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Messaggi del 27/07/2020
Post n°3209 pubblicato il 27 Luglio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet giovedì 20 giugno 2019 Il contadino che indicava la luna, prefazione di Franco Laner
induce a interrogarmi per dar ragione a diverse sensazioni e perché no, anche ad emozioni, che Paolo mi ha trasmesso con la narrazione degli ultimi decenni di archeologia nuragica. Il fulcro del libro è l'originale lettura della civiltà nuragica che Mauro Zedda ha saputo declinare introducendo il parametro archeoastronomico. Purtuttavia il testo comprende ulteriori e importanti riflessioni sull'inconsistenza dell'attuale ricerca scientifica dell'archeologia nuragica, ancora in buona parte arroccata sul paradigma taramel- lilliano (questa aggettivazione, di zeddiana invenzione, mette insieme due archeologi. Prima Antonio Taramelli, bergamasco, che svolse la sua attività in Sardegna e fu anche senatore e poi Giovanni Lilliu che ne raccolse l'eredità. Costoro hanno segnato l'archeologia isolana di tutto lo scorso secolo e sancirono la funzione militare dei nuraghi). Per certi versi è ovvio il mio straniamento emotivo, considerato che ho fatto parte dell'avventura, ancora in atto, della sconfessione del paradigma nuraghe-fortezza, ma soprattutto perché sono coinvolti sentimenti di amicizia con i protagonisti, non solo con Mauro, ma con l'autore stesso del libro, col formidabile studioso Massimo Pittau, senza sottovalutare Arnold Lebeuf a partire da quando lo sentii la prima volta a Serri, quando mi alzai dopo la sua conferenza sul Pozzo di Santa Cristina e commentai con una sola delle poche parole francesi che conosco: Chapeau! Nemmeno posso dimenticare il coraggioso Augusto Mulas per la "rottura" col paradigma in cui si è formato. E neppure molti archeologi, che ho spesso denigrato, tutto preso dall'evidenza delle nostre teorie, dimenticandomi che anche loro tengono famiglia, convinzioni e legittime aspirazioni di posto e di carriera, mi appaiono ora, leggendo il libro, diversi e talmente modesti che infierire è stato tempo perso e mi chiedo con quale diritto mi sia accanito, fino all'esasperazione, contro le loro inconsistenti asserzioni, spesso ripetute come i bambini recitano sotto l'imposizione della maestrina di turno. Mi chiedo - per capire dove abbiamo sbagliato - perché tante battaglie per far emergere semplici evidenze che una qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso comune avrebbe difficoltà ad ammettere, come la funzione militare di un nuraghe? Eppure, come sono duri a morire gli idola di convenienza politica, culturale, sociale! Le continue prese di posizione sulla deriva che il paradigma nuraghe- fortezza induceva, sugli ostacoli a nuove ipotesi, sui corollari che gemmavano per sostenere quelle che ho definito tonterias, è stato perso troppo tempo, tempo sottratto a mettere a frutto intuizione e impegno e causa prima del mio attuale disincanto nei confronti dell'archeologia, che forse Paolo, magari inconsciamente, cerca di rimuovere, chiedendomi di esprimere un mio parere sul suo lavoro. Comincio dal titolo. La parola chiave più intrigante è contadino. Mauro stesso rivendica questo suo stato. C'è in ciò un compiacimento: lavorare la terra significa contaminarsi con la grande dea, feconda generatrice, che gode, introiettando il dio sole, che si relaziona coi ritmi astronomici che dettano i tempi di semina e i cicli vitali e si confronta con la loro ineluttabile e inesorabile iterazione. Coltivare non può prescindere dall'osservare e quindi dedurre. Coltivare significa conoscere la scienza dell'agricoltura, avere strumenti di misurazione e quindi nozioni forti di topografia, di cui Mauro ha fatto tesoro. Come giustamente nota Paolo, i lavori di Mauro hanno spesso un forte apparato statistico. Raccoglie puntigliosamente dati, orientamenti, caratteristiche misurabili sui monumenti che indaga, elabora e cerca spiegazione e deduce inferenze e corollari. Ripete, in altre parole, la genesi della scienza: dall'osservazione alla spiegazione. Passo successivo: logica comportamentale e speculativa, fino alla predizione. Come è meglio orientare i filari di un vigneto? Aspettare o meno la luna nuova per ripiantare i pomodori? A quale specie di cultivar destinare un nuovo appezzamento? Le decisioni non possono che rapportarsi alla propria visione cosmologica, a precisi paletti astrali e alla meditazione che induce l'osservazione - esagero - financo dell'ombra di un tutore che scandisce il tempo del giorno, del mese, dell'anno. Contadino capace di cogliere il rapporto inferi-terra-cielo ed entrare in sintonia con la perfezione astronomica, dunque con l'osservazione e la scienza, sua fedele ancella. Contadino dunque come chiave di lettura della sua curiosità e capacità di inferenze, non solo scientificamente speculative, bensì di concretezza, utilità e programmazione. Ancora sul titolo del libro, che mi piace analizzare. Il contadino indica la luna. Il contadino è chino sulla terra. nche l'archeologo è chino sulla terra ed è attento a ciò che brilla sulla punta del piccone. Un archeologo, di norma, non può che resocontare ciò che scava, senza spingersi ad immaginifiche supposizioni (per fortuna qualcuno lo fa!). Mauro invece alza spesso la testa dalla terra verso il cielo. Poi ritorna alla terra. Terra e cielo sono correlati. L'ordine cosmico trova un corrispettivo, viene ricreato in terra. I modi di ricreazione sono l'ampio campo di pensiero di Mauro. Un vero scrigno di inferenze speculative che mettono in crisi convinzioni radicate, compresi i modesti statuti dell'archeologia sarda a partire dal paradigma nuraghe-fortezza, che assegna al profano e non al sacro queste costruzioni. È qui appena il caso di sottolineare che il paradigma taramel-lilliano non è la sola anomalia. A parole si auspica, ad esempio, l'interdisciplinarietà. Appena però un piede estraneo osa varcare il recinto degli scavi, viene inibito, escluso. Entra, a volte, chi asseconda il già detto e lo conferma. Provate a sostenere che evidenti capitelli trovati negli scavi di Monte Prama, oltretutto quadrati e non circolari, siano tali e non modelli di nuraghe o che un bronzetto non sia un guerriero anziché un sacerdote o ancora, che le palle litiche trovate nei nuraghi non siano proiettili per fantasiose catapulte o fionde, bensì raffigurazioni astrali. Errori interpretativi sono ricorrenti nella storia delle varie scienze. Ma a fronte dell'evidenza si cambia e ci si ravvede. L'archeologia sarda in ciò è perlomeno singolare: insiste a sostenere l'insostenibile! Spiegato il paradigma nuraghe-fortezza e i nefasti corollari che ne sono derivati e come tutt'ora tale paradigma si ostativo a studi e ricerche, Littarru dedica un condivisibilissimo capitolo a Massimo Pittau che con logica deduttiva fu il primo a smontare il castello paradigmatico taramel-lilliano, partendo da una disciplina, apparentemente distante dall'archeologia - la linguistica - a cui gli archeologi non risposero, anzi, bellissima l'immagine di Paolo, su cui misero un tappo. Stesso tappo che misero alla disciplina archeastronomica e ad altre discipline a loro estranee, come tutte le discipline della natura ed anche a molte dello spirito. L'autoreferenzialità, per ogni disciplina, è foriera di insuccesso, a priori. Il problema attuale - scrive Littarru - per l'archeologia isolana è come uscire da una situazione ormai insostenibile. Elenca tutti i tentativi di progressive smentite e raddrizzamento di tiro, ma ancora manca l'accettazione del nuovo cambio di paradigma o perlomeno il chiaro rigetto di una cantonata epocale. La narrazione del libro, puntuale e documentata, ha un forte pregio: non si potrà più dire io non c'ero, io non condividevo, io non potevo. Fino alla fine, Lilliu ha tenuto duro. Umanamente non poteva smentire né sé, né la struttura che ha messo insieme e sostenuto per una vita. Fra le righe, se si vuol leggere, si capisce comunque il suo disagio e imbarazzo ben evidenziato da Paolo. A Lilliu comunque non si possono tuttavia disconoscere pregi. Ha molto contribuito a farci capire che una civiltà è tale anche quando non ha gli stessi requisiti di quelle esaltate. Peccato che anche lui ricorresse a graduatorie di civiltà, cosa priva di senso come alcuni antropologi sardi - Miali Pira in primis, o Cherchi o Bandinu - hanno evidenziato, mettendo in luce le caratteristiche e peculiarità di quella sarda, senza rivendicazioni di priorità o primati. Nessun archeologo ha saputo come Lilliu abbandonare il fattuale e concedersi a brani intensi e poetici, come quando descrive la stilizzazione di un antropomorfo che chiude le braccia nel volo verso gli inferi. Il problema vero sono quelli dopo di lui e con lui. Una piaga ancora non satura e purulenta. La forza del libro di Littarru è per me la sua scrittura discreta e critica pacata, a volte asettica e quindi credibile. Il libro è un atto di sincera ammirazione verso il contadino che indica la luna e di dispiacere verso coloro che vedono solo il dito che la indica. Mi auguro che il suo ottimismo sul cambio di paradigma sia concreto, non solo un auspicio. Ne ricaverebbe grande interesse l'intera Isola, non solo l'archeologia, bensì la stessa cultura sarda. |
Post n°3208 pubblicato il 27 Luglio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet LE ORIGINI DELLA PANDEMIA Il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo ovunque da chissà quanti anni. Lo sostiene un esperto dell'Università di Oxford, secondo il quale anche la trasmissione per via respiratoria non sarebbe la strada giusta da seguire di Biagio Simonetta Covid-19, India: 700mila casi, terzo paese più colpito al mondo 3' di lettura Altro che Cina, il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo un po' in tutto il mondo per chissà quanti anni, prima di riattivarsi grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli. È la tesi di Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), con sede al Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffield, presso l'Università di Oxford. Jefferson - secondo quanto riporta il quotidiano inglese The Telegraph - sostiene che ci siano prove sempre più consistenti che il virus fosse già altrove, ben prima che emergesse a Wuhan. Una teoria che farebbe traballare tutto ciò che sappiamo fino a oggi su questa pandemia. Tracce in giro per il mondo La tesi si rafforza grazie alla scoperta di alcuni virologi spagnoli, che la scorsa settimana hanno annunciato di aver trovato tracce del coronavirus in campioni di acque reflue raccolti nel marzo 2019, circa dieci mesi prima che Wuhan diventasse il focolaio del mondo. Anche in Italia, giova ricordarlo, alcune tracce del virus sono state rinvenute nei campioni di acque reflue di Milano e Torino risalenti a metà dicembre 2019. E in Brasile una analisi analoga riporta a novembre. Tom Jeffersonritiene che molti virus siano inattivi in tutto il mondo ed emergano quando le condizioni diventano favorevoli. Un meccanismo che potrebbe anche voler dire che i virus riattivati possano svanire rapidamente dopo un picco. «Dov'è oggi il virus Sars 1? È appena scomparso» ha detto il medico inglese al Telegraph, aggiungendo, «Dobbiamo porci queste domande. Dobbiamo iniziare a ricercare l'ecologia del virus, capire come ha avuto origine, come è mutato. Penso che il virus fosse già qui, e "qui" significa ovunque. Potremmo essere davanti a un virus dormiente che è stato attivato dalle condizioni ambientali». Per sostenere la sua teoria, Jefferson - che è anche professore alla Newcastle University - ricorda che a inizio febbraio c'è stato un caso di coronavirus alle Isole Falkland: «Com'è arrivato laggiù? Chi lo ha portato?». E poi ancora: «Una nave da crociera è andata dalla Georgia del Sud a Buenos Aires, i passeggeri sono stati sottoposti a screening e poi, l'ottavo giorno, quando hanno iniziato a navigare verso il Mare di Weddell, è emerso il primo caso di infezione. Dov'era il virus? Nelcibo preparato che era stato scongelato e attivato?». L'esperto ricorda che cose strane come questa «sono successe con l'influenza spagnola». Nel 1918 «circa il 30% della popolazione delle Samoa (isole dell'oceano Pacifico meridionale, ndr) morì di influenza spagnola e non aveva avuto alcuna comunicazione con il mondo esterno. Quando il virus si «accende» La spiegazione di quanto accaduto, allora, potrebbe essere solo che questi virus non vengono né vanno da nessuna parte. Sono sempre qui e qualcosa li accende, forse la densità umana o le condizioni ambientali. E questo è ciò che dovremmo cercare».Il dottor Jefferson ritiene che il virus possa essere trasmesso attraverso il sistema fognario o servizi igienici condivisi, non solo attraverso goccioline espulse parlando, tossendo e starnutendo. E per questo, insieme al collega Carl Henegehan (direttore del Cebm) chiedono un'indagine approfondita simile a quella condotta da John Snow nel 1854, che dimostrò come il colera si stesse diffondendo a Londra da un pozzo infetto a Soho. Per i due medici inglesi, insomma, si deve cambiare l'approccio di ricerca sul coronavirus. Perché la teoria della trasmissione respiratoria non sarebbe del tutto convincente. «I focolai devono essere investigati correttamente. Bisogna fare ciò che John Snow ha fatto con il colera. Mettere in discussione tutto, e iniziare a costruire ipotesi che si adattano ai fatti. Non viceversa». |
Post n°3207 pubblicato il 27 Luglio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet
26 Luglio 2020 Condividi su Facebook+ Il mondo si prepara a quello che sarà il cambiamento più grande di sempre: la nascita di un nuovo Oceano nel deserto. Ci troviamo nella regione di Afar, in Etiopia, è qui ch e si è aperta nella terra una crepa lunga circa 60 km e larga 8. Questa è in assoluto una delle aree più caldedel pianeta, la temperatura infatti di giorno raggiunge i 55 gradi, tuttavia questa condizione non influisce sul grande cambiamento che la Terra sta subendo. I geologi, impegnati nello studio della grande crepa che potrebbe spaccare l'Africa in due, hanno messo in evidenza che c'è una gigantesca massa d'acqua che potrebbe dare vita a un intero oceano. La fessura, in realtà, era stata notata già nel 2005, aprendosi tutta in un colpo nel giro di 10 giorni. Solo ora, grazie agli studi dei movimenti tettonici fatti con i rilevamenti satellitari, i ricercatori sono riusciti ad avere la situazione più chiara. Gli esperti dell'Università di Leeds, impegnati sul campo a studiare il fenomeno, sono certi che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo oceano. Sotto la distesa desolata, ci sono tre placche tettoniche che si stanno staccando lentamente l'una dall'altra e il materiale rinvenuto al di sotto la crepa non appartiene alla crosta terrestre, ma a quella oceanica. Secondo gli studiosi, la voragine diventerà più grande e profonda poco a poco, assumendo prima le sembianze di un lago, poi di un mare e infine, di un enorme oceano che spaccherà l'Africa in due. La nascita del nuovo oceano potrebbe avvenire tra i 5 e i 10 milioni di anni, quello che è certo è che cambierà completamente il mondo che conosciamo. Ma cos'è che sta causando la spaccatura del Paese? Secondo alcune ipotesi, si tratta di un grandissimo pennacchio di rocce surriscaldate che si alza dal mantello sotto l'Africa orientale, chiamato dagli studiosi l'inferno di Dante. Il Golfo di Aden e il mar Rosso ricopriranno di acqua la regione di Afar allungandosi verso la Rift Valley, isolando per sempre questa parte dell'Africa orientale. L'Etiopia, la Somalia formeranno una nuova isola al largo dell'oceano Indiano. Allo stesso modo, 80 milioni di anna fa, si formava l'oceano Atlantico Settentrionale. |
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