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Di Wagner e di 'Parsifal'

Post n°1033 pubblicato il 17 Aprile 2020 da giuliosforza

 

Post 953

Di Wagner del  suo ‘Parsifal’.

Mi è spesso avvenuto di riflettere sul senso generale del Parsifal e soprattutto sull'enigmatico verso conclusivo. Mi sono spesso chiesto: Erloesung dem  Erloeser  o Erloesung vom Erloeser?  Liberazione al iberatore in quanto liberatore (sua liberazione dalla fatica del liberarti) o liberazione dal liberatore? Superamento del concetto di salvazione qual dono, o invito, quello fatto all’uomo dal Dio Pico della Mirandola (vedi una delle precedenti note di diario), all’autosalvazione, all’autoinvenzione, all’autoumanizzazione quale autoindiamento?

La mia passione wagneriana viene oggi fortuitamente alimentata dalle riflessioni di un trentaduenne musicologo che si autodefinisce autodidatta (all’anima dell’autodidatta!) e che trovo su un giornale on line dal titolo stuzzicante de “Il trillo parlante”, da lui stesso e da un amico gestito. Così si presenta: “nato il 10.08.1988 a Milano, dove tutt'ora vive e studia di tutto e di più (Laurea specialistica e Master in Bocconi) tranne che musica, grande amore relegato all'autodidattica. Insieme all'amico e compare di loggione scaligero Fabio Tranchida gestisce il giornale online di critica ed approfondimento musicale il Trillo Parlante (iltrilloparlante.com). Fra gli altri interessi anche il cinema, con la regia e sceneggiatura di alcuni lungometraggi indipendenti già completati (fra cui uno dedicato a Tchaikovskij ed uno a Mahler) ed altri in progetto”. L’anche musicologo in questione ha nome Lorenzo Luchetti, e dopo averlo letto non ho dubbi sul suo autodidattismo: non direbbe cose tanto interessanti, fosse corrotto dai dogmatismi e dai luoghi comuni anche in musica confezionati e trasmessi dalle ‘scuole” a corrompere la verginità delle menti giovani predisposte ad accogliere in sé un verbo sine labe originali conceptum. Il lungo saggio in cui mi imbatto è dedicato al Wagner di Parsifal”, e lo immagino presentazione del programma di sala di uno dei numerosi Parsifal in questi ultimi anni dati anche nei teatri d’opera italiani, dalla Fenice di Venezia, al Costanzi di Roma, al Massimo di Palermo. Ma posso sbagliare. Io sono fermo a un Parsifal del 1994, quello superiore di Sinopoli al quale ebbi la ventura di assistere, del quale Francesco Colombo, sul Corriere della sera dell’8 4 1994, scrisse, in una bella e profonda segnalazione che condivido in toto, discordando solo sulla presunta malafede di Nietzsche (lungo quaestio meritevole di approfondimento) e sulla quanto mai inappropriata espressione ‘sistema della dottrina nietzscheana’, essendo il Folle di Rӧcken  stato  il più grande (non solo nel significato dannunziano quale appare nella lunga ode commemorativa di ‘Elettra’, In morte di un Distruttore. XXV Agosto 1900) “distruttore” anche, soprattutto, dei pigri sistemi del ‘sistematico’ filosofare accomodante ed acquietante.   

“La definizione di Parsifal quale «azione scenica sacra» e la presenza in esso di alcuni elementi mutuati dai riti cristiani (insieme con altri elementi affatto eterogenei) hanno creato l’equivoco, accreditato in primo luogo e con probabile malafede da Friedrich Nietzsche, che l’ultima partitura di Wagner sia una sorta di cerimonia prossima ai contenuti della fede religiosa, se non proprio coincidente con essi: ciò che non è, non solo perché un’analisi del testo poetico conduce a riconoscere il complesso sincretismo delle tradizioni esoteriche che vi si stipano; non solo perché gli scritti teorici di Wagner, e in specie dell’ultimo Wagner di «Religione e arte», dissipano gli equivoci; ma soprattutto perché la musica di «Parsifal», con la sua precisa configurazione semantica, è portatrice di significati che al sistema (sia concesso chiamarlo così, sulla scorta di Karl Lowith) della dottrina nietzscheana, e quindi ai nichilismi del nostro secolo, si apparentano: perdita dei valori, morte di Dio, mito sovrumanistico, concezione del tempo non lineare e progressiva ma sferica. Di tali significati è parsa addirittura un’esplicitazione la lettura che dell’opera wagneriana ha compiuto l’altra sera a Roma Giuseppe Sinopoli, che ha diretto «Parsifal» in forma di concerto all’Accademia di Santa Cecilia: sì che diremmo la sua un’operazione dimostrativa, non fosse la risoluzione estetica ancor più stupefacente dell’acribia intellettuale palesata dal direttore d’orchestra. L’apparato celebrativo del capolavoro, ripulito di quell’aura estetistica le cui conseguenze storiche si dànno soprattutto nell’ambito del decadentismo francese, conserva con Sinopoli la sua imponenza; ma proprio il grandeggiare dei gesti e la disciplina marziale finalmente riacquisita (dopo tante interpretazioni edulcorate) sembrano alludere al senso del vuoto, a un lutto irrimediabile, all’angoscia metafisica che percorre la partitura e si addensa in improvvise risacche di inerzia ritmica e sonora, soprattutto nelle zone dove Kundry è protagonista: lì Sinopoli ricava colori ammorbati e illividiti; lì sospende l’impulso agogico e lascia lievitare una sorta di stato catatonico: davvero gli dèi sono fuggiti dal mondo, ogni valore è disperso; e tanto più impressionante pare l’affermazione sovrumanistica che nei finali del primo e del terzo atto, a partire dagli Interludi eppoi con i cori maschili, si illustra. Diversi parametri concorrono al risultato. Un colore orchestrale che rarissimamente concede sofficità e soavità, e piuttosto si impietrisce in una cupa risonanza di duro metallo; un fraseggio percorso da tensione aggressiva anche nei momenti di consueto abbandono, come l’«Incantesimo del venerdì santo», e fatte salve le cavità deserte, le stagnazioni di cui si diceva; un sensibilissimo, lancinante rilievo dell’inquietudine armonica allignante non solo nel second’atto (si pensi al Preludio del terzo!), e della poliritmìa che spesso vi si abbina; l’assenza quasi generalizzata di dolcezza nelle modalità dell’emissione del suono: laddove si dia, si tratta di una dolcezza malata e mortifera. È un Parsifal spietato: del ‘moderno’ vi si svelano avvisaglie lessicali che puntano alle ultime Sinfonie di Bruckner, il cui ‘fiammeggiante oro antico’ riconosciuto da Spengler è con Sinopoli anticipato in Wagner, e ancora più in là, alle forze psichiche orrifiche ed estreme che esploderanno in «Elektra», alla sismografia dell’inconscio che verrà tracciata in «Erwartung» di Schönberg. La ‘regìa sonora’ imposta dal direttore nel secondo atto è particolarmente originale, quasi sconcertante. Le scene delle fanciulle fiori smarriscono ogni vaporosità: le figurazioni in terzine degli archi, cui pure Wagner prescrive l’indicazione «zart» (tenero, delicato), anziché scivolare verso lo Jugendstil paiono concrescere e stratificarsi accumulando un’eccitazione febbrile, senza scampo, dissolta infine con l’apparire di Kundry. Allora le linfe del giardino fatato si scoprono iniettate di tabe, e la stupenda Berceuse ‘empoisonnée’ della tentatrice può distendere le spire del suo ondeggiante ‘sei ottavi’. Ne fornisce il contrappeso la fortissima concitazione drammatica, al limite dell’espressionismo, cui l’atto si destina, con Sinopoli, nella sua metà seconda. […]”.

Fin qui un ottimo Colombo, musicista, direttore d’orchestra, critico stagionato, padrone assoluto del lessico di un addetto ai lavori e profondo conoscitore di tecniche e di stili espositivi. Al non perdono, spero celiasse come celio io, di aver dichiarato in una intervista su ‘Zero’ a firma di Corrado Beldì del 7 giugno 2016 reperita in rete: “Mozart è quanto di più importante sia accaduto nella storia dell’umanità. Senza di lui questo mondo non meriterebbe di essere vissuto. Da questo punto di vista sono un credente, monoteista e praticante. Come dice Javier Bardem, «Non credo in Dio, ma credo in Al Pacino». Ecco, io in Mozart”. Suvvia! Ce n’è di gente prima del satiretto di Salzburg! Ma soprattutto non si dimentichi essere stato Wagner  a rivendicare più di una volta la sua figliolanza beethoveniana. Senza Beethoven, egli sosteneva, io non esisterei. E c’è da credergli.

Aver fatto precedere Colombo a un Luchetti autodefinentesi musicalmente ‘autodidatta’, potrebbe apparire uno sgarbo, addirittura una cattiveria. Ma ciò naturalmente non è. Ẻ anzi nelle mie intenzioni lodarlo e mettere in risalto il suo, di talento, non meno poliedrico pur se esercitato in ambiti diversi. Questo è ben chiaro, per ciò che attiene al discorso parsifaliano, già nelle  considerazioni introduttive e conclusive, che qui di seguito riporto integralmente, di un suo lungo saggio, scoperto in rete, ove si dice di ‘Parsifal e il suo tempo’, ‘Il Parsifal di Wagner’ e ‘La tecnica compositiva del Parsifal’. Tre intensi argomenti nei quali credo riassunto il meglio della critica parsifaliana e wagneriana in genere, con molte intuizioni originali che al lettore iniziato e non di certo non sfuggiranno.

Parsifal è, senza alcun margine di dubbio, uno dei risultati più rilevanti raggiunti dall’arte occidentale. Ne è una delle vette, una delle massime sintesi nonché uno dei punti di snodo della sua storia. Con Parsifal si chiude la parabola artistica del musicista probabilmente più determinante per le sorti della musica, più anche dei monumenti di Bach, Mozart o Beethoven, perché con Richard Wagner la musica ha raggiunto il suo acme in termini teleologici, sfidando apertamente il ruolo di ‘significato ultimo’ da sempre appartenuto alla religione. Beethoven era stato sì capace di usare l’autorità della sua musica, nella Nona Sinfonia, per affermare che un Dio doveva esserci (über Sternenzelt muss ein lieber Vater wohnen), ma Wagner farà di più e, dopo aver musicato ‘l’inizio e la fine del mondo’ nel Ring, affermerà che la sua messa in scena sacra (Bühnenweihfestspiel) ha addirittura il compito di ‘salvare la religione’, altrimenti incapace di comunicare la sua verità attraverso dogmi ormai inaccettabili.

In altre parole, nessuno è stato capace di prendere la musica tanto ‘sul serio’ come Wagner, raro esempio di compositore del tutto privo di ironia (ne sia esempio la non comicità dei Meistersinger), umiltà e understatement. Egli è stato così l’incarnazione di un’intera epoca dello spirito che giungeva a compimento, l’epoca di ciò che Adorno identificherà col nome di Aufklärung, il risveglio illuministico dell’uomo che a poco a poco si è posto definitivamente al centro di tutte le cose. Al culmine di questo processo l’uomo arriverà come abbiamo visto ad arrogarsi proprio il diritto e dovere di farsi addirittura salvatore della Parola di Dio. Che il Parsifal termini con la frase chiave “Erlӧsung dem Erlӧser”, redenzione al Redentore, ovvero salvazione al Salvatore, è dunque piuttosto indicativo del grado di importanza che Wagner dava alla propria opera. Quando ci si sente in grado di legittimare perfino Dio, si è in poche parole giunti ad un punto di non ritorno, a un limite invalicabile della confidenza umana oltre il quale il vaso non piò che traboccare. Non a caso Wagner è stato contemporaneamente il più illustre figlio e il più illustre padre dell’epoca di maggior tracotanza e fanatismo artistico nella storia dell’umanità, creando le condizioni limite che hanno poi fatto implodere l’arte nella miriade di avanguardie e sperimentazioni del Novecento. Infatti è proprio contro la sua Gesamtkunstwerk, la sua opera d’arte totalizzante e assoluta, sintesi delle ambizioni dell’Ottocento, che lo scetticismo critico del secolo successivo si è rivoltato. In prima fila c’era Friedrich Nietzsche (che proprio dopo aver letto il Parsifal si staccò definitivamente dal maestro), ed a seguire anni dopo il già citato Theodor Wiesengrund Adorno”.

……………

“Non esiste opera teatrale che possa rivaleggiare con Parsifal in termini di totalità dell’esperienza, di profondità delle corde toccate e di altezza tecnica del linguaggio utilizzato. L’ambizione e il grado di compiutezza sono paragonabili solamente alla Divina Commedia e al Faust di Goethe, facendo di Parsifal uno di quei tesori dell’umanità che andrebbero il più possibile diffusi, e che invece restano troppo spesso appannaggio di pochi cultoriIn particolare Parsifal è stata per troppi anni un’opera incompresa, avversata tanto dai tradizionalisti prché troppo decadente quanto dai modernisti perché troppo reazionaria. Di fronte alla sua grandezza musicale si sono comunque inchinati pressoché tutti i musicisti, e non pochi sono coloro che proprio dopo un Parsifal hanno deciso di fare della musica la propria esistenza. Abbiamo cercato con queste pagine di spiegare perché tutto questo sia avvenuto proprio con quest’opera decisiva e in un periodo decisivo nella storia dello spirito occidentale. Abbiamo cercato anche di offrire una lettura che dimostrasse in cosa essa sia un passo avanti rispetto a tutte le altre imprese wagneriane, giustificando la posizione eminente di chiave di volta in una ipotetica parabola dell’Aufklärung fra entusiasmo ottocentesco e scetticismo novecentesco. Parsifal resta il culmine di questo percorso, e guardando alle spalle è inevitabile che sia proprio questo acme a svettare sul resto, attirando su di sé tutte le attenzioni, incluse quelle negative. E tuttavia è un’opera che ha le spalle molto larghe, che nell’antitesi trova la sintesi, e che dunque esce più forte e profonda quanto più passa il tempo. Seppelliti tutti i Messia che hanno preteso di utilizzarla ai loro fini, ci viene data oggi la possibilità di fare un’esperienza dell’ascolto e della visione che restituisca l’umanità profonda della poesia e della musica, facendo risuonare quell’inno all’esistenza così com’è, con tutte le sue contraddizioni e necessità, che è e rimarrà per sempre Parsifal”.

 Concordare con queste conclusioni non dovrebbe essere difficile per chiunque abbia dimestichezza col Lipsiense in generale e con la sua ultima opera in particolare. Si può discutere l’atteggiamento di Nietzsche nei suoi confronti e l’astio non solo intellettuale che alla sua uscita in lui si accese nei confronti dell’Amico. Ma si deve tener presente che non è la musica di Parsifal che N. discute, per la quale nutre grandissima ammirazione, sebbene il presunto, secondo me non presunto affatto, spirito di décadence che la permea, e che ci presenta un Wagner al culmine della ricerca di una redenzione (presente in ognuno dei suoi lavori, in maniera più o meno evidente in tutti i suoi lavori)  che infine lo esclude dalla cerchia dei superuomini per restituirlo al gregge e alla sua morale e riconsegnarlo chino, per dirla col Manzoni, al disonor del Golgotha:

 (Scrivi ancor questo, allegrati; / ché più superba altezza

al disonor del Gòlgota

giammai non si chinò).

Che se poi il Folle di Roecken abbia o no ragione, è un altro discorso.

          ______________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 
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