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Messaggi del 13/07/2019
Post n°2289 pubblicato il 13 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Risorse Internet L'immagine di Beta Carinae catturata da Hubble (NASA, ESA, N. Smith/University of Arizona, Tucson, J. Morse/BoldlyGo Institute, New York) Il telescopio spaziale Hubble dell'ESA/NASA ha raccolto nuove immagini dei materiali espulsi dal sistema stellare doppio più di 150 anni fa, rivelando preziose informazioni sull'evento, noto come Grande Eruzione Centocinquant'anni di fuochi d'artificio cosmici. Le nuove immagini raccolte dal telescopio spaziale Hubble dell'ESA/NASA anche nello spettro ultravioletto mostrano con eccezionale accuratezza gli esiti dell'esplosione, avvenuta nel 1838 e poi ancora nel 1844, della stella Eta Carinae, un sistema stellare doppio distante da noi 7500 anni luce. Le riprese hanno catturato i gas che continuano a espandersi verso l'esterno, producendo spettacolari bagliori rossi bianchi e blu, che col tempo vanno attenuandosi. anche Grande Eruzione, è stato solo uno degli eventi di espulsione di materia nello spazio dalla stella più grande e massiccia del sistema Eta Carinae, prossima alla fine del suo ciclo vitale. Osservando il cielo in direzione del sistema è possibile distinguere chiaramente l'impronta della Grande Eruzione: gas e polveri proiettati nello spazio dall'esplosione costituiscono una nube dalla caratteristica forma a due lobi conosciuta come Nebulosa dell'Omuncolo. Hubble ha documentato questi eventi eruttivi e la loro evoluzione nell'arco di 25 anni, ma queste ultime immagini dalla Wide Field Camera 3 hanno una risoluzione senza precedenti e catturano la radiazione nella porzione ultravioletta dello spettro, che consente in particolare di seguire l'evoluzione del magnesio incandescente. di gas caldo espulso nella Grande Eruzione che non è ancora entrato in collisione con l'altro materiale che circonda Eta Carinae. La maggior parte dell'emissione si trova dove ci si aspettava di trovare uno spazio vuoto: questo materiale extra si muove rapidamente e aumenta l'energia totale di un'esplosione stellare già di per sé molto potente. I dati raccolti, sottolineano gli autori, sono importanti per capire come è iniziata l'eruzione, perché rappresentano i getti di materiale più rapidi ed energetici proiettati nello spazio dalla stella poco prima dell'espulsione del resto della nebulosa. Eta Carinae nella luce visibile e all'infrarosso, e pensavamo di avere un resoconto abbastanza completo dei suoi detriti espulsi, ma questa nuova immagine a luce ultravioletta sembra gas che non avevamo visto nelle immagini a luce visibile o infrarosse", ha spiegato Nathan Smith dello Steward Observatory dell'Università dell'Arizona, a capo del programma di osservazioni di Hubble. "Siamo entusiasti della prospettiva che questo tipo di emissione del magnesio nell'ultravioletto possa evidenziare gas precedentemente nascosto anche in altri tipi di oggetti che espellono materiale, come protostelle o altre stelle morenti, e solo Hubble può ottenere questo tipo di immagini". |
Post n°2288 pubblicato il 13 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Dopo due secoli, i monti delle Dolomiti regalano un altro minerale. Si chiama Fiemmeite e deve il suo nome alla Val di Fiemme in provincia di Trento, luogo dove è stato rinvenuto. Il nuovo minerale è stato scoperto dal team di ricercatori e geologi dell'Università Statale di Milano e del Museo delle Scienze di Trento.
Quanti ne vengono scoperti ogni anno La Fiemmeite è già stata ufficialmente riconosciuta dall'International Mineralogical Association (IMA), ente che presiede alla nomenclatura e alla classifica- zione di nuovi minerali (CNMNC). Il merito della scoperta e dello studio si deve aFrancesco Demartin e Italo Campostrini del dipartimento di Chimica dell'Università Statale, e aPaolo Ferretti e Ivano Rocchetti del MUSE - Museo delle Scienze di Trento, senza dimenticare la preziosa collaborazione di Stefano Dallabona, appassionato cercatore di minerali del Gruppo Mineralogico Fassa e Fiemme. «Il ritrovamento di nuovi minerali non può essere annoverato come una rarità assoluta - spiega Francesco Demartin, docente di Chimica generale e inorganica in Statale -. Ogni anno in tutto il mondo vengono scoperti tra 100 e 200 nuove specie. Questa scoperta è però particolare per il fatto che le Dolomiti sono oggetto dell'attenzione degli scienziati già dal '700». Era, infatti, il 1792 quando venne dedicata al geologo transalpino Deodat de Dolomieu la Dolomite. L'ultimo era stato la Gehlenite È dal 1815, anno della scoperta della Gehlenite presso il Lago delle Selle, sui Monti Monzoni in Val di Fassa, che sui cosiddetti Monti Pallidi non vengono ritrovati nuovi minerali, se si escludono quelli già noti ma ridefiniti in seguito a recenti revisioni sistematiche, quali pumpellyite-(Fe3+), chabazite-Ca e dachiardite-Na. |
Post n°2287 pubblicato il 13 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le risorse della rete Internet PIÙ VICINI ALLA CONFERMA GEOLOGICA Siamo in una nuova epoca: benvenuti nell'Antropocene Andrea Di Piazza 1 MESE FA titolo Paul Jozef Crutzen, Premio Nobel per la Chimica nel 1995, introduceva nel suo libro il termine già coniato dal biologo Eugene Filmore Stoermer negli anni '80 ed inizialmente riferito in maniera piuttosto generica all'impatto delle attività umane sul nostro Pianeta. Da almeno un decennio la comunità scientifica si è interrogata sulla possibilità che in realtà gli impatti antropici abbiano veramente lasciato il segno, geologicamente parlando, influenzando dinamiche e processi di tutti gli ecosistemi terrestri in maniera transitoria o permanente. Con queste premesse è stato creato un Gruppo di Lavoro sull'Antropocene (Anthropocene Working Group, AWG) all'interno della Sottocommissione Internazionale di Stratigrafia del Quaternario (Subcommission on Quaternary Stratigraphy), a sua volta parte della Commissione Stratigrafica Internazionale (International Commission on Stratigraphy) che fa capo all'Unione Internazionale delle Scienze Geologiche (International Union of Geological Science). Il Gruppo sta esaminando la possibilità di riconoscere l'Antropocene come effettiva unità di tempo geologica, da aggiungere dunque alla scala ufficiale del Tempo Geologico.
La fine dell'Olocene Oggi l'Antropocene non è ancora ufficialmente riconosciuto come unità geologica vera e propria, infatti viviamo ancora nella cosiddetta Età Megalaiana, iniziata circa 4.200 anni fa con il collasso di alcune antiche civiltà per ragioni climatiche, che è a sua volta racchiusa nell'epoca Olocenica. L'eventuale riconoscimento del passaggio all'epoca Antropocenica, non solo segnerebbe la fine dell'Età in cui viviamo ma porrebbe fine anche all'Olocene: un momento "storico", almeno da un punto di vista geologico. Tuttavia, per prima cosa, l'identificazione dell'Antropocene come nuova epoca geologica deve essere giustificata scientificamente, ovvero deve esserci un marker stratigrafico che permetta di riconoscere in maniera distintiva l'unità cronostratigrafica. In questo senso gli scienziati concordano nel riconoscere la presenza, a livello globale, di un orizzonte geologico ricco di radionuclidi ar- tificiali legato al fallout dei test termonucleari avvenuti a cavallo tra gli anni '40 e '50. In secondo luogo, l'utilità del termine deve essere accettata ufficialmente dalla comunità scientifica, cosa che in realtà si è già osservata in maniera informale, visto che il termine è stato largamente utilizzato non solo dal mondo scientifico ma anche e soprattutto dai media e dal grande pubblico. I prossimi passi verso una nuova epoca Qualche giorno fa dunque il Gruppo di Lavoro si è riunito per votare la proposta di ufficializ- zazione del passaggio dall'Olocene all'Antropocene: 29 membri del Gruppo su 34 hanno votato favorevolmente, quindi si attende adesso l'invio ufficiale della proposta alla Commissione Stratigrafica Internazionale che entro il 2021 dovrebbe decidere se aggiornare o meno la scala ufficiale cronostratigrafica. Il voto conferma sostanzialmente un'altra votazione informale che ha avuto luogo presso il Congresso Geologico Internazionale di Cape Town nel 2016, ma è servito a stimolare la ricerca di un marker geologico che descriva il passaggio ufficiale da un'epoca geologica ad un'altra. A proposito di ciò il Gruppo sta considerando dieci siti candidati ad ospitare le cosiddette "Sezioni e Punti Stratigrafici Globali" (Global Stratigraphic Section and Point, GSSP), ovvero quegli affioramenti "chiave" in cui è fisicamente riconoscibile il passaggio tra unità cronostratigrafiche differenti e dunque tra Olocene ed Antropocene. Tra questi vi sono i coralli della Grande Barriera Corallina, un lago cinese ed una cava nel nord dell'Italia. Grande attesa dunque nel mondo scientifico per la redazione della proposta formale che passerà al vaglio della Commissione Stratigrafica Internazionale e poi appuntamento al 2021 con il parere definitivo del gotha della stratigrafia mondiale che ci dirà se effettivamente siamo entrati in una nuova epoca geologica e soprattutto se abbiamo lasciato un segno indelebile nella geologia della nostra fragile casa nell'Universo. |
Post n°2286 pubblicato il 13 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet GEOLOGIALa ricarica magmatica dei Colli Albani, il vulcano a sud di Roma ANDREA DI PIAZZA2 AGO 2018 Circa due anni fa, la pubblicazione di uno studio sul sistema vulcanico deiColli Albani fece crescere nell'opinione pubblica il timore - probabilmente amplificato dai media e dalla concomitanza con lo sciame sismico nell'Italia Centrale - di una possibile imminenteripresa dell'attività eruttiva del vulcano a sud di Roma. Le conclusioni a cui è giunto questo studio, pubblicato sul Geophysical Research Letters, ovvero che il sistema magmatico sia in fase di ricarica, vengono oggi confermate da un nuovo lavoro a firma di ricercatori dell'Ingv di Roma, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Ambientali dell'Università Babes-Bolyai di Cluj-Napoca (Romania), l'Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria - CNR IGAG di Roma, l'Ohio State University, l'Università degli Studi della Campania e il CNR di Napoli.
La ricarica magmatica dei Colli Albani La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Geochemistry Geophysics Geosystems ad aprile di quest'anno, mostra come il sistema magmatico del vulcano a sud di Roma stia 'ringiovanendo'. Come confermato dai dati satellitari InSAR, con cui si monitora la deformazione del suolo, negli ultimi 20 anni si è osservato un significativo rigonfiamento del settore occidentale e meridionale del vulcano e contemporaneamente una generale subsidenza del suo settore centrale. Questi dati, combinati con la tettonica dell'area e con le misure di importanti parametri geochimici, hanno permesso di sviluppare un modello di deformazione che si spiega con la cristallizzazione ed il raffreddamento di un corpo magmatico al di sotto dell'area centrale del vulcano (contrazione e dunque subsidenza), e con due zone di lento accumulo di magma al di sotto del settore occidentale e meridionale del vulcano (iniezione di magma e dunque rigonfiamento).
Il Vulcano Laziale L'attività vulcanica dei Colli Albani - o Vulcano Laziale - è iniziata circa 600mila anni fa e si è conclusa circa 36mila anni fa. Ad oggi il complesso vulcanico si considera in fase 'quiescente', ovvero in una condizione caratterizzata da manifestazioni di vulcanismo secondario (es. fumarole, mofete, acque calde) senza eruzione di nuovo magma. La composizione geochimica dei fluidi emessi dal vulcano del resto conferma la presenza di una sorgente magmatica profonda ancora attiva. Tra il 1989 ed il 1990, la zona è stata interes- sata da un importante sciame sismico con oltre 3000 eventi di magnitudo compresa tra 1.5 e 4.0 ed accompagnato dal rilascio di grandi quantità di fluidi ricchi in CO2. Le grandi faglie che tagliano questo settore di crosta terrestre, infatti, agiscono da via preferenziale per la risalita di fluidi e di magma. Tutti questi indizi fanno capire come il sistema magmatico dei Colli Albani si stia lentamente ricaricando, fattore che deve incoraggiare lo sviluppo di una fitta rete di monitoraggio di tutti i parametri geofisici e geochimici con il fine di controllare ogni minimo sussulto del vulcano. Le deformazioni del suolo misurate, inoltre, potrebbero portare a futuri episodi di instabilità dei versanti: questo pone unulteriore rischio a breve termine per la presenza dei numerosi centri abitati, di importanti infrastrutture e per la vicinanza con la grande area metropolitana di Roma. |
Post n°2285 pubblicato il 13 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze GEOLOGIA: Nelle viscere dell'Appennino meridionale individuato un corpo magmatico A differenza dei processi che accompagnano la risalita dei magmi durante le eruzioni vulcaniche, la messa in posto di corpi intrusivi (volumi di magma che si intrudono nella litosfera senza raggiungere la superficie) è un meccanismo ancora poco conosciuto, per la difficoltà del magma di "comunicare" con la superficie terrestre tramite segnali geochimici e geofisici. A gettare nuova luce su questo tema è stato pubblicato su Science Advances uno studio, firmato da un team di ricercatori italiani dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Dipartimento di Fisica e Geologia dell'Università di Perugia, che apre nuove prospettive nella ricerca dei meccanismi di innesco dei terremoti in zone non vulcaniche e nella valutazione del rischio sismico associato. Terremoti e acquiferi per svelare l'esistenza del magma Il 29 dicembre 2013 un terremoto di magnitudo momento (Mw) 5 è avvenuto sulla verticale dell'Appennino Matese, dando origine a una sequenza sismica che si è protratta per 50 giorni con 350 aftershocks. Terremoti giudicati "anomali" dal team di ricercatori a causa della loro maggiore profondità (10-25 km) rispetto alla sismicità tipica di questa zona (< 10-15 km). Altri due fattori hanno incuriosito gli studiosi: innanzitutto le forme d'onda dei sismi, simili a quelli che avvengono in aree vulcaniche, e poi la distribuzione degli ipocentri, disposti a descrivere un volume di roccia asismico. Tutti fattori che, associati all'attività geotermica della zona, hanno lasciato pensare alla possibile presenza di un corpo magmatico. magmatica, i ricercatori hanno dunque analiz- zato un gran numero di sorgenti ed emissioni gassose distribuite negli 812 kmq dell'acquifero Matese. Le sorgenti sono molto ricche in CO2 di origine profonda, la stessa anidride carbonica che alimenta non solo le numerose emissioni gassose superficiali della zona ma anche i complessi vulcanici di Roccamonfina, dei Campi Flegrei e del Vesuvio, che distano circa 100 km da quest'area. Una scoperta importante La ricerca svela dunque la presenza di magma in profondità e in pieno Appennino meridionale, una scoperta che ha grandi ripercussioni sulle conoscenze della struttura e della sismicità delle catene montuose, sui meccanismi di risalita dei magmi nella crosta e sul loro possibile monitoraggio. «I risultati di questo studio - spiega Guido Ventura, vulcanologo INGV e coordinatore del gruppo di ricerca con Francesca Di Luccio - aprono nuove strade alla identificazione delle zone di risalita di magma nelle catene montuose e mettono in evidenza come tali intrusioni pos- sano generare terremoti con magnitudo significativa». I ricercatori escludono che il corpo magmatico possa raggiungere in tempi brevi la superficie come spiega Giovanni Chiodini, geochimico INGV e co-autore, «È da escludere che il corpo magmatico possa arrivare in superficie formando un vulcano. Tuttavia se il processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare, non si può escludere che, alla scala dei tempi geologici (migliaia di anni), si possa formare un edificio vulcanico». © RIPRODUZIONE RISERVATA E CITAZIONE FONTE:RIVISTANATURA.COM |
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