, provenienti per lo più dal Nord

America - che le prime popolazioni americane

avrebbero iniziato a differenziarsi dai loro antenati

siberiani ed estremo-orientali poco meno di 25.000

anni fa; in seguito, circa 15.000 anni fa, queste

prime popolazioni si sarebbero diversificate ulteriormente

in nordamericane e sudamericane.

Tuttavia ben poco si sapeva sulla dinamica dei

successivi spostamenti di queste genti.

Una nuove versione del popolamento delle Americhe

Una delle sepolture in cui sono stati rinvenuti

i resti analizzati. (Cortesia Mark Aldenderfer)

Ora Moreno-Mayar e colleghi hanno sequenziato

il genoma di 15 antichi americani, sei dei quali

vissuti oltre 10.000 anni, provenienti da località

di tutto il continente: dall'Alaska fino alla Patagonia.

La scoperta più sorprendente è stata la presenza

di un chiaro segnale genetico australasiatico in

popolazioni del Sud America, del tutto assente

in quelle del Nord America.

"Il fatto che questo segnale non sia stato

documentato in Nord America - osserva Moreno-

Mayar - implica che un gruppo precedente

[a quelli considerati i primi americani] che lo

possedeva era già scomparso, oppure che un

gruppo giunto più tardi ha attraversato il Nord

America senza lasciare alcuna traccia genetica."

Una nuove versione del popolamento delle Americhe

Il sito di Trail Creek, in Alaska, dove sono stati

scoperti resti umani risalenti a circa 9000 anni fa.

(Cortesia NPS photo by Jeff Rasic)Inoltre, le analisi

hanno mostrato che le ondate migratorie da nord

a sud sono state molteplici, portando a popolazioni

chiaramente diversificate, ma secondo un modello

tutt'altro che lineare. Le popolazioni insediatesi per

prime in America centrale, per esempio, sono risultate

geneticamente più differenziate sia dalle popolazioni

del nord sia da quelle del sud.

A mostrare la complessità del quadro è stata anche

la scoperta che il genoma estratto dai resti umani

scoperti nella Spirit Cave, in Nevada, quindi Stati

Uniti, è sorprendentemente simile a quello dei resti

trovati a Lagoa Santa, nello Stato brasiliano del

Minas Gerais, a testimonianza di un rapidissimo

spostamento nel continente del loro gruppo di

appartenenza.

Singolarmente, inoltre, i genomi della Spirit Cave

e di Lagoa Santa sono molto più vicini ai nativi

americani contemporanei rispetto a qualsiasi altro

gruppo antico o contemporaneo sequenziato fino

a oggi nel continente. Una scoperta, questa, che

ha anche permesso di porre fine a una ventennale

contesa giuridica fra le autorità statunitensi e la

nazione dei Paiute-scioscioni - la principale popolazione

di nativi americani che vivono in Nevada - che

dopo la scoperta dei resti ne aveva rivendicato la

restituzione in base al Native American Graves

Protection and Repatriation Act.

Proprio grazie alle analisi effettuate da Eske

Willerslev e colleghi, nel 2016 lo scheletro di Spirit

Cave è stata restituito alla tribù e all'inizio di

quest'anno si è svolta una cerimonia di sepoltura

privata a cui ha partecipato anche Willeslev.

Una nuove versione del popolamento delle Americhe

 Resti umani rinvenuti a Lagoa Santa, in Brasile.
(Cortesia Natural History Museum of Denmark)

Un altro studio specificamente dedicato alla genetica

delle popolazioni andine degli altopiani e al loro

adattamento a quel difficile ambiente - effettuato

da un gruppo internazionale di ricercatori diretto

da John Lindo della Emory University di Atlanta e 

pubblicato su "Science Advances" - ha mostrato

che i primi insediamenti stabili sull'altopiano risalgono

a un periodo compreso fra i 9200 e gli 8200 anni fa.

Le analisi effettuate su una serie di DNA antichi -

di età compresa fra i 6800 e i 1400 anni fa - hanno

rivelato che i primi adattamenti all'altitudine sono

insorti piuttosto rapidamente; tuttavia - abbastanza

sorprendentemente, come osservano i ricercatori -

non hanno interessato geni legati all'adattamento

all'ipossia (carenza di ossigeno). (Le popolazioni

andine attuali sono geneticamente predisposte a

una più elevata produzione di emoglobina nel sangue.)

Le prime mutazioni hanno invece interessato

il sistema cardiovascolare.

Ma la modifica genetica più incisiva ha riguardato

la capacità di digestione dell'amido. Verosimilmente

è stata una risposta adattiva alla dipendenza da una

dieta che per millenni ha visto la patata, ricca di amido,

come fonte alimentare assolutamente primaria.

 
 
 

Le sorprese riservate da un antico mastodonte...

Post n°1837 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Uno studio basato sulla datazione di ossa di

mastodonte e pietre fratturate scoperte in

California suggerisce la presenza di specie

umane in Nord America 130.000 anni fa, cioè

115.000 anni prima rispetto allo scenario più

accreditato dalla comunità scientifica.

Ma gli scettici non mancanodi Ewen Callaway/Nature

Trovati i teschi dei primi americani

archeologiapaleontologiaantropologia
Antichi esseri umani si sono stabiliti in Nord

America circa 130.000 anni fa, suggerisce uno

studio controverso che sposta indietro di oltre

100.000 anni la data che la maggior parte degli

scienziati accetta. L'annuncio strabiliante, fatto

su "Nature", è basato su pietre scheggiate e

ossa di mastodonte frammentate scoperte in

California che, secondo un gruppo di ricercatori,

indicano un'attività umana. La loro affermazione,

se fosse corretta, imporrebbe un profondo

ripensamento di quando, come e da chi le Americhe

furono colonizzate per la prima volta. La maggior parte

degli scienziati sottoscrive il modello secondo cui Homo

sapiens arrivò in Nord America meno di 20.000 anni fa.

L'ultimo studio solleva la possibilità che un'altra specie

di ominini, come i Neanderthal o un gruppo conosciuto

come Denisovani, lo abbia fatto in qualche modo prima

di allora, partendo dall'Asia e arrivando in Nord America

, dove poi avrebbe prosperato.

"È una scoperta sorprendente e, se fosse autentica,

cambierebbe le carte in tavola. Muterebbe completamente

lo scenario", dice John McNabb, archeologo del

paleolitico all'Università di Southampton, nel Regno

Unito. "Sospetto che ci saranno molte reazioni

all'articolo, e la maggior parte di esse non sarà

di accettazione".

Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe?

Due teste di femore di mastodonte recuperate negli

scavi (Credit: San Diego Natural History Museum)
Lo studio si concentra su antichi frammenti di ossa

animali trovati nel 1992 durante alcuni lavori stradali

nei sobborghi di San Diego. La scoperta aveva fatto f

ermare i lavori, e il paleontologo Tom Deméré del

Museo di storia Naturale di San Diego aveva condotto

uno scavo di cinque mesi. Il suo gruppo aveva scoperto

denti, zanne e ossa di un parente estinto degli elefanti

chiamato mastodonte

(Mammut americanum), accanto a grandi rocce

frantumate e usurate. Il materiale era stato seppellito

da sedimenti fini lasciati da un flusso d'acqua, ma

Deméré aveva intuito che le rocce erano troppo grandi

per essere state trasportate dall'acqua.

"Abbiamo pensato ad alcune spiegazioni possibili per

questa situazione, e continuava a uscire fuori che

avrebbero potuto essere coinvolti degli esseri umani",

dice. Le analisi effettuate dagli anni novanta fino a

oggi hanno indicato che l'avorio era vecchio di circa

300.000 anni, ma Deméré era scettico: il metodo usato

dai suoi colleghi soffriva di alcuni inconvenienti e l'epoca

sembrava improbabile per esseri umani vissuti in

California.

Un consenso rimesso in discussione
Negli ultimi dieci anni, la ricerca archeologica e gli

studi del DNA moderno e antico hanno raggiunto

un consenso sul popolamento delle Americhe: gli

esseri umani provenienti dall'Asia attraversarono

un ponte di terra sull'attuale Stretto di Bering in

Alaska circa 20.000 anni fa e raggiunsero la punta

meridionale del Sud America circa 14.000-15.000

anni fa.

Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe?
Accumulo di ossa e pietre trovato durante gli scavi

(Credit: San Diego Natural History Museum)
Alcuni archeologi, tuttavia, sostengono che gli esseri

umani sono arrivati in epoche precedenti.

Essi si basano su siti contenenti pietre che somigliano

a utensili litici e grandi ossa animali con danni

apparentemente causati da esseri umani. I co-autori

di Deméré, Kathleen Holen e suo marito Steven Holen,

archeologi del Center for American Paleolithic

Research a Hot Springs, in South Dakota, hanno

proposto diversi siti nel Midwest degli Stati Uniti

come prova di una presenza umana nelle Americhe

fino a 40.000 anni fa. Ma molti scienziati hanno

guardato a queste affermazioni con scetticismo.

Dopo aver sentito parlare del mastodonte di San

Diego, gli Holen hanno visitato Deméré nel 2008

per vedere i resti impacchettati. "Stavamo guardando

qualcosa di molto, molto vecchio, ma aveva schemi di

fratturazioni già visti", dice Kathleen Holen.

Era come se le ossa fossero state poste sopra una

grossa pietra che faceva da incudine e fossero state

colpite con una pietra che faceva da martello.

Il gruppo afferma che le rocce recuperate dal sito

sono state usate per estrarre il midollo osseo del

mastodonte o per creare utensili ossei più delicati.

Sull'osso del mastodonte non ci sono evidenti segni

da taglio, il che indica che l'animale non è stato ucciso

o macellato per la sua carne.

Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe?

Gli autori dello studio durante i test per verificare

gli schemi di fratturazione delle ossa sottoposte a

percussione con una grossa pietra (Credit: Kate

Johnson/San Diego Natural History Museum)
Usando raffinati metodi di datazione, i ricercatori

hanno cercato nuovamente di determinare l'età del

sito. Non potevano usare la tecnica al radiocarbonio

sul mastodonte, perché nelle ossa non c'era traccia

di proteine collagene contenenti carbonio.

Un secondo metodo era troppo impreciso. Una terza

tecnica, che misura i livelli relativi di uranio e di torio

radioattivi nell'osso, ha suggerito che i resti risalgono

a 130.000 anni fa. "Sono sicuro che molti dei nostri

colleghi saranno assai scettici. Me lo aspetto.

Questo è molto, molto prima di quanto la maggior

parte degli archeologi si aspetta per la presenza di

ominini in Nord America", dice Steven Holen.

"E parlo anche per me stesso".

Alistair Pike, archeologo dell'Università di Southampton,

specializzato nella datazione all'uranio, osserva che

il metodo del gruppo si basa su modelli semplificati di

come l'uranio passa dall'acqua di falda alle ossa, ma

non vede difetti evidenti nel lavoro di datazione.

"All'apparenza, questi risultati sono quanto di meglio si

possa ottenere", afferma Pike.

La raccolta di DNA antico dai resti e la determinazione

della relazione evolutiva dell'animale con altri mastodonti

potrebbe anche permettere di stabilire l'età del sito,

osserva Pontus Skoglund, genetista di popolazioni

della Harvard Medical School di Boston, in Massachusetts,

che lavora sul DNA antico. Se la scoperta reggesse,

aggiunge, "sarebbe una delle revisioni più profonde

del nostro modello di come si è popolato il mondo".

Un annuncio che desta scetticismo

Tuttavia, prima di invocare gli esseri umani, i ricercatori

devono escludere in modo più netto la possibilità

che le pietre e le ossa siano state frantumate da

forze naturali, afferma David Meltzer, archeologo

della Southern Methodist University di Dallas, in Texas.

"Se vuoi spingere l'antichità umana nel Nuovo

Mondo più indietro di 100.000 anni in un colpo solo,

dovrai farlo con un caso archeologico migliore di questo".

Nuovi pionieri per la colonizzazione delle Americhe?

Frantumazione delle ossa per effetto dell'impatto

con una grossa pietra: grazie a questo schema,

è possibile determinare se i resti archeologici

portano i segni di una manipolazione umana

(Credit: Kate Johnson/San Diego Natural History Museum)
McNabb vorrebbe vedere gli schemi di frantumazione

analizzati in modo più dettagliato. Trova "curioso" che

il sito non abbia prodotto altre tracce di presenza

umana, come gli utensili in pietra di forma caratteristica

che si trovano tipicamente in molti siti di macellazione

di animali in Africa.

Erella Hovers, archeologa della Hebrew University di

Gerusalemme, che ha esaminato l'articolo per "Nature",

dice di essere rimasta un po' sorpresa quando il

manoscritto è arrivato nella sua posta elettronica:

"Mi sono detta: 'ma veramente?'". Tuttavia, dopo le

revisioni che hanno approfondito il lavoro di datazione

e hanno dimostrato che colpire le ossa moderne di

elefanti con grandi rocce produce schemi di danno simili

a quelli osservati sulle ossa dei mastodonti, Hovers

è ora convinta che siano stati ominini a creare il sito

californiano. "Tutto questo è sbalorditivo," dice. "Lascia

aperte un sacco di domande perché non sappiamo

nient'altro, tranne che c'erano delle persone laggiù".

Chi erano i primi americani?
Se gli esseri umani o i loro antenati sono i responsabili,

i candidati sono diversi. Gli antenati degli esseri umani

moderni non africani hanno lasciato il continente meno

di 100.000 anni fa, ma migrazioni precedenti dall'Africa

avrebbero potuto raggiungere il Nord America, dicono

Deméré e i suoi co-autori. Essi si riferiscono a denti

simili a quelli di Homo sapiens risalenti a 100.000 anni

fa scoperti in Cina e agli indizi secondo cui alcuni gruppi

indigeni in Sud America portano traccia di una possibile

migrazione precedente nelle Americhe.

Chris Stringer, paleoantropologo del Museo di storia

naturale di Londra, propende per i denisovani o i

neanderthaliani, che vivevano entrambi nella Siberia

meridionale almeno 100.000 anni fa. Eppure, non vi è

alcuna prova che l'uno o l'altro dei due gruppi potesse

sopravvivere all'epico viaggio artico dalla Siberia all'Alaska.

"Molti di noi vogliono vedere prove da altri siti di

questa antica colonizzazione prima di abbandonare

il modello convenzionale di un primo arrivo da parte

degli esseri umani moderni negli ultimi 15.000 anni",

spiega Stringer. "Tra poco inizieremo a cercare", dice

Deméré, che ha già adocchiato un altro sito della

California, scavato da suo gruppo alcuni anni fa.

Steven Holen spera che altri scienziati si uniscano

alla ricerca. "Teniamo gli occhi aperti per trovare

questo tipo di materiale quando siamo sul campo",

afferma. "Non diciamo semplicemente 'questo non

può essere'".

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

Nature il 26 aprile 2017. Traduzione ed editing a cura

di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti

riservati.)

 
 
 

Un antico cimitero monumentale...

Post n°1836 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

FONTE: Le scienze articolo

riportato integralmente

Il cimitero monumentale di un'antica società egualitaria

Il cimitero monumentale di un'antica società egualitaria

La scoperta di un cimitero monumentale

edificato 5000 anni fa da una società

egualitaria di pastori nomadi lungo le coste

del lago Turkana smentisce la tradizionale

convinzione che la costruzione di strutture

megalitiche fosse possibile solo in presenza

di un'organizzazione sociale complessa e con

una forte stratificazione gerarchica(red)

Risale a 5000 anni fa il primo, grande cimitero

monumentale dell'Africa orientale scoperto nel

sito di Lothagam North Pillar, lungo le coste del

lago Turkana, in Kenya. I reperti venuti alla luce

durante gli scavi suggeriscono che la popolazione

di pastori che lo edificò avesse un'organizzazione

sociale sostanzialmente egualitaria, priva di

significative gerarchie.

La scoperta contraddice quindi la diffusa convinzione

che la costruzione di grandi edifici o monumenti

megalitici - da quelli di Stonehenge e Carnac alle

altre migliaia sparsi per il mondo - sia necessariamente

espressione di una struttura sociale stratificata con

forti specializzazioni nei diversi lavori.

I risultati della campagna di scavi, condotta da un

gruppo internazionale di archeologi, sono illustrati sui

"Proceedings of the National Academy of Sciences".

Il cimitero monumentale di un'antica società egualitaria

Il sito Lothagam North Pillar.Il cimitero -

che è stato usato per diversi secoli, da 5000 a 4300

anni fa circa - è costituito da una piattaforma di circa

30 metri di diametro, al cui interno si trovava una

profonda fossa per l'inumazione delle salme.

Una volta riempita, la fossa fu coperta da uno strato

di pietre, al di sopra del quale vennero collocati diversi

megaliti, alcuni dei quali trasportati fin lì anche da un

chilometro di distanza. Il complesso era stato poi

completato con l'aggiunta, sopra e accanto alla

piattaforma, di una serie di cerchi di pietre e di cairn,

caratteristiche strutture formate da pietre impilate

a secco.

All'interno della fossa sono state inumate almeno

580 persone, di ogni età e sesso, senza segni di

un trattamento particolare riservato ad alcuna di

esse, come si osserva invece dove esistono gerarchie

sociali. Inoltre, quasi tutti gli individui erano stati

sepolti con ornamenti personali, la cui fattura e

distribuzione era grosso modo sempre uguale.

Entrambi i fattori suggeriscono quindi la presenza

di una società di tipo egualitario

Il cimitero monumentale di un'antica società egualitaria

Ornamenti rinvenuti a  Lothagam North Pillar.

(Cortesia Carla Klehm)Lothagam North - osservano i

ricercatori - fornisce un esempio di una struttura

monumentale che non è legata all'emergere di

gerarchie sociali, spingendo a considerare altre

spiegazioni.

"I monumenti possono essere serviti come luogo

di aggregazione, di rinnovamento dei legami sociali

e di rafforzamento dell'identità della comunità",

osserva Anneke Janzen del Max Planck Institut per

la scienza della storia umana a Jena, e coautrice della

ricerca. "Lo scambio di informazioni e l'interazione

attraverso un rituale condiviso possono aver aiutato

questi pastori itineranti a sopravvivere in un paesaggio

in rapido mutamento".

Diversi indizi indicano infatti che il cimitero di Lothagam

North sia stato costruito in un periodo di profondi

cambiamenti ambientali durante il quale la riduzione

delle precipitazioni annuali fece quasi dimezzare la

superficie del lago Turkana.

 
 
 

Le antiche pitture rupestri in Borneo.

Post n°1835 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

Le Scienze

LE SCIENZEIn Borneo le più antiche pitture

rupestri figurativeIn Borneo le più antiche

pitture rupestri figurative.

Raffigura un animale, probabilmente

un bovino, la più antica pittura rupestre mai

rinvenuta. Scoperta in Borneo, risale ad almeno

40.000 anni fa e precede quindi di alcune migliaia

di anni le prime rappresentazioni figurative

prodotte dai nostri antenati in Europa e in Indonesia.

La scoperta è avvenuta applicando la tecnica di

datazione uranio-torio alle piccole concrezioni

calcaree che si sono formate sopra i disegni(red)

L'origine preistorica del puntinismo .L'origine preistorica

del puntinismoDiecimila anni in più per le pitture

rupestri di ChauvetDiecimila anni in più per le pitture

rupestri di ChauvetArte rupestre: in Indonesia è

antica come in EuropaArte rupestre: in Indonesia

è antica come in EuropaConfermato il primato di

antichità delle pitture della grotta di Chauvet.

Confermato il primato di antichità delle pitture della

grotta di ChauvetL'arte preistorica della grotta di

Chauvet

L'arte preistorica della grotta di Chauvet

L'arte della grotta ChauvetI cavalli del Neolitico e

il realismo delle pitture rupestriI cavalli del Neolitico

e il realismo delle pitture rupestria

Le trecento mani della grotta di Lubang

Si trova in una grotta sulla costa orientale del

Borneo la più antica pittura rupestre figurativa

conosciuta, e raffigura un animale non

chiaramente identificato, ma probabilmente

un bovino.
La pittura risale a circa 40.000 anni fa, ossia

allo stesso periodo delle più antiche statuette

in avorio di mammuth rinvenute nelle grotte del

Giura Svevo, in Germania, di fattura attribuibile

a umani moderni. A stabilirlo è stato un gruppo

di ricercatori della Griffith University, a Brisbane,

in Australia, in collaborazione con studiosi del

Centro nazionale di ricerca archeologica di

Giacarta, in Indonesia, che firmano un articolo

pubblicato su "Nature".

In Borneo le più antiche pitture rupestri figurative

La parte in alto a destra di questa pittura rupestre

nella grotta di Lubang Jeriji Saléh risale a circa

40.000 anni faLe pitture rupestri in assoluto più

antiche note - come alcune di quella presenti nel

la grotta di La Pasiega, in Spagna - risalgono a

circa 65.000 anni fa e furono create dai Neanderthal.

Tuttavia, si tratta di serie di linee e punti

variamente disposti. La pittura figurativa - con la

rappresentazione di animali, persone o altri oggetti

- è emersa solo più tardi: finora le più antiche

pitture di questo tipo note erano quelle della grotta

di Chauvet, nella Francia meridionale (da 37.000 a

33.500 anni fa) e quelle trovate nell'isola di Sulawesi,

in Indonesia (35.400 anni fa circa).
Dalla metà degli anni novanta, nelle grotte della

penisola di Sangkulirang - Mangkalihat - una regione

di difficile accesso della provincia indonesiana di

Kalimantan - è stata scoperta una ricchissima serie

di pitture rupestri, costituite da figure geometriche,

impronte di mani in negativo, pitture di animali

(principalmente bovini selvatici) e, infine, figure umane

e rappresentazioni di barche. Tuttavia, la datazione

di queste opere era risultata finora molto difficile.

In Borneo le più antiche pitture rupestri figurativeL

a composizione di mani in nero è stata sovrapposta

a una precendente molto più antica, di cui si possonono

verere le tracce rossastre. Le due composizioni sono

state realizzate a 20.000 anni di distanza una dall'altra.

Ora Maxime Aubert e colleghi sono riusciti a stabilire

l'età di una serie di pitture in quattro grotte di

Sangkulirang-Mangkalihat analizzando con la tecnica

di datazione uranio-torio le piccole concrezioni

calcaree che si sono formate sopra ai disegni.

Nella grotta di Lubang Jeriji Saléh - che contiene

20 immagini di animali e umani e circa 300 impronte

di mani - hanno in particolare individuato una

raffigurazione incompleta di un animale databile

ad almeno 40.000 anni fa, due immagini di banteng

(Bos javanicus lowi) di 37.200 anni fa e diverse

impronte di mani in negativo di datazione più

incerta e varia, ma comunque compresa fra un

minimo di 23.600 anni fa (l'età delle concrezioni

successive alla pittura) e 51.800 anni fa

(l'età del substrato).
La rappresentazione di figure antropomorfe

compare solo in un'epoca più tarda, a partire

da circa 20.000 anni fa, e corrisponde anche a

un cambiamento di stile, sia nei tratti sia nei

colori usati che da rosso-ocra (a base di bauxite)

diventano viola-nero (a base di ematite).
In Borneo le più antiche pitture rupestri figurative

Figure umane rinvenute in una delle grotte del

Borneo orientale indonesiano.

Queste immagini risalgono a un periodo compreso

fra 13.600 e 20.000 anni fa (Cortesia Pindi Setiawan)

Poiché l'arcipelago indonesiano e l'Australia hanno

iniziato a essere popolati da umani moderni già

a partire da 60-70.000 anni fa, ma la pittura figurativa

ha fatto la sua apparizione più o meno in contemporanea

alla comparsa in Europa e Indonesia, in un lasso di

tempo compreso fra i 52.000 e i 40.000 anni fa,

osservano i ricercatori, diventa naturale chiedersi

se questa coincidenza possa essere legata a qualche

flusso migratorio di nuove popolazioni finora non

rilevato. E la stessa domanda si può porre per

il successivo cambiamento stilistico.
 
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L'antica storia del cioccolato...

Post n°1834 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

30 ottobre 2018

Ancora più antica la storia del cioccolato

Ancora più antica la storia del cioccolato

La prima domesticazione della pianta del cacao

risale a 5300 anni fa e fu opera dei Mayo-

Chinchipe, popolazioni amazzoniche dell'Ecuador

sud-orientale. La scoperta smentisce l'ipotesi

finora prevalente, che attribuiva il primato a

popoli dell'America centrale, dove invece la

pianta arrivò quasi 1500 anni dopo

«La domesticazione della pianta del cacao

(Theobroma cacao) e il suo uso a fini alimentari

risale ad almeno 5300 anni fa, e fu realizzata

dalle popolazioni amazzoniche dell'Ecuador

sud-orientale, e non in America centrale,

come finora ritenuto. 

Gli inizi della produzione della materia prima

alla base del cioccolato - che muove un mercato

di oltre 120 miliardi di dollari all'anno ed è il

prodotto dolciario più apprezzato al mondo -

va dunque anticipata di oltre 1400 anni.

A dimostrarlo è stata una ricerca condotta da

un gruppo internazionale di archeologi e genetisti,

che firmano un articolo pubblicato su "Nature

Ecology and Evolution".

L'idea che Theobroma fosse stata domesticata

per la prima volta in America centrale circa 3900

anni fa si basava sulla ricchezza di prove

archeologiche, etnografiche e iconografiche che

testimoniano la grande importanza, sia rituale

che alimentare, attribuita a questo alimento

dalle popolazioni di quell'area.

Tuttavia, recenti ricerche genomiche hanno

dimostrato che la maggiore diversità genetica

della pianta - ben superiore a quella presente

in America centrale - si trova nelle foreste umide

della regione degli affluenti del Rio delle Amazzoni

superiore.

Ancora più antica la storia del cioccolato

pianta di cacao nella foresta ecuadoriana.

(© Science Photo Library / AGF=In questa zona -

nella regione compresa fra i fiumi Chinchipe e

Marañón - si era sviluppata, a partire da 5450

anni fa la cultura Mayo-Chinchipe, che solo di

recente ha iniziato a essere studiata con attenzione,

ed è caratterizzata dalla costruzione anche di edifici

in pietra e da un fiorente artigianato della ceramica.

Analizzando alcuni recipienti in ceramica venuti alla

luce nel 2002 nel sito di Santa Ana-La Florida, e

risalenti a 5500-5300 anni fa, Sonia Zarrillo, Claire

Lanaud e colleghi hanno ora ritrovato al loro interno

microscopicigrani di un amido tipico di Theobroma;

residui di teobromina, un alcaloide amaro presente

nei semi di Theobroma cacao, ma non nei suoi

parenti selvatici; e frammenti di DNA antico con

sequenze uniche di T. cacao, sequenze per di più

molto simili a quelle della cultivar Criollo, che

discende direttamente dalla varietà coltivata dai

Maya e da altre popolazioni precolombiane del

Centro America.

La datazione al carbonio 14 dei reperti è stata

poi confermata anche dall'analisi dei danni al

DNA riscontrati nei residui organici.

Poiché esistono prove archeologiche di scambi

commerciali fra le popolazioni Mayo-Chinchipe

dell'interno con quelle della cultura di Valdivia -

una delle più antiche del Sud America, fiorita sulla

costa del Pacifico dell'Ecuador - gli autori ipotizzano

che questa sia stata la prima tappa del lungo

viaggio che avrebbe poi portato il cacao in America

centrale.

 
 
 

Le grandi estinzioni di massa.

Post n°1833 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Un nuovo studio evidenzia una carenza

di comunicazione fra le scienze che si

occupano delle estinzioni avvenute nell'era

glaciale, spesso attribuite alla nostra specie

nonostante non ci sia un numero sufficiente

di prove per poter affermare che la scomparsa

di mastodonti, tigri dai denti a sciabola e altri

grandi animali sia una responsabilità esclusiva-

mente umana di Brian Switek/Scientific American.

È la domanda che mi sto facendo da quando ho

saputo che quelle bestie sono esistite e sono

morte non molto tempo fa. Il motivo esatto della

loro scomparsa dipende dalla persona a cui lo

chiedete. Alcuni esperti indicano drammatici

cambiamenti climatici alla fine del Pleistocene che

hanno rimpicciolito l'habitat preferito di quell'elefante.

Un'opinione dissenziente condanna la predazione

umana, invocando orde di persone voraci che hanno

mangiato la megafauna del pianeta, quando Homo

sapiens si è diffuso dall'Africa al resto del mondo.

E se a volte si trova un compromesso tra questi

punti di vista - il cambiamento climatico che

destabilizza gli ecosistemi, per esempio, può aver

reso più drammatici gli effetti delle attività umane -

il fatto che stiamo accelerando la sesta estinzione

di massa è stato spesso inserito in una narrazione

di morale ecologica secondo cui dalla fine dell'era

glaciale a oggi l'umanità è stata una piaga per la

biodiversità mondiale.

Il problema dell'overkill nell'era glaciale


Ricostruzione di un gruppo di bradipi terricoli giganti

(Megatherium americanum) e del loro ambiente.

Non si tratta di un dibattito accademico isolato

od oscuro. Le nostre opinioni su quello che ha

ucciso la megafauna dell'era glaciale hanno

avuto un ruolo chiave nelle discussioni sul

ripristino naturale del Pleistocene - portando,

per esempio, gli elefanti asiatici in Nord America

a sostituire i mammut - e le false notizie sulla

clonazione o altre forme di "de-estinzione".

Se gli esseri umani sono stati responsabili

della scomparsa di questi animali e delle

connessioni ecologiche che queste specie hanno

favorito, allora abbiamo la responsabilità di riportarli

indietro. E forse è così. Ma vale anche la pena

indagare come l'idea di overkill [ossia di un tasso

di uccisioni superiore alle capacità riproduttive

della specie predata. NdT] - che si adatti o meno

al modello - abbia influenzato

gli ambienti scientifici che a loro volta suggeriscono

obblighi politici ed etici nei confronti dell'ecologia

globale. Proprio quello che esaminano gli archeologi

Lisa Nagaoka, Torben Rick e Steve Wolverton in

un'analisi dal titolo The overkill model and its impact

on environmental research (Il modello dell'overkill e

il suo impatto sulla ricerca ambientale).

La questione di ciò che è successo alla nostra mega -

fauna dell'era glaciale non ricade nell'ambito di

un'unica disciplina. È un mistero all'incrocio di scienze

varie a differenti, come archeologia, antropologia,

ecologia, zoologia, paleontologia, climatologia,

botanica e altro ancora. E dato che i fatti non sono

qualcosa di autosufficiente ma sono interpretati

attraverso la teoria, non c'è da meravigliarsi che

professionisti di scienze diverse abbiano punti di

vista differenti. Così, per tenere traccia di come le

varie scienze hanno risposto all'idea di overkill del

Pleistocene, Nagaoka e colleghi hanno analizzato

le citazioni nella letteratura scientifica del paleontologo

Paul Martin - il principale promotore dell'idea che gli

esseri umani hanno portato all'estinzione la mega-

fauna del Pleistocene - fino alla sua morte nel 2010.

Nagaoka e coautori si sono focalizzati principalmente

su due campi di studio che, nonostante la loro

connessione, spesso comunicano e collaborano poco

tra loro: archeologia ed ecologia. I ricercatori hanno

scoperto che le due discipline hanno punti di vista

molto differenti su quello che è accaduto al termine

dell'era glaciale, e questo a sua volta influisce sul

modo in cui l'estinzione del mammut e del mastodonte

è usata come strumento retorico nelle moderne

argomentazioni sull'estinzione. Questo è importante

perché, nonostante la sua accettazione apparentemente

diffusa, i dati a conferma dell'idea di esseri umani

affamatissimi che sterminano i grandi animali del

Pleistocene non solo sono controversi, ma spesso

sono addirittura carenti. "La realtà - scrivono

Nagaoka e i coautori - è che l'argomento usa una

serie di affermazioni non testate sulle interazioni

uomo-ambiente" e le prove dirette di una caccia

definitiva da parte degli esseri umani del Pleistocene

sono assai rare nonostante la ricca documentazione

fossile dell'era glaciale.

Quindi, che cosa mostra il confronto tra le scienze?

In archeologia, il ruolo svolto dall'essere umano

nell'estinzione del Pleistocene è una questione aperta.

Facendo riferimento a un sondaggio su 91 archeologi

e alla ricerca di citazioni, Nagaoka e colleghi hanno

scoperto che la maggior parte degli archeologi del

campione non riteneva che l'essere umano fosse

l'unica, o addirittura la causa principale, delle estinzioni.

Il cambiamento climatico è stato menzionato più spesso,

con l'essere umano che avrebbe esercitato una pressione

aggiuntiva o secondaria sotto forma di caccia o di

alterazione del paesaggio. Secondo la maggior parte

degli archeologi, che si concentra sulle abitudini delle

persone nel tempo, la colpa dell'estinzione di Megatherium

e Smilodon non è solo dell'essere umano.

E anche se ci sono problemi con il cambiamento climatico

e altre ipotesi, le ricerche scritte e citate dagli archeologi

hanno molte più probabilità di riconoscere che c'è un

dibattito in corso e che servono altre indagini.

Nell'ecologia il quadro è molto diverso, e ha ottenuto

una risonanza mediatica molto più grande grazie a libri

come La sesta estinzione [di Elizabeth Kolbert, BEAT, 2016]

ed eventi altamente pubblicizzati riguardanti la de-estinzione.

A questo proposito il catalogo delle citazioni è di aiuto.

Mentre gli archeologi sono più propensi a citare i primi

lavori di Paul Martin sull'overkill - che si concentravano

principalmente sul Nord America e sui movimenti umani

attraverso il continente - gli ecologi sono più propensi

a citare i suoi lavori successivi in cui il modello è globale.

Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che gli articoli di

ecologia avevano più probabilità di usare l'ipotetico

scenario di Martin come prova dell'argomento che gli

esseri umani avrebbero eliminato la megafauna invece

che come semplice riferimento a quell'idea.

Il problema dell'overkill nell'era glaciale

Il limite di questa pista basata sulle citazioni è che

molti dei presupposti non testati di Martin - cioè

che la megafauna fosse "impreparata" agli invasori

umani, e che la dispersione umana nel mondo spieghi

la distribuzione della megafauna moderna -

sono spesso affermati come fatti. A questa situazione

non giova la carenza di comunicazione interdisciplinare,

come la chiamano Nagaoka e colleghi, come appare

chiaro dall'esame delle pubblicazioni degli esperti.

I critici dell'ipotesi dell'overkill, o coloro che vedono l

'uomo come una delle varie pressioni che hanno

portano all'estinzione del Pleistocene, spesso

scrivono su riviste di archeologia o che hanno come

specifico oggetto l'ultima parte del Cenozoico.

Gli articoli a sostegno dell'ipotesi dell'overkill, invece,

sono spesso pubblicati su riviste scientifiche di

respiro più ampio e hanno ricevuto molta più pubblicità,

sotto forma di citazioni, nei dibattiti sul ripristino

naturale del Pleistocene e sulla de-estinzione;

proprio per questo è più probabile che siano presi

come indice di un consenso tra gli ecologi anche

quando tale consenso non esiste.

Si può sperare che il processo scientifico possa

aiutare a correggere questa situazione.

Archeologi o paleobiologi potrebbero pubblicare

le loro indagini e critiche su riviste di ecologia,

come suggeriscono Nagaoka e colleghi, ma il processo

di peer-review non è omogeneo e gli ecologi sono

più propensi ad ascoltare altri ecologi - che sono

già propensi ad accettare l'idea di overkill - che esperti

di altri campi. Questo è strano, scrivono Nagaoka e i

coautori, dato che l'archeologia è la scienza che si

occupa delle persone e del loro comportamento nel

orso del tempo. Per determinare se gli esseri umani

sono stati responsabili o meno dell'estinzione di tigri

dai denti a sciabola e bradipi giganti non sarebbe

utile conoscere idee e informazioni in loro possesso?

A partire, per esempio, dal fatto che nonostante una

ricchissima documentazione fossile del Pleistocene

disponiamo solo di una manciata di associazioni tra

esseri umani e megafauna che possono essere

considerate una prova della caccia? Di fatto, alcuni

dei più strenui sostenitori dell'overkill non leggono

né citano la letteratura che riguarda direttamente

l'argomento.

Questa situazione è difficile da cambiare, soprattutto

perché vediamo la terribile influenza dell'attività

umana sulla biodiversità di oggi. Così, il fatto che

gli esseri umani abbiano iniziato questo comportamento

già nell'era glaciale diventa una presa di posizione

politica, e metterla in discussione è talvolta considerato

alla stregua della negazione della moderna crisi di

estinzione. Il fatto è che l'overkill è un'ipotesi non

testata e non verificata che ha comunque preso il

sopravvento, con tanto di senso di colpa per la tendenza

distruttiva dell'umanità, che è alla base di un'idea di

espiazione ecologica. Il fatto che gli esseri umani abbiano

scatenato o meno una crisi globale di estinzione nel

Pleistocene è diventato quasi irrilevante nella

comunicazione sulla conservazione in virtù del valore

retorico dell'argomento. "Quando l'overkill è usato come

un racconto ammonitore e un mezzo per mobilitare il

sostegno all'ambientalismo, l'essere umano è descritto

come una specie distruttiva", scrivono Nagaoka e colleghi,

a quanto pare non a causa di quello che scegliamo di fare,

ma perché la distruttività sarebbe intrinseca alla nostra

natura. È una visione fosca e deterministica della nostra

specie. Inoltre, questa visione ignora le diversità culturali

nel tempo e nello spazio, trattando l'essere umano

come uniformemente vorace e distruttivo, una concezione

offensiva giustificata da una fragile correlazione.

Anche se alla fine si scoprisse che l'overkill è stato

un fenomeno reale e sostanzialmente globale

durante il Pleistocene, scrivono Nagaoka e colleghi, la

storia non è solo un racconto ammonitore o un viaggio

nella colpa nei confronti degli ecosistemi.

Una prospettiva alternativa, scrivono, è quella secondo

cui l'overkill offre informazioni sui diversi modi in cui le

culture umane hanno interagito con l'ambiente - in quali

tempi e luoghi ci sono state più persone distruttive rispetto

a quelle più interessate alla sostenibilità? - aiutandoci

così ad apprezzare meglio il modo in cui siamo intrecciati

con la natura invece di separarcene come forza

distruttiva a sé stante. Non si tratta semplicemente

della mancanza di dati a sostegno dell'overkill:

quell'idea ci separa dalla natura e ci rende cattivi,

in modo forse irrimediabile. Possiamo fare di meglio.

----------------
Brian Switek è un giornalista scientifico freelance e

autore di libri di paleontologia come Il mio amato

brontosauro (Codice, Torino 2014).

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato s

u "Scientific American" il 5 ottobre 2018.

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Il museo dell'innocenza- Pamuk Orhan

Post n°1832 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Narrativa Straniera » Il museo dell'innocenza

 Pamuk Orhan

Un'avventura sentimentale che presto diventa

un'ossessione amorosa. Il primo romanzo scritto

da Orhan Pamuk dopo il conferimento del Premio

Nobel. Una struggente storia d'amore ambientata

nella Istanbul degli anni Settanta.Rampollo di una

ricca famiglia di Istanbul, Kemal sta per fidanzarsi

con l'altolocata Sibel. Tutto sembra filare per il verso

giusto, ma Kemal si innamora perdutamente della

giovane e bellissima Füsun, una sua cugina

appartenente al ramo povero della famiglia.

Fra i due ha inizio una relazione eroticamente

molto intensa, che travalica le leggi morali della

Turchia degli anni Settanta.

Ma i valori tradizionali (e l'opportunismo) hanno

la meglio: Kemal si fidanza con Sibel pensando di

continuare comunque la relazione con l'amante

povera. Però Füsun scompare e lui cade in una

forte depressione, si ritrae dal suo ambiente e

si rifugia nell'appartamento in cui era solito

incontrarla. Dopo un anno di sofferenze i due

si ritrovano: la ragazza si è ormai sposata con

uno sceneggiatore. Kemal non si dà per vinto:

fonda una società per finanziare il debutto

cinematografico del marito, va con la coppia

sul Bosforo a vedere film sentimentali nei cinema

all'aperto. E, soprattutto, diventa un loro ospite

fisso: in otto anni cena con Füsun e il marito

mediamente quattro volte la settimana.

Quasi tutti intuiscono cosa nascondano quelle

visite, ma nessuno dice niente, un po' per interesse,

un po' per senso dell'onore, e poi la stessa Füsun

ha un comportamento ineccepibile.

Durante questi otto anni la Turchia vive una fase di

grandi tensioni politiche che culminano nel colpo di

Stato del 1980 (per Kemal un'autentica iattura:

deve abbreviare le visite a causa del coprifuoco).

Nel 1984 Füsun decide di divorziare e di sposare

Kemal, ma dopo la prima notte d'amore muore in

un incidente d'auto. Kemal decide di comprare dalla

madre di Füsun la casa in cui vive e di farne un

museo dedicato alla donna, il Museo dell'innocenza,

nel quale sistemare tutti gli oggetti che per consolarsi

sottraeva durante gli inviti a cena: cagnetti di porcellana,

orecchini, cicche, calzini, uno spargisale, uno slip,

una grattuggia, degli accendini... e la Chevrolet

dell'incidente. Infine, commissiona all'amico Pamuk

il catalogo romanzato del museo: questo libro.

Narratore elegante e sottile, Orhan Pamuk torna a

raccontare la Turchia e Istanbul, la sua amata città,

attraverso le storie, le vite e gli amori dei suoi abitanti,

perennemente sospesi tra Oriente e Occidente, tra

impellente modernità e stringente tradizione.

In questo romanzo, il primo dopo il premio Nobel per

la Letteratura ricevuto nel 2006, l'autore indaga nelle

profondità dell'animo umano con l'abilità dello scrittore

di qualità, portando allo scoperto passioni inconfessabili,

irrinunciabili e al contempo irraggiungibili.

Il racconto prende il via nei primi anni Settanta, nel

pomeriggio di un bel lunedì di maggio, rischiarato dal

"cielo tipico delle giornate di primavera a Istanbul".

È in questa cornice che il protagonista, Kemal, scopre

il significato più vero della parola felicità, tra le braccia

della donna amata, la diciottenne Füsun, lontana cugina.

Tra i due si accende una passione al primo incontro dopo

molti anni di lontananza, una folgorazione che li travolge

e li trascina in un rapporto che si alimenta di un erotismo

intenso e coinvolgente. La passione non si spegne

nemmeno di fronte ai sensi di colpa, alle convenzioni

sociali e ai doveri familiari che attanagliano Kemal:

è infatti fidanzato con Sibel, ragazza giovane, elegante

e di buona famiglia, per di più colta ("Ha studiato alla Sorbona",

ama ripetere il padre di Kemal). È la fidanzata ideale per uno

come lui, anche se "la belva del desiderio ribelle lo divora",

il miraggio di avere l'una e l'altra lo seduce, l'idea di perdere la

fidanzata "approdo sicuro" economicamente e socialmente lo

spaventa e la prospettiva di una vita senza l'amante gli

procura una sofferenza non solo emotiva ma anche fisica.

Nel racconto di questo rovello interiore e nella descrizione

dell'anatomia della sofferenza amorosa si concentra e si

ammira l'abilità del narratore Pamuk, che affonda a piene

mani nel labirinto delle emozioni e dei desideri di una vita.

Sullo sfondo di questo intreccio di sensazioni si snodano

le tappe della tormentata esistenza di Kemal: il fidanzamento

ufficiale con Sibel, la rottura del loro rapporto, il casto

riavvicinamento a Füsun e l'entrata nella nuova vita

che lei ha saputo crearsi. E poi l'amore per il cinema,

l'impegno come produttore cinematografico, i viaggi

alla scoperta dei principali musei del mondo (con numerose

tappe anche in Italia) e infine, sconvolgente e certo

insospettabile anche per il lettore più smaliziato, una

rivelazione, che avrà il potere di trasformare il sogno

in realtà e la realtà in un sogno. Felicità è stare accanto

alla persona che si ama recitano i pensieri del protagonista

e lo stesso autore, is there a way to view private instagram 

Orhan Pamuk si materializza nelle pagine finali di questo

romanzo per aiutarlo a raggiungere il suo obiettivo, in

un onirico passaggio di consegne, da cui nascerà, un

Museo dell'innocenza, monito perpetuo all'amore, che

travalica i confini del libro per raggiungere direttamente

il cuore dei lettori. "Un museo del genere esisterà

davvero - ha dichiarato Pamuk in un'intervista - Così

spero per lo meno. Dovrebbe aprire nel giugno 2010."

Avrà sede a Istanbul, nel quartieri di Cukurcuma.

Il biglietto di entrata è riprodotto in una pagina del libro.

Narratore vibrante e appassionato, Orhan Pamuk,

tratteggia con maestria la storia di un amore che

sfida la morale e le convenzioni comuni, sullo sfondo

della Turchia degli ultimi trent'anni, regalandoci un

romanzo di grande impatto emotivo, malinconico e

travolgente, che farà riscoprire il sottile piacere della

lettura.

 
 
 

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