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Messaggi di Aprile 2021

Debussy, 'Pelléas et Mélisande'. Inno a Roma di Puccini. Giovanni Macchia, 'I buoni selvaggi' di Montaigne

Post n°1077 pubblicato il 28 Aprile 2021 da giuliosforza

 

988

   Finalmente assisto, grazie alla TV, alla rappresentazione della favola tragica Pelléas et Mélisande di Débussy su testo di Maeterlink. Da una vita l’ho attesa, da quando, in occasione della mia tesi di laurea, ne lessi nell’autore sul quale mi stavo intrattenendo, Gabriel Marcel. Fu per me Gabriel Marcel, uomo e pensatore, col quale a lungo corrisposi, qualcosa di più che occasione fortunosa e fortunata di una ricerca accademica: un direttore spirituale vero e proprio fu che, pur destinato ad uscir presto dai miei successivi interessi, mi fu di sostegno nel momento più critico della mia esistenza. Dal 1973, quando morì, sono passati quasi cinquanta anni; ma la sua presenza e il suo pensiero sono ancor vivi in me, anzi via via egli va recuperando: le sue critiche alla in-civiltà della ragione oggettivante, a un certo tipo di scienza (quella boriosa tardopositivistica) e alla sua figlia maggiorata, la tecnica, sono ancora validissime e temo siano destinate ad esserlo sempre di più. Pe quanto riguarda Pélléas et Mélisande, il suo simbolismo e la sua musica fluttuante (traggo dalla mia tesi di Laurea nel frattempo pubblicata sotto il titolo ‘Metaproblematico e pedagogia, Motivi marceliani’), scrisse:

   Non è forse uno spirituale autentico che si incarna nelle espressioni musicali più alte che ci sia concesso comprendere, in un Bach, in un Beethoven degli ultimi Quartetti, nel Mozart più disimpegnato? Ma uno Schubert, un Brahms, un Fauré ci lanciano anche essi per folgorazioni i messaggi infiammati di questa spiritualità concreta che noi sappiamo riconoscere, nella nostra quotidiana esperienza, in una inflessione, in uno sguardo carico di non so qual tesoro immemorabile. Io ho trovato in un’infinità di musicisti, dai romantici tedeschi ai russi agli spagnoli, da Rameau a Fauré a Debussy ciò che nessuno scrittore m’ha mai dato. Così nessuno scritto filosofico, nessuna opera letteraria non ebbe su me l’influenza che esercitò il Dittico musicale formato da Pelléas et Mélisande di Debussy e Arianne et Barbe-bleu di Dukas. Al primo ascolto Pelléas et Mélisande non m’aveva dato che una sensazione generale molto indistinta. La rivelazione non si ebbe che quando ne studiavo la partitura al pianoforte. Non si trattò solamente di uno scotimento affettivo o d’una scoperta intellettuale; io mi trovai in presenza d’un mondo perfettamente individualizzato e nel quale entravo letteralmente de plain-pied . In nessun altro luogo più che in quest’opera ho preso coscienza dell’analogia tra questo elemento verginale dell’universo che ci rivela l’artista con l’esperienza del fanciullo e con quello che, a sprazzi, ci è dato ritrovare nell’amore”. (da Giulio Sforza, Metaproblematico e pedagogia. Motivi maceliani, La Goliardica editrice, Roma 1978, pp.100-101)

   Qualcosa di simile ho provato io a questo primo ascolto, e il desiderio di approfondire: nei miei studi di filosofia della musica il capolavoro debussyano non ha trovato il posto che si merita.

*

   Celebro il MMDCCLXXIV ‘ab Urbe condita’ in solitudine suonandomi e cantandomi il bellissimo (contrariis quibuscumque minime obstantibus) "Inno a Roma" composto da Giacomo Puccini su testo di Renato Salvatori nel 1919, richiesto dall'allora sindaco Principe Prospero Colonna di Paliano; testo a sua volta tratto (e reso come nell'originale in perfette strofe saffiche) dal "Carmen saeculare" oraziano che, eseguito da un coro di fanciulle sul Palatino e sul Campidoglio il 3 giugno del 17 a. C. , intendeva celebrare l'avvento dell'età dell'oro augustea preconizzata da Virgilio nella quarta 'Ecloga'. Il ritornello è la perfetta traduzione dell'originale "Alme Sol curru nitido diemqui / Promis et celas aliusque et idem / Nasceris possis nihil Urbe Roma / Visere maius", e sempre regolarmente in latino io ero perciò aduso in gioventù farlo eseguire.

Auguri, Roma nostra cara bella, su cui non brillano più, pro pudor, i raggi dell'Almo Sole apollineo!

*

   I buoni selvaggi di Montaigne

   I Giorni della Memoria non passano mai, ed è bene così, Ma ogni giorno mi aspetto invano notizia di un Giorno  dedicato ai milioni e milioni di morti ammazzati dal compagno Stalin, o dal compagno Mao, o ai milioni e milioni di morti fatti dai conquistadores, ai milioni e milioni di morti fatti dai mercanti di schiavi (o magari, perché no, alle  atrocità commesse da Giosuè, e testimoniate dalla stessa Bibbia, nella conquista della ‘Terra promessa’, per non dire di tutte le altre perpetrate dai grandi Condottieri in ogni tempo e in ogni latitudine). Niente da fare, attesa vana. Mi rifugio in Montaigne.

   Sì, per riposarmi, soprattutto dalle trasmissioni terroristico-ansiogene dedicate al movid e al suo muoversi nel mondo, e alle vergognose vicende mercantili ad esso intorno ruotanti, nulla di meglio che rifugiarsi e rituffarsi per l’ennesima volta negli Essais montaigniani (la cui saggezza, la cui ironia, il cui sereno disincanto, il cui pacato pessimismo rappresentano l’antidoto più efficace contro le tentazioni di depressione perennemente in agguato) che stanno sempre, inamovibili, sul mio tavolo di lavoro in compagnia dei numerosi altri classici del cuore antichi e moderni di cui i miei amici lettori dovrebbero ormai essere essi pure confidenti. E aprendo a caso a pagina 1151 (Libro III cap. V ‘ove si dice di alcuni versi di Virgilio’, trovo un ritaglio di terza pagina del Corriere della Sera datato domenica 19 Aprile 1992 in cui Giovanni Macchia, forse il più grande francesista umanista che abbiamo avuto, scrive un articolo anch’esso di memoria dedicato, in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, a Montaigne e ai suoi “buoni selvaggi”. Ed io qui, per ammazzare, come suol dirsi, il tempo - cui io aggiungo: aspettando di essere dal tempo ammazzato - richiamato dall’odor di bruciato che invade non solo le mie stanze ma, immagino, tutto il palazzo (si tratta del mio parco pasto regolarmente dimenticato sui fornelli), spalancate le finestre, nonostante che Persefone abbia ripreso le vie dell’Ade per affrettarsi a scaldare il letto a Pluto, e faccia un freddo cane, corro a copiarlo. E mi rigodo dopo tanto tempo anche l’insigne Giovanni Macchia, che ebbi docente, e per un poco collega, all’Università, e forse anche qualche lettore se lo godrà grazie a me.

  

   “Anniversari. Il grande umanista francese moriva un secolo dopo la scoperta dell’America. I buoni selvaggi di Montaigne. Il fascino del Mondo Nuovo e gli orrori della ‘Conquista’ cristiana.

 

    “Montaigne morì nel settembre 1592, cent’anni dopo la scoperta dell’America, e noi in questi mesi ci troviamo contemporaneamente a celebrare un avvenimento così clamoroso e la scomparsa di un modesto signore di provincia, che spirò tranquillamente nel suo letto, mentre nella sua camera si diceva una messa, e spirò, sembra, al momento dell’elevazione.

   Un tale accostamento, dovuto ai capricci della storia, avrebbe fatto piacere al grande umanista. Egli si era nutrito per tutta la vita di libri, che gli avevano insegnato cosa erano state le civiltà del passato. Ma aveva anche molto badato a quel mondo nuovo. L’aveva guardato con gli occhi degli altri, di coloro che lo avevano descritto, e l’aveva anche sognato con i colori della fantasia, ed era divenuto uno dei grandi temi della sua vita. Egli sentì che quel continente rappresentava la giovinezza del mondo. E un vento fresco entrò nella sua libreria, per insegnargli che la nostra madre terra era ancora capace di offrirci una immagine di forza, di limpida luce, non ancora oscurata dalla corruzione della storia.

   Si chiedeva se quel mondo di cui nessuna Sibilla aveva mai parlato fosse davvero l’ultimo. E cominciava ad argomentare che non era tanto distante il giorno in cui il nostro universo sarebbe stato preso da paralisi. Il continente nuovo aveva aperto gli occhi alla luce quando il nostro stava forse per chiuderli. Ma, per saperne di più su quelle genti, non bastavano i libri e le relazioni dei viaggiatori, che pur conosceva.  Chi scrive non racconta le cose come sono, ma le modifica o le maschera per dar credito alla sua opinione e, per convincere gli altri, aggiunge volentieri qualcosa alla materia originale, e l’allunga e l’amplifica. Egli non di colti viaggiatori o di topografi aveva bisogno, ma di uomini semplici. E deve destare chissà quale curiosità in casa di Montaigne l’arrivo di un uomo semplice e rozzo che era vissuto dieci o dodici anni in Brasile ove era sbarcato il protestante Villegagnon. Non potendo partire verso il Nuovo Mondo Montaigne si portò così il nuovo mondo in casa. E non può non colpire la nostra immaginazione la scena in cui quell’uomo si aggirava nella libreria di casa Montaigne, tra autori di cui non conosceva neanche il nome, e il padrone di casa lo interrogava ansiosamente, dando più valore alle sue parole che a quelle di Platone, quando parlava dell’immensa Atlantide.

   Poiché dunque la parola scritta non è il luogo della verità, Montaigne assume la parte del moderno intervistatore. Non vuole idee, vuole informazioni. Ed è felice qu8ando il suo uomo gli presenta marinai e mercanti che aveva conosciuto nel suo viaggio. Ma, preso da non so quale sete di notizie, non accontentava di quelle informazioni, ed altre desiderava averne. E si recò a Rouen quando seppe che tre ‘selvaggi’ (si era al tempo di re Carlo IX, ancora fanciullo) erano giunti in quella città. E sta lì, ad osservarli, con pietà e commiserazione., non ignorando quanto sarebbe costata alla loro tranquillità e alla loro felicità la conoscenza di noi europei. A chi chiedeva a quei ‘selvaggi’ che cosa avessero trovato di più ammirevole nella nostra civiltà, essi risposero che era molto strano vedere forti uomini barbuti ubbidire ad un fanciullo e uomini sazi fino alla gola vivere con altri dimagriti dalla fame.

   Riuscì finalmente ad avvicinare una figura di notabile che i marinai chiamavano re. Pur aiutato da un interprete, non riuscì a farsi capire, meno quando chiese quali vantaggi egli avesse avuto dall’essere un capo. Null’altro – rispose se non marciare dinnanzi a tutti durante un combattimento. Fuori della guerra la sua autorità era finita.

   Tacito, nella Germania, non nascose le virtù dei popoli, il loro coraggio, la loro fedeltà coniugale, ma in quegli elogi c’era come un avvertimento, un misto di attesa e di pericolo per l’avvenire di Roma. E si fermava sulle lotte intestine che dividevano quei popoli come per allontanare il senso di quel pericolo. Nulla di meglio poteva offrire la fortuna se non la discordia dei nemici. In Montaigne la posizione è rovesciata. Siamo noi a rappresentare il pericolo per i buoni selvaggi, noi vecchi civilizzati. Non saranno essi i nostri conquistatori. Siamo noi che portiamo i nostri vizi, le nostre malattie, la nostra fame dell’oro, tra quelle popolazioni che bisognerebbe lasciare imbatte, fuori della evoluzione e dei disastri della storia. L’esistenza di quelle terre lontane rendeva più mobile il suo sguardo che era rimasto fisso a scrutare epoche scomparse, le civiltà di Atene e di Roma. Da una parte si ergevano le vestigia di un mondo distrutto e che nessuno potrà mai rimettere in piedi; dall’altra c’era la vita. Ma quale vita?

   E così allacciando il mito al presente fa una scoperta eccezionale. Forse l’età dell’oro di cui parlano i poeti era esistita. Quei popoli chiamati barbari, in quanto erano stati modellati in scarsa misura dallo spirito umano, molto vicini alla semplicità naturale, erano di quell’età un esempio vivente, ed egli, pur senza muoverai da casa sua, aveva avuto la fortuna di incontrarla nel suo stesso secolo. Erano uno spettacolo straordinario e si rammaricava che Platone e Licurgo non ne avessero avuto conoscenza. Ciò che egli sapeva di quei popoli oltrepassava non soltanto le descrizioni con cui la poesia aveva abbellito l’età dell’oro con tutte le immagini che raffiguravano una condizione felice dell’umanità, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. La realtà ci offriva ciò che quei grandi non erano neanche riusciti ad immaginare. Egli aveva davanti a sé un popolo nel quale non esisteva, diceva, nessuna sorta di traffici, né conoscenza delle lettere, né scienza dei numeri, nessuna gerarchia politica o contratti di successione, nessuna occupazione se non dilettevole. Questo avrebbe detto a Platone. E nella lingua di questi popoli infine non esistevano parole che significassero menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, tutte parole che avrebbero riempito i palcoscenici del teatro tragico europeo e i libri dei moralisti, nella loro terribile scienza dell’uomo.

   Ovidio, relegato nel Ponto, veniva chiamato barbaro dalle popolazioni tra cui viveva perché non capivano quel che diceva: Ciascuno dunque chiama barbaro ciò che non rientra nei propri usi e costumi. Ma Montaigne va oltre. Tende a distruggere il concetto di barbarie e oppone la sua critica a ciò che noi moderni chiamiamo civiltà.

   Quel che di più idilliaco egli scrisse su quei popoli fu ripreso, è noto, da Shakespeare nella Tempesta. Il sognatore, il vecchio utopista Gonzalo, pensa di creare nell’isola disabitata dove la tempesta l’ha gettato, una comunità perfetta, una repubblica eccellente retta sulla legge naturale, ove tutti sono felici. Ma il pensiero di Montaigne allontana ogni utopia. E proprio lui che aveva vissuto tra i fantasmi di una vita eroica irraggiungibile, i fantasmi della Grecia e di Roma, vide la nostra civiltà, nella sua volontà di potenza, esplicare la sua forza soltanto nella distruzione. Aveva guardato le rovine di Roma. Dinanzi a quelle colonne rovesciate come guerrieri sconfitti, aveva congetturato che il mondo, nemico del lungo dominio di Roma, ne aveva fracassato il suo corpo ammirevole. E poiché morto e sfigurato qual era, gli faceva orrore, aveva sepolto la sua stessa rovina.

   Ora assisteva immoto, impotente, alla distruzione di un’altra civiltà di cui aveva intuito la grandezza, e ne fu come ossessionato. In vari luoghi degli Essais, anche quando parla d’altro, accanto ai romani gli accendono la fantasia quei puri e onesti fantasmi barbarici. Aveva fatto di tutto per conoscere le loro poesie, e i loro canti d’amore li trovava belli quanto quelli d’Anacreonte. E se pensava alla noia e ai fastidi che gli avevano arrecato gli incarichi amministrativi che aveva ricoperto, tutto quel pasto disgustoso di atti giudiziari, di verbali, di interrogatori, di deleghe e glosse giuridiche, miseri modelli, secondo l’Ariosto, della moderna Discordia, constatava con sollievo che i popoli del Nuovo Mondo vivevano senza magistrati e senza leggi. Aveva scritto e sognato sulla ‘épouvantable’ magnificenza delle città di Cuzco e di Messico, ma non aveva insistito abbastanza sulla storia, altrettanto ugualmente ‘épouvantable’, della conquista europea. E nella terza e ultima parte del suo libro scrisse su quel tema le pagine più vibranti e coraggiose.

  L’unico atto di ossequio alla sua tradizionale timidezza su quello di celare le sue accuse sotto un titolo futile: le carrozze. È uno dei capitoli più slegati degli Essais, ma dietro quelle carrozze, dietro quel bisogno di fuga che è in noi passando agevolmente da una considerazione all’altra, egli riuscì a scrivere cose che nessuno dei suoi contemporanei, né Jodelle, né Ronsard, né Bodin, aveva denunciato.  E sarebbe stata degna di Voltaire la sua considerazione che la religione non aveva per nulla migliorato la nostra morale e i nostri costumi e che i pagani del Messico e del Perù valevano molto di più dei loro conquistatori.

   La sua prosa, sempre così dimessa, prende accenti della più alta eloquenza. Noi ci siamo serviti, diceva, della loro ignoranza e inesperienza per indurli al tradimento, alla lussuria, alla cupidigia e a ogni sorta d’inumanità, sull’esempio e sul modello dei nostri costumi. “Chi mise mai a tal prezzo – si domandò, e mi servo della traduzione ormai classica di Fausta Garavini, autrice di un bellissimo libro su Montaigne uscito recentemente presso il Mulino – l’utilità del commercio e dei traffici? Tante città rase al suolo, tante popolazioni sterminate, tanti milioni di uomini passati a fil di spada, e la più bella e ricca parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe! Vili vittorie”.

   I discorsi che gli Spagnoli rivolgevano ai popoli che volevano sottomettere, bene dissimulando sotto la loro alta munificenza i fini vergognosi che perseguivano, sono degni di un capolavoro contemporaneo: La Satyre Ménippée. Anche il Papa era dalla loro parte, e Montaigne non ha alcun timore di asserirlo. E si lancia contro il capo della Cristianità che in una sua bolla aveva accordato agli Spagnoli il diritto assoluto sulla libertà e sulla vita delle popolazioni delle Indie Occidentali e aveva riconosciuto il loro diritto di proprietà su tutte le terre conquistate.

   Negli Essais il nome di Cristoforo Colombo non compare. Ma nel processo che (leggo nei giornali) sarà celebrato il 12 settembre prossimo nel Minnesota contro l’Ammiraglio per ben dieci reati, che vanno dal genocidio al saccheggio, dal sequestro di persona allo stupro, se verranno allegate anche le opinioni dei grandi scrittori, l’imputato non avrà certo in Montaigne un suo difensore. E non sarà dalla parte di Colombo neanche un altro grande scrittore francese: il parigino Baudelaire.

   Nel suo violento antiamericanismo Baudelaire, che pure non amava Rousseau, organizzò un’appassionata difesa del selvaggio. Se dalla parte del selvaggio c’era, secondo lui, il sangue (con la protezione degli antichi retaggi dell’onore, del coraggio, del dovere), dalla parte dell’uomo civile c’è l’oro. L’uomo civile inventa la filosofia del progresso, per consolarsi della sua abdicazione, mentre l’uomo selvaggio, sposo temuto e rispettato, poeta delle ore melanconiche in cui il sole declinante invita a cantare il passato, sfiorava ii confini dell’ideale. Per Tocqueville l’America era l’Avvenire. Ma quale? Non una nazione il poeta colpiva, ma un sistema, una filosofia, un’economia, una cultura. E per Baudelaire l’industrialismo, che in modi infiniti scorreva lungo un’idea illimitata di progresso, era una forma di autodistruzione”.

_________________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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Memento audére semper. Voltaire su Dante II parte. Seminario sulla creatività. Falstaff...

Post n°1076 pubblicato il 21 Aprile 2021 da giuliosforza

987

   Per l’ennesima volta su Rai5 all’alba (è bene così: non inseviscano i primi violenti raggi del sole sulle pupille  offese dell’Arcangelo Coclite!), nel centesimo anniversario della fine dell’Impresa, non del Sogno, mi godo il bel servizio sul Vate, su la sua Vita e la sua Arte inimitabili, su le sue imprese ineguagliabili, le su case, le sue donne, i suoi debiti, i suoi cavalli, i suoi cani, la meschinità dei suoi detrattori, la bava dei suoi calunniatori e censori piagnoni, sul suo Vittoriale - ‘il più bel giardino d’Italia’, quale lo volle e rese l’infaticabile Custode del Sacrario Giordano Bruno Guerri-; ma anche ogni volta m’incazzo nell’ udire storpiato dal pur discreto narratore il forte Memento Audēre (seconda coniugazione!) Semper nello sbiadito Memento Āudere Semper. Chi può intervenga, di grazia. Se lo svarione tanto offende il mio orecchio, figuratevi quello del più fine Esteta Umanista della nostra Storia!    

*

   Sempre più prendo coscienza (non, si badi bene, atto: prender atto sa di resa) della mia decadenza fisica, della via via crescente, ineluttabile resistenza del mio corpo ‘fisico’, non di quello ‘etereo’, a rispondere (‘perché a risponder la matera è sorda’, vero, beata Beatrix?).  Sempre più il mio Spiritus (non purtroppo quello Domini’che ‘ferebatur super aquas!) a stento galleggia sul mare della traballante fisicità, come barca antica su onde agitate.  Invitato a fare quattro passi da Fiammetta, Jacopo Numa Leon e Gino, cucciolotto inquieto, a stento riesco a stare al loro già rallentato, per rispetto al Vegliardo, ritmo. E i passanti mi lasciano il passo, e i conducenti d’autobus rallentano o arrestano il mezzo, e al minimo tentativo d’accelerazione cresce il mio affanno. Inesorabilmente si declina, caro il mio Giulio! Ma, di grazia, non cedere alla compassione, Non esser vile a tal punto. Segui Friedrich.

   (Quel passo, che tanto agile corse per monti e per valli, cede; quello sguardo, che fu sì chiaro e possente, s’appanna. Inesorabilmente si declina).  

*

   Su sollecitazione di Gianmarco Bonavolontà, mio ex allievo ed ora verace amico e non della ventura, ho tenuto stamane a distanza un seminario sulla creatività per le studentesse del prof. Fabio Bocci, giovane brillantissimo talento di Roma Tre (Dipartimento di Scienze della Formazione). Tre ore di … incontinenza verbale, more meo solito, dopo tanti anni di silenzio monacale. Da secoli (perché tali mi appaiono ormai i lustri) non concionavo (ciarlavo, affabulavo?) cotanto, da quell’esaltato che, forse a ragione, taluni dissero e dicono io ormai irrimediabilmente essere. Mi sono meravigliato di me stesso. Polmoni corde vocali cervello e cuore hanno retto splendidamente come se non un altro decennio (l’ottavo) fosse trascorso dalla mia ultima sortita pubblica, ma un giorno. Lode e grazie a Chi (Natura, Provvidenza, List der Vernunft, Destino, Dio?) ancora m’ama e ritarda il mio definitivo tramonto. E a chi ha ancora piacere d’udirmi, orecchio da intendermi, o pazienza da sopportarmi.

   Chairete aèi, Dàimones!

   Fra i tanti affettuosi commenti, ecco quello del prof Bocci che, sarei ipocrita a negarlo, mi manda proprio in …solluchero. Grazie Fabio, troppo buono.

   Caro Prof. Sforza caro Giulio, grazie a te... oggi è stato un giorno in cui l'accademia si è riappropriata di se stessa nella migliore immagine che di se stessa può dare. Ci siamo appassionati e nutriti, emozionati e commossi, abbiamo errato immergendoci e astraendo siamo riaffiorati (questo è un omaggio a Roberto Maragliano  )... i demoni, invocati, ci hanno accompagnato e ne abbiamo tratto beneficio... e allora ecco la proposta... la rifacciamo a maggio e invitiamo Roberto, Cesare Fregola, Simona Dreca Taborro, Massimiliano Fiorucci e gli altri amici che vorranno partecipare... un abbraccio affettuoso e riconoscente fabio”.

*  

   Rai Cultura. Luisa Miller di Verdi, libretto di Cammarano dal solito (per fortuna!) Schiller (Kabale und Liebe). Mi mancava. Mai tragedia più romantica coi tre protagonisti tutti morti: lui, Rodolfo, suicida, lei, Luisa, avvelenata da Rodolfo; e il verme calunniatore, Verme di nome e di fatto (Wurm), assassinato. Musica adeguata. C’è di meglio nel Bussetano.   

   E Falstaff, l’ultima opera dell’ottantenne Verdi, nata tre anni dopo l’Otello e diciassette dopo la terz’ultima, l’Aida, libretto del genialissimo Boito ‘scapigliato’ a tempo perso ed eccellente  musicista poeta a tempo pieno, tratto da Le allegre comari di Windsor; Falstaff  l’opera del senile disincanto, della, se non triste e disperata, divertita presa d’atto che tutto nel mondo è burla.  E la musica giocando si adegua, procedendo anche formalmente tutta d’un fiato e dimostrandosi finalmente arresa ai nuovi ritmi che, Wagner capofila, hanno ormai conquistato l’Europa se non il mondo, e d’averne assimilato la lezione. E, colmo dei colmi, il compositore del tragico romantico per antonomasia dà il meglio di sé nel comico (ché dell’unica sua opera buffa si tratta), e sembra ad essa affidare il suo estremo messaggio mediante una strepitosa fuga finale, un groviglio di suoni strumentale e vocale, un baccanale ove nessun elemento è possibile individuare, nel tutto fuso e confuso che in sé l’assorbe e dissolve. Verdi gioca, stavo per dire finalmente gioca, e come gioca. Altri grandi Vecchi dichiararono variamente il loro senile disincanto (vedi il D’Annunzio del Libro segreto e il suo famoso, per la verità non eccelso, tetrastico: “Tutta la vita è senza mutamento, / ha un solo volto la malinconia; /il pensiero ha per cima la follia / e l’amore è legato al tradimento”. O il Formiggini del simpatico motto dalla sua casa editrice ‘amor labor vitast, risus quoque vitast, et mihi confricor’, molto più prossimo al nicciano mir ward alles Spiel). Nessuno come Verdi si divertì e il suo messaggio affidò ad una intera opera lirica. Buffo davvero il mondo!  

*  

    Teatro del tempo perduto inutilmente ricercato. Godimento puro con lo Shakespeare poco frequentato, almeno da noi, del Misura contro misura (Measure for measure) nella traduzione-allestimento del compianto Luigi Squarzina del 1987 con Luigi Vannucci bravissimo e bellissimo, non molto tempo dopo tragicamente suicida, Mario Sciacca della cui morte ricorre il decennale, Roberto Lavia e Ottavia Piccolo felicemente viventi e operanti. Il tragi-comico dramma (Problem-Play), meglio comico-tragico dell’ormai maturo Autore, davvero diverte e commuove. Sotto molti aspetti un Falstaff in prosa antelittera. Dieci e lode a Squarzina Vannucci Sciacca in memoriam, Piccolo e Lavia in vitam.    

*

Voltaire e Croce su Dante nell’Enciclopedia dantesca - 2

   (seguito dal post precedente)

   In questa parte conclusiva del suo articolo Felice del Beccaro tenta un recupero di Croce all’ortodossia dantesca. É la parte che meno mi sento di condividere, ritenendo l’escamotage crociano dell’allotria, termine che grecamente suona estraneità, assolutamente non convincente. Croce con la teoria dei distinti in sostanza nega l’unità dello Spirito che è la premessa sine qua non di una risoluzione dialettica dei contrari nella loro coincidentia, Nella teoria dei distinti ciò che è lirico è lirico e non può risolversi in ciò che lirico non è. Nella teoria dei distinti ogni ambito è compartimento a sé o la teoria stessa dei distinti si autonega. Una dialettica dei contrari, una coincidentia oppositorum,  può trovar senso solo all’interno di un Atto puro.   E qui ricedo la parola a Del Beccaro. 

   “Nel 1768 uscì a Parigi, presso il libraio Prault, nella Collection des meilleurs auteurs dans la langue italienne una nuova edizione in due tomi della Commedia a cura dell'abate O. Marrini (Firenze 1722-1790). Nel primo tomo furono ristampate, alla distanza di dieci anni, le due lettere sopra D. di V. Martinelli indirizzate al conte di Orford. La polemica volterriana si riaccese così nelle tarde Lettres chinoises, indiennes et tartares (1776), in cui il filosofo ritorna (lettera XXII Sur le Dante et sur un pauvre homme nommé Martinelli) sui suoi giudizi danteschi ripetendo anche stancamente l'analisi in chiave burlesca del Dictionnaire philosophique. In forma aneddotica introduce a parlare il  maître de langue’ Martinelli il quale rimprovera al Bayle e a lui, V., di aver detto molte schiocchezze su Dante. Il filosofo si mostra dapprima indignato, poi obietta rintuzzando le accuse con distacco ed espone in breve il contenuto della prima cantica. In quanto all'interesse del poema neppure parlarne: ‘Le Dante, qui avait été chassé de Florence par ses ennemis, ne manque pas de les voir en enfer, et de se moquer de leur damnation. C'est ce qui a rendu son ouvrage intéressant pour la Toscane. L'éloignement du temps a nui à la clarté; et on est même obligé d'expliquer aujourd'hui son enfer comme un livre classique. Les personnages ne sont pas si attachants pour le reste de l'Europe’.

   Nella contemporanea Lettre à l'Académie Française (1776), V. ricorda ancora D. a proposito del titolo Commedia per concludere singolarmente che in Italia, sin dalla fine del sec. XIII, si rappresentarono lavori teatrali comici.         Nell'arco di tempo di una cinquantina d'anni la critica dantesca di V. non subì, dunque, alcun mutamento sensibile, eccetto quell'occasionale frattura che non corrisponde al minimo approfondimento. Critica di gusto, stretta agl'ideali classici del sec. XVII, fondamentalmente dogmatica, godette all'inizio, pur nelle implicazioni polemiche, di una sua spontaneità che si attenuò col passar degli anni per concedere sempre più agli umori e alle reazioni contingenti. Ma di siffatto immobilismo non è parte piccola il mancato allargamento della conoscenza dell'opera dantesca. Seppure con minori scompensi che nei riguardi di Shakespeare, V. mantenne ancorato il proprio giudizio sul poema di D. alla qualifica di ‘bizarre’ che è spia d'intransigenza e di limiti invalicabili per i suoi principi di ‘buon gusto’ che, pur respingendo i dogmi e le regole sotto la specie universale, ne ristabilivano l'autorità in nome di un ideale estetico personalmente asserito e difeso con armi intellettualmente più sottili e penetranti.

   Nel 1921 Benedetto Croce dava alle stam­pe per la casa editrice Laterza di Bari il suo La poesia di Dante; un libro – saggio che, nel commentare o ristabilire, secondo il suo pensiero critico, non poche letture critiche di letterati prima di lui, a comin­ciare dal De Sanctis, e tracciava una linea interpretativa che doveva aprire una via nuova intorno al mondo esegetico, nonché estetico, di valutare o considerare il poema dantesco. Fu quello di Croce un documento caratteristico del suo pensiero critico e, al tempo stesso, come ebbe a scrivere Ma­rio Fubini, un’opera di provocazione e, an­che in parte, di contraddizione con quanto lo stesso Croce aveva in saggi precedenti operato intorno alla poesia e al suo intimo carattere. Cosa scriveva Croce in quel suo saggio nel 1921? Quale era il suo più in­cisivo concetto e, per certi aspetti, anche nuovo intorno alla poesia dantesca? Quale poteva essere il carattere e l’unità della po­esia del maggior poeta italiano e fra i più grandi dell’umanità? Quale per il metodo che Croce applicò alla sua intensa lettura e ai suoi convincimenti sull’opera di Dante? Quale fu la sua definizione categoriale in­torno alla multiforme vita di pensiero e di poesia che circola per tutta la Divina Com­media, che Croce definì ‘un Poema teolo­gico’? Tutto nasce da una prima posizione all’interpretazione dantesca di Francesco De Sanctis. Per il grande critico irpino l’Inferno era opera più lirica delle altre due Cantiche e che il Paradiso era più opera te­ologica, di ultraterrena allegoria, che pre­valentemente poetica. E tuttavia Dante, no­nostante questo contrasto o separazione di concetti estetici, rimaneva non solo il più grande poeta italiano e fra i più grandi del mondo; ma per l’Italia (e qui De Sanctis fu portato dalla sua passione risorgimentale) il Profeta della unità nazionale e il padre della lingua italiana. Croce entrò subito nel vivo delle considerazioni desanctisiane.

   Se c’è un contrasto estetico più che poetico nell’opera dantesca, questo contrasto è tra il Dante poeta e il Dante teologo, fisico, me­tafisico, mitologico, scienziato. Ma codesta dualità, così accentuata dal De Sanctis, per Croce era ben risolta nell’unità poetica dell’opera che superava ogni contrasto fra poesia e altro dalla poesia. E Croce definì ‘allotria’ quell’unione e separazione fra le parti divinamente liriche e le parti che, al­tro dalla lirica, erano “struttura”. Ma senza quella “struttura” non sarebbe nato il fio­re della poesia. Anzi quelle parti storiche, geografiche, teologali ed altre simili erano necessarie allo svolgersi di quel romanzo o poema umano e ultraterreno che dove­va essere; e fu nella immensa ispirazione e creatività di Dante. Come in un gran palaz­zo che rifulge di una bellissima architettu­ra, ma quella architettura non sarebbe nata senza la struttura materiale (invisibile poi, ma organica), onde poter costruire il bellis­simo edificio nella sua terminale visione. Insomma Dante aveva bisogno della parte “strutturale” senza la quale non avrebbe potuto nascere e vivere il suo genio creati­vo. Così per i tanti personaggi che rivivono nella sua Commedia e ai quali Dante parla e con i quali partecipa col pensiero e con il cuore. Pensiamo a Francesca, a Farina­ta, a Brunetto Latini, a Ulisse, a Catone, a Manfredi, a Pia dei Tolomei, a Buonconte, a Piccarda, a Costanza, a Francesco e Do­menico, a Carlo Martello, al trisavolo Cac­ciaguida, all’apparizione di Dio nell’ultimo del Paradiso. Certamente non manca, cro­cianamente, la “struttura” ma è in intima connessione con la poesia che nasce pro­prio da quella struttura, come della storia nasce sempre il progresso all’umanità.

   La poesia di Dante del Croce aprì in quel lontano 1921 uno spazio nuovo nella ese­gesi dell’opera dantesca; diede vita a non poche discussioni da parte di altri validi critici, dal Fubini al Russo, dal Sapegno al Marigliano, dal Vallone al Contini, al Sansone. Ma la strada era tracciata. Dante operò, primo fra tutti, la inscindibile unio­ne fra il pensiero quale intelletto e ragione e il pensiero quale ente fantastico e crea­tivo. Dopo di lui nessun altro poeta seppe coniugare la grande esperienza politica, teologale, geofisica, classica e biblica con la virtù, senza confronti, dell’espressione poetica. La sua esperienza fu unica; e tale unica rimane”.

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Il Dante di Voltaire nell'Enciclopedia Dantesca diretta da Umberto Bosco. Nascita di Roma Tre

Post n°1075 pubblicato il 13 Aprile 2021 da giuliosforza

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   Il Dante di Voltaire

   In TV stanno celebrando, alla presenza del Capo dello Stato, il DanteDì (horribile dictu et auditu: in quel di Viale Mazzini e di Saxa Rubra non sanno nemmeno più trovare un titolo decente per i loro programmi) col guitto di Stato, assoldato a suon di milioni, tale Benigni. Soliti luoghi comuni, ovvietà, retoriche stantie, forzature, storture. Non fanno un bel servizio alla memoria di Dante. Io mi diletto a leggere quel che Felice del Buccaro scrisse sull’Encicopedia Dantesca, voluta dal dantista cattolico di sinistra Umberto Bosco e dal galantuomo dantista tiburtino Giorgio Petrocchi, fulminato troppo presto da un infarto, che fu con Bosco alla Facoltà di Magistero prima che si trasformasse in facoltà di Pedagogia della neonata Roma Tre, voluta, tra gli altri, dall’americanista Biancamaria Bosco Tedeschini Lalli, di Umberto figlia, che ne fu prima Rettrice. Con Roma Tre il cerchio ideologico accademico a Roma si chiudeva: dopo la vetusta Sapienza, nata papalina (con tutte le implicazioni e i vincoli che ciò comportava) e Tor Vergata, che dicevano ciellista ed opusdeista, anche i socialisti e i cattolici lapiriani erano accontentati. Pochi altri come me vi rappresentavano i modesti cani sciolti che nei giochi di potere non valevano un centesimo bucato e, per non essere degli allineati, non partecipavano ai lauti banchetti e alla distribuzione dei companatici; ma io venivo, debbo onestamente ammetterlo, rispettato nella mia anarchia culturale, nella mia niccianamente ludica (Ihr steifen Weisen mir ward alles Spiel!) concezione della cultura e della funzione didattica, e lasciato in ogni senso in pace, perché innocuo, e fui felice. E debbo perciò in fin dei conti della gratitudine a quella odiata-amata Istituzione.

*

   Voltaire e Croce su Dante nell’Enciclopedia Dantesca -1

   Riporto qui dunque integralmente in due puntate l’approfondita analisi di Felice Del Beccaro per l’Enciclopedia dantesca. Io e i miei amici, quelli interessati ad una pacata riflessione sull’argomento, ne abbiamo di argomenti per la nostra curiosità! In questi giorni anche il matematico Piergiorgio Odifreddi ha detto vivacemente la sua e molti si sono risentiti prendendo le sue puntualizzazioni e le sue per altro assai documentate opinioni come offese personali. Suvvia! Questo non è onorare Dante e il suo bel caratterino che le sue opinioni non le mandava certo a dire e usava la lingua come una spada! Prossimamente alle opinioni di Voltaire e dei suoi oppositori farò seguire quella del famoso critico americano Harold Bloom, morto ottantanovenne due anni orsono. E con Bloom chiuderò il mio contributo al dibattito, uscirò dall’agone e lascerò le poche ossa di Dante continuare a riposare in pace nel loro anch’esso tribolato e contestato avello ravennate.

   Ecco, dunque, l’Articolo di Felice del Beccaro. L’ultima parte di esso è dedicata a una analisi della posizione crociana nei riguardi della Commedia. Si tratta di un’analisi lucida e pacata dalla quale a me sembra nasca una valutazione capace di mettere d’accordo i contendenti di buona volontà dei due schieramenti. La grandezza di Dante è incontestabile, come incontestabili sono alcuni limiti della sua opera, anche se non tali da meritare le ironie e gli scherni di Voltaire e del gesuita Bettinelli. Al qualeproposito: sarà solo un caso che Bettinelli fosse gesuita e Voltaire un  ex allievo dei Gesuiti del rinomato Collegio parigino ‘Louis-le-Grand’?

 

    Voltaire (François-Marie Arouet). - Filosofo e scrittore francese (Parigi 1694-1778). Nella storia della fortuna di D. in Francia, la critica di V. segna l'estrema punta negativa aggravata dalla durezza di taluni giudizi nonché dall'autorità e dall'eco che ebbero per molto tempo. Soltanto il fedele volterriano La Harpe si dimostrò altrettanto severo verso D., ma il suo, più che altro, è da considerarsi un atteggiamento di riflesso.

Nell'Essai sur la poésie épique (1728) è già evidente l'impossibilità di far rientrare D. in una delle categorie previste per i poeti degni di tal nome. L'autore della Commedia vi è appena citato, mentre vengono nominati altri autori italiani anche minori: il Tasso, il Trissino, l'Andreini (in relazione a Milton) e Scipione Maffei; e vi si fa menzione del Pastor fido del Guarini. In sostanza è lecito presumere che, già a quell'epoca, D. rappresentasse nella capacità di giudizio di V. un fenomeno d'irrazionalità e la Commedia un'opera di cattivo gusto, fuori delle regole del poema epico, definita, in seguito, " bizarre ", qualifica che sarà largamente accettata non solo dai contemporanei ma persino in epoca romantica, magari con la variante di " étrange ", da più di un critico e scrittore francese, ad es. da Chateaubriand. L'ammirazione di V. in fatto di letteratura italiana andò quasi tutta all'Ariosto, sulla cui ironia il filosofo ebbe felici intuizioni, e in parte al Tasso; ma l'Ariosto è addirittura "le premier des poètes italiens et peut-être du monde entier " (EpÎtre à d'Alembert premessa alla tragedia Don Pèdre, 1774), pari a Omero, e " la plus féconde imagination dont la nature ait jamais fait présent à aucun homme " (Lettera a Madame du Deffand, 13 ottobre 1759).

   Nel Discours de réception à l'Académie Française (1746), V. afferma: " Il n'est rien que le Dante n'exprimât, à l'exemple des Anciens. Il accoutuma les Italiens à tout dire ". Questo apprezzamento va comunque considerato in rapporto all'ambiente in cui V. faceva il suo ingresso ufficiale. È presumibile pertanto ch'egli si sia avvicinato a D. con un minimo ancora di reverenza, partecipe di una lunga tradizione. Fatto sta che tra i primi documenti di questo interesse stanno le traduzioni, come testimonia egli stesso a cominciare dalla Lettre de M. de V. à l'auteur de la  ‘Bibliothèque Impartiale’ datata Potsdam, 5 giugno 1752, nella quale appunto scrive: ‘si j'avais traduit en vers avec soin de grands passages du poète persan Sadi, du Dante, de Pétrarque; et j'avais fait beaucoup de recherches assez curieuses dont je regrette beaucoup la perte’. Motivi che riprende nella lettera A M. de *** professeur en histoire (dicembre 1753), precisando: ‘J'avais traduit plus de vingt passages assez longs du Dante, de Pétrarque, et de l'Arioste’. Tra l'altro osserva: ‘les vers du Dante faisaient déjà la gloire de l'Italie, quand il n'y avait aucun bon auteur prosaïque chez nos nations modernes. Il était né dans un temps où les querelles de l'Empire et du sacerdoce avaient laissé dans les États et dans les esprits des plaies profondes. Il était gibelin et persécuté par les guelfes; ainsi il ne faut pas s'étonner s'il exhale à-peu-près ainsi ses chagrins dans son poème’, e ne dà un esempio con 14 versi a rima baciata che traducono tutt'altro che in modo accurato e aderente Pg XVI 106 ss., cioè parte dell'episodio di Marco Lombardo.

Di queste traduzioni della Commedia, di cui restano, oltre i versi suddetti, altri di Inf XXVII (episodio di Guido di Montefeltro), V. dice di averle perdute quando mutò domicilio dopo la morte di Madame du Châtelet (prefazione al tomo III dell'edizione Walther delle opere di V., 1754, dove ribadisce - tutt'altro che a proposito almeno per ciò che concerne D. -: ‘traductions exactes en vers des meilleurs endroits des poètes des nations savantes’).

   Successivamente la critica su D. segue abbastanza fedelmente l'evoluzione dello spirito volterriano, pur non limitandosi a quella posizione intermedia in cui si colloca una tale attività dello scrittore nel quadro del tempo. Ma a segnare l'inizio di tutta una serie di giudizi su D. tanto severi quanto scarsamente fondati, che peraltro ripetono - con poche varianti - gli stessi motivi, non è improbabile che influisse più che l'articolo di P. Bayle su D. nella II edizione (1702) del Dictionnaire historique et critique, come taluno ha opinato, il parere di L. Racine nelle Réflexions générales sur la poésie épique (1747) in cui viene adoperato, a proposito del Purgatorio, quell'aggettivo ’ bizarre’ che ricorrerà poi sempre in V. nei confronti della Commedia, definita dallo stesso L. Racine un poema ‘qui certainement n'est ni épique, ni héroÏque, mais souvent, en sujets très sérieux, fort comique’. V. dovette trovare in questo giudizio un autorevole fondamento alle sue idee certamente approssimative su di un testo parzialmente conosciuto; e nell'aggettivo ’ bizarre’- un soddisfacente suggello formulistico.

   Modesto conoscitore della lingua italiana, almeno fino all'assunzione, nel 1752, del fiorentino Cosimo Alessandro Collini in qualità di segretario, V. relegò D. in un'antichità archeologica nel passo che aggiunse, nell'edizione 1756, alla XXII delle Lettres philosophiques o Lettres sur les Anglais, muovendo critiche all'Hudibras di Samuel Butler: ‘On ne lit plus le Dante dans l'Europe, parce que tout y est allusion à des faits ignorés: il en est de même d'Hudibras ".

Del 1756 è anche l'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations’, nel cui cap. LXXXII (Sciences et Beaux-Arts au XIII et XIV siècle) V. compendia in certo qual modo gli apprezzamenti scritti fino allora nei riguardi di D., riprendendo anche, con poche varianti, la lettera al ‘professeur en histoire’. D. vi è considerato come colui che ha nobilitato la lingua toscana ‘par son poème bizarre, mais brillant de beautés naturelles ..., ouvrage dans lequel l'auteur s'éléva dans les détails au-dessus du mauvais goût de son siècle et de son sujet, et rempli de morceaux écrits aussi purement que s'ils étaient du temps de l'Arioste et du Tasse’. E a riprova di una situazione storica e insieme personale, riprende il precedente motivo della persecuzione papale con il conseguente esempio dell'invettiva di Marco Lombardo, di cui riproduce la propria traduzione che pertanto giudica ‘faible’. D. è ancora citato nei capp. CVIII (De Savonarole), CIX (De Pic de la Mirandole) e CXLI (Des découvertes des Portugais) per farne, in quest'ultima circostanza, a proposito dei versi che alluderebbero alla Croce del Sud (Pg I 22-24) e che V. cita tradotti in prosa, un profeta casuale, giacché D.  ne parlait que dans un sens figuré: son poème n'est qu'une allegorie perpetuelle’. Di questo medesimo annuncio profetico, V. si ricorda ancora nella voce Cyrus del Dictionnaire philosophique (1764) e nelle Remarques sur la Medée (1764) di Corneille, all'atto V, scena VII. Più si era diffuso lo scrittore, rispetto al cap. LXXXII dell'Essai sur les moeurs, col solito esempio della traduzione di versi di Pg XVI, ne Le chapïtre des arts, un abbozzo dal LXXXII dell'Essai con annotazioni in margine, riprodotto, dal manoscritto della biblioteca volterriana di Leningrado, in appendice all'edizione di R. Pomeau dell'Essai, Parigi 1963, pp. 822-824; ma pubblicato la prima volta in modo imperfetto da F. Caussy in V., Oeuvres inédites, Parigi 1914. La Commedia vi è detta la prima opera in una lingua moderna ‘qui ait conservé sa réputation jusqu'à nos jours’. In un raffronto tra il poema dantesco e l'Eneide, V. rileva pertanto che D. consacra quasi 93 canti a quel che in Virgilio occupa i due terzi del VI libro. La satira costituisce per V. l'interesse predominante del poema. Anche il soggetto ‘bizarre’ viene giustificato con le esigenze dei tempi in quanto la religione era argomento della maggior parte degli scritti, delle feste e delle pubbliche rappresentazioni. Da queste considerazioni, improntate a un generico riconoscimento, si passa all'articolo Le Dante registrando una sorta di frattura. Tutt'altro è il tono di questo articolo entrato poi nel Dictionnaire philosophique e forse anche per questo destinato a suscitare tanto rumore, pervaso com'è da spirito polemico che si manifesta di preferenza mediante una pungente ironia. Pubblicato dapprima nella Suite des mélanges de littérature d'histoire et de philosophie (Collection complète des oeuvres de Mr. de V., t. V, s.l. [ma Ginevra] 1757), lo scritto rivela nell'esordio stesso i suoi intenti e il suo carattere: ‘Vous voulez connaïtre le Dante. Les Italiens l'appellent divin, mais c'est une divinité cachée; peu de gens entendent ses oracles; il a des commentateurs, c'est peut-être encore une raison de plus pour n'être pas compris. Sa réputation s'affermira toujours, parce qu'on ne le lit guère. Il y a de lui une vingtaine de traits qu'on sait par coeur: cela suffit pour s'épargner la peine d'examiner le reste’. Dopo aver dissertato vanamente sulle vicende del poeta e della Firenze dell'epoca (fra l'altro asserisce che la fazione dei Bianchi trasse il nome da una certa ’Signora Bianca’), V. indugia sulla Commedia: ‘on a regardé ce salmigondis comme un beau poème épique’. Accenna brevemente alla materia della prima cantica fino all'ingresso di Dite e si domanda: ‘Tout cela est-il dans le style comique? non. Tout est-il dans le genre héroïque? non. Dans quel goût est donc ce poème? dans un goût bizarre’. Subito dopo assume, sia pure per poco, un tono più serio: ‘Mais il y a des vers si heureux et si naïfs, qu'ils n'ont point vieilli depuis quatre cents ans, et qu'ils ne vieilliront jamais’; e conclude l'articolo con la traduzione citata dei versi di If XXVII (che erroneamente attribuisce a If XXIII), una vera e propria parodia che fece annotare al Beuchot nella sua edizione delle Oeuvres de V. (t. XVIII, Parigi 1828-1834): ‘Il ne faut pas prendre cette traduction au sérieux, non plus que le reste de l'article’.

   Su queste divagazioni dantesche di V., un italiano che insegnava a Londra, V. Martinelli (Montecatini 1702 - Firenze 1785), pubblicò due lettere indirizzate al conte di Orford, nipote di H. Walpole e omonimo di questi (in Lettere familiari e critiche, Londra 1758), definendo lo scritto di V. ‘discorso vano, arbitrario e falso’, di ‘inetta critica o piuttosto insipida maldicenza’ e la traduzione dei versi di If XXVII ‘una stupida traduzione... in uno stile pulcinellesco’. In quel medesimo anno 1758, nella seconda metà di novembre, V. ricevette a Ferney la visita di S. Bettinelli che appunto l'anno precedente aveva pubblicato le Lettere virgiliane. Non è improbabile che un tale incontro, da cui prese l'avvio un interessante carteggio, abbia determinato V. a usare un maggiore rigore nei giudizi su Dante. Attenendoci alla cronologia, sarà piuttosto da pensare che siano state le Lettere virgiliane a stimolare in questo senso il filosofo. In una lettera al Bettinelli scritta ‘aux Délices près de Genève’ e datata da T. Besterman (Correspondance, vol. XXXVIII, n. 7932) al 18 dicembre 1759, V. ritorna a fare una sia pur piccola concessione all'opera dantesca nel confronto con la profluvie di versi italiani occasionali del suo tempo; ma tutto sommato ‘le Dante pourra entrer dans les bibliothèques des curieux’. Contro l'atteggiamento critico nei confronti di D., vuoi del Bettinelli come del V., si leverà invece, fra tanti vani dibattiti, la voce efficace dello zurighese J.J. Bodmer (1763) cui si accorderà, soprattutto nel rilevare gli errori del V., un altro studioso svizzero, J.B. Merian di Basilea. Ma l'asprezza della polemica contro V. fu, com'è naturale, particolarmente intensa in Italia con reazioni di carattere nazionalistico che si opponevano spesso all'influsso francese sulla nostra cultura e sul nostro costume. Gli scritti più significativi in proposito rimangono il Discours sur Shakespeare et sur M. de V. (1777) del Baretti, nel quale si dimostra che V. conosceva D. meno ancora di quel che non conoscesse Shakespeare, e la Lettera sopra D.A. contro il Sig. di V. (1781) di G. Torelli”.

 (segue) 

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35852 versi. Evento surreale alla Scala. Croce e Dante. E' Primavera?

Post n°1073 pubblicato il 09 Aprile 2021 da giuliosforza

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   Nunc est ridendum!

   In un periodo in cui si fa tanto parlare - e, come è giusto, per fortuna un poco anche discutere, se non sparlare - di Divina Commedia, e si fanno paragoni tra essa e gli altri grandi poemi di tutti i tempi, è frequente pure il riferimento al numero di versi di cui essa si compone. Coi suoi 14223 è inferiore solo all’Iliade, ma di molto superiore a Odissea ed Eneide. E a me viene un pensiero bizzarro: se si dovesse valutare un poeta anche col criterio del numero dei versi, io sarei tra i più grandi, se non il più grande, versificatore - in metri rigorosamente classici, dai greco-latini agli alessandrini, con prevalenza dell’endecasillabo e del settenario - di ogni tempo e di ogni luogo: 35852 circa di fatti  sono i versi che ho finora dato alle stampe in tre volumi - per la gioia mia, per quella, spero, degli amici e per quella, indubbia, dei tipografi - da donarsi, non da mercanteggiarsi,  e così distribuiti: Canti di Pan e Ritmi del Thiaso 22680, L’Evità 5698, Aqua Nuntia Aquae Iuliae 7474. Ai quali saranno presto da aggiungere, dovessi un poco ancora campare, quelli del volumetto in preparazione che avrà per titolo assai appropriato …La Sera di Pan.

   Dovesse nei secoli a venire qualche critico imbattersi per caso in me, chissà che colpo, chissà che clamore, chissà che fragore per la scoperta di un cotanto sconosciuto! E che goduria io vedermi, dai miei cieli, come un    Orfeo da uno stuolo di critici-menadi   o come un Pier delle Vigne da uno stormo di critici-arpie, nelle mie povere carni, ogni volta ricomponentisi per nuovi martìri, dilacerato!

 *  

   Storico evento …surreale alla Scala.

   In una sala vuota di pubblico, con gli orchestrali regolarmente mascherati in platea, i solisti distanziati sul palcoscenico, i coristi distribuiti ognuno in uno dei palchi delle prime tre balconate, voci maschili e femminili le une di fronte alle altre, divise dal baratro del teatro vuoto, il bravo Myung-Whun Chung fa quel che può per ottenere il meglio da orchestra e coro. Sono in programma lo Stabat di Rossini e la Trauer Symphonie di Franz Josef Haydn. L’esito è facilmente immaginabile. L’esperimento, unico ritengo nella storia della Scala e di qualsiasi Altro Teatro al mondo, ha sicuramente un suo fascino scenografico, ma solo scenografico. Per il resto bisogna aver bocca buona e rassegnarsi alla dispersione delle voci umane e dei suoni strumentali, ai rimbombi, agli echi, alle sfrangiature, ai ritardi o agli anticipi dei singoli attacchi, facilmente da orecchi minimamente educati percettibili, agli unisoni con comprensibili incrinature, ai finali non netti. Ma credo fosse questo il massimo in tale circostanza ottenibile. Bene hanno perciò fatto direttore orchestra e coro a ironicamente a lungo autoapplaudirsi. Ne hanno avuto del coraggio ad accettare un impegno tanto improbo! E, nei limiti consentiti, sono stati dunque assai bravi. Ho applaudito anch’io in solitudine, felice e triste insieme, come a un Compianto ed una Sinfonia funebre sempre s’addice, ma particolarmente in congiunture come le attuali. E perciò anche ora come non mai Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika, che divinamente ci aiuti a contrastare, o semplicemente a sopportare (e magari, con l’aiuto della presuntuosa mercantile Scienza, a sconfiggere) l’Infame.

*  

   Rai5 mattino: La forza del Destino 1958 San Carlo con Renata Tebaldi Corelli Christoff. Che cast!

   Pomeriggio, teatro: Il Candeliere di De Musset con Piera degli Esposti, Grassilli, Pistilli. Orrendo. Meno male che fa da sfondo il Secondo concerto per pianoforte e orchestra op. 18 di Rachmaninov.

   Nei giorni seguenti vari Feydeau, fra cui il godibilissimo L’albergo del libero scambio (L’hotel du libre échange) e La pulce nell’orecchio, in una strordinaria edizione (1988), con Calindri, Brandi, Gazzolo, Buzzanca, Solenghi, Marzia Ubaldi ed altri, che compensano il tedio dei vari Courteline, soprattutto quello di Boubouroche.

   Ed un ennesimo Elisir d’amore, questa volta con Anna Moffo. Ma ad immagini discrete corrispondono un canto e un suono quasi impercettibili. Capolavori degli anni Cinquanta andati distrutti. Peccato!

 

*

   Un pensiero poco pasquale.

   Trascorsa l’epoca dell’ottimismo della volontà, necessario per la sopravvivenza fra l’universale sfacelo, resta che la cruda verità. Tutta la vita, da quella infima, a quella più alto nella scala evolutiva, non è che un gioco al massacro, tanto più feroce quanto più si sale nella scala evolutiva. La strada alla coscienza è la strada sempre più raffinata al macello.      

*

   La tramontana sembra finalmente cessata. Il cielo è sgombro, i deliziosi piccoli parchi delle Tartarughe e della Speranza (ai quali in questi giorni un altro se ne è aggiunto, il Bettini, rendendo la nostra zona una delle più belle ed ecologicamente vivibili) sono coperti da una soffice tappeto di verde giovane e compatto appena rasato, e le piante accennano ad aprire al sole le loro prime foglioline (i loro infiniti nuovi parti), e ad offrire agli uccelli i loro rami, illusorio  riparo dalla voracità del falco che minaccioso e solitario plana sui palazzi delle cooperative dispersi tra i pini. Spuntano le prime margheritine, poche auto rompono i silenzi delle strade offerte ormai quasi solo ai massacranti rulli delle ruote degli autobus, pur semi o del tutto desolatamente vuoti. Il silenzio è surreale (l’aggettivo più abusato di questi tempi ma anche quello che più ad essi si confà). Dovrei essere sereno ma non lo sono. E come potrei se pensieri di sofferenza e di morte affollano la mia mente e vedo uno dopo l’altro ex collaboratori, ex allievi, amici cadere vittime, direttamente o indirettamente, del morbo che infesta invisibile il mondo e non accenna a placare la sua sorda   e muta violenza? Che l’esserne testimone, che il mio vivere al lungo sia il mio castigo? E inutilmente mi consolano i ‘resurrezionisti’, e non riesco più a credere, come credetti, al davidico renovabitur ut aquilae iuventus tua.

   Urlare je m’en fiche.

   A questo si ridurrebbe dunque il senso del mondo, a un volgare me ne frego?

   Mi ribello. Finché un uomo, un uomo solo, penserà il mondo, soggetto, non oggetto, sarà del mondo. Tutti gli sforzi dei pensieri pensati, le cose, non potranno annullare il pensiero pensante. Forse dovrà solo, il pensiero pensante, diversamente pensare. Forse l’occasione buona è giunta perché la Coscienza, il Pensiero che si autopensa (lo Selbstbewustsein) e pensandosi pone il mondo, cambi direzione o la recuperi.

 

*

   Perché odi et amo Benedetto Croce, e quare id faciam fortasse requiris. Tenterò una risposta.   Non ho amato, e non amo, Benedetto Croce uomo: rampollo di facoltosa famiglia borghese marsicana, quasi mio conterraneo, non ebbe bisogno di appigionarsi. Non si laureò, non gli interessò la carriera universitaria, non fu mai accademico, se mai gli accademici li faceva lui, celatamente connivente il suo amico-nemico Gentile: sedeva sullo scranno di pontefice massimo della critica storico-letteraria con uno stuolo di schiavi adoratori ai suoi piedi, e nutu capitis faceva e disfaceva scagliando fulmini a destra e a manca dalla casa che fu di Vico. Guai a chi incappava nella sua ira funesta. Fu egoista e insensibile e cinico di fronte alla sorte tragica del Filosofo di Castelvetrano, geloso del suo precocissimo successo filosofico. E quando la vita la politica e la filosofia li divisero il suo comportamento fu molto ambiguo: lanciò sì il Manifesto degli intellettuali antifascisti, ma dopo quel gesto clamoroso se ne stette buono al caldo delle sue vaste case fra i suoi innumerevoli libri e i suoi innumerevoli fantasmi. Il Regime non lo confinò né esiliò, ma egli non scelse l’esilio volontario, come in Germania e in Russia fecero i più grandi intellettuali e scienziati. E non fu una provocazione al regime, si trattò solo di una quieta convivenza, spero non contrattata sottobanco, comoda per ambedue, soprattutto per il regime che si sentiva coonestato di fronte al mondo dal fatto di nutrirsi in seno il suo (forse) più pericoloso avversario intellettuale. C’è chi continua a ritenere l’atteggiamento di Croce una mossa astuta. Io continuo a ritenerlo solo una mossa comoda.    Dunque, non amavo né amo Croce uomo. Ma anche in quanto ‘filosofo’ (egli più che filosofo fu storico e per questo forse teorizzò la riduzione della filosofia alla sua storia) ho da ridire. La sua filosofia ‘delle quattro parole’ non fu un servizio al Neo-Idealismo, fu se mai il suo tradimento: un tentativo mal riuscito di distinguersi dal rigido, quello sì, e coerentissimo Attualismo gentiliano, frantumando l’unità dello Spirito, senza il quale non v’ha Idealismo. Fu in sostanza un retaggio della sua innata tendenza positivistica. Inoltre, ma qui scado nella celia e bisogna che subito mi ricomponga, non amavo la sua solenne ingilettata obesità e la sua posa da Buddha più di quanto amassi sigaro ed epa di colui al quale “Re Giorgetto d’Inghilterra, per paura della guerra, chiese aiuto e protezione: il ministro Churchillone”, come all’incirca recitava una delle filastrocche antialbioniche che a noi balilla insegnavano al ‘bosco del Littorio’. Un Churchillome al quale molto fisicamente il Nostro somigliava.   Tutto questo preambolo per poi finire col dire che …mi piace l’Estetica crociana!  Cercherò di spiegarmi.   Come tutti sanno il trattato di Estetica non fece che sviluppare le idee contenute nel Breviario di Estetica, nel quale Croce aveva raccolto quattro sue conferenze sul tema, alla cui pubblicazione Papini se ne era uscito, non ricordo se su Leonardo o Lacerba, con l’irriverente e divertente epigramma: ‘Benedetto è quella cosa / che ti scrive anche il Breviario. / Preferisco il sillabario / ci si impara assai di più”.   Io dunque amo l’estetica crociana. E il motivo è semplice: perché condivido la definizione dell’Arte come intuizione pura, o sintesi lirica a priori di intuizione e sentimento, di forma e contenuto sicché (e qui è d’obbligo notare il …prestito gentiliano de “L’Idea senza Azione è vuota, l’Azione senza Idea è cieca”), crocianamente ‘l’intuizione senza sentimento è vuoto, il sentimento senza intuizione è cieco’. E poi amo l’Arte per l’Arte (la classica Ars gratia Artis); e, anche se con dei distinguo, condivido la polemica contro l’estetica intellettualistica, edonistica, utilitaristica, moralistica (che seconde me non esclude una Poesia pensante e un Pensiero poetante, un modo ancor più nobile di intendere la sintesi a priori estetica entro la dialettica dell’unità dello Spirito). E poi amo l’implicito concetto del primato dell’arte, che merita che il Vitam impendere Vero si traduca in Vitam impendere Pulchro, e che la dialettica dello Spirito, da Arte Religione Filosofia, si capovolga (echi schellinghiani) in Religione Filosofia Arte, predicando l’Arte il momento universale, non più particolare, dello Spirito.    Questa mia concezione radicalizzata trovo implicita nell’Estetica crociana, e per questo mi piace.   Una tale concezione estetica consentì a Croce una critica dantesca (vedi La poesia di Dante, Laterza 1921) che doveva far molto discutere, quasi fosse una demitizzazione: la Divina Commedia sarebbe un’opera più didascalica e teologica che lirica. Solo nell‘Inferno probabilmente è possibile rinvenire qua e là i tratti d’un lirismo puro. Una valutazione come si vede molto vicina a quella di Voltaire, che del Fiorentino si sentiva di salvare non più di duecento versi!

   P. S.

   Qualche tempo fa, influenzato dalle opinioni di Voltaire, di De Sanctis e di Croce, volli mettermi anch’io alla ricerca dei momenti da me ritenuti più prettamente lirici del Poema, enucleandoli pignolescamente da ognuna delle tre Cantiche. Ritrovo ora l’agenda con gli appunti e m’accorgo di essermi fermato a Purg. XV 75 (e come specchio l’uno l’altro rende), quindi precisamente a metà dell’opera. Un buon punto per ricominciare e terminare, e magari ricredermi o confermare l’opinione del Parigino, del Morrese, del Pescasserolese.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

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Goethe. Primo giorno di Primavera. Gabriele legge Dante. Adone

Post n°1072 pubblicato il 06 Aprile 2021 da giuliosforza

 

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   Oggi ricorre il 189esimo della morte di Johann Wolfgang von GOETHE. Vi scandalizzero' se confesso che, con un Italiano che non dico, lo sento a me più 'prossimo' di Dante?  

*

   Primo giorno di Primavera. Ma Primavera non brilla nell’aria per li campi esulta. Algida è l’aria, arida l’anima. Non restano, Lesbia,  che i ricordi dei nostri focosi… basia mille, delle nostre, quelle sì, policrome e tiepide, primavere, in barba ai mugugni dei vecchi barbosi’ (senum severiorum),                                                                                                    / deinde centum, / dein mille altera, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum… Ma a che tanti ricordi se soles occìdere et redire possunt / nobis cum semel òccidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda? Se, mentre i giorni luminosi possono tramontare e tornare, a noi, una volta trascorso il breve giorno, non resta che dormire una notte eterna? Bastano, Lesbia, i ricordi? O non resta che la disperazione? La disperazione del giovane Werther e del giovane Wolfgang sturmista e preromantico che la descrisse ,e che per Massenet tradussero in bei versi Edouard Bau, Paul Milliet e Georges Hartmann? Perché risvegliarmi, soffio di Primavera? Pourquoi me réveiller / Sur mon front je sens tes caresses, / Et pourtant bien proche est le temps / Des orages et des tristesses! / Pourquoi me réveiller, / Ô souffle du printemps? / Demain dans le vallon / Viendra le voyageur / Se souvenant de ma gloire première. / Et ses yeux vainement / Chercheront ma splendeur. / Ils ne trouveront plus que deuil / Et que misère! hé1as! / Pourquoi me réveiller, / Ô souffle du printemps?

   Non disperiamo, mia Lesbia. Decidiamo (ché solo dalla nostra Wille zum Leben, dipende la nostra immortalità) che altre primavere ci attendono, e miliardi, non migliaia di baci, quali solo una Lesbia-Éternità può garantire, i miliardi di baci e non la disperazione del giovane Catullo e del giovane Werther, sottratto alla bella prosa di Goethe e affidato al canto post-romantico di Massenet.

*

   Riprendo il Non Finito di Giovanni Papini. Sono all’8 gennaio 1900. Ha diciannove anni meno un giorno.  Del suo compleanno scriverà: “9 Gennaio. Oggi compisco 19 anni. Giorno di noia, di svogliatezza. Non ho fatto niente o quasi. Ho leggiucchiato qualche giornale; poi, la sera, sono andato fuori con Prezzolini, Mori, Morselli, Poggi, Bandini. Han parlato anche della lettura di D’Annunzi. Anche la compagnia degli amici mi riesce pesante.

   Stasera ho incominciato a leggere la Fiera delle vanità, del Thackeray. Promette bene, l’umorismo è fino benché un po’ prolisso.

   Il giorno prima aveva scritto:

Stamani son rimasto in casa per studiar tedesco. Fra l’altro ho tradotta una poesia dell’Hölty: La morte. Questo poeta morto giovane (a 28 anni) meriterebbe di esser studiato. È una poesia del dolore.

   Il giorno sono andato da Prezzolini a studiare un po’ di latino. Poi siamo usciti insieme e abbiamo girato qua e là a comprar libri.

   Dopo ho trovato Baldini e l’ho accompagnato a casa. È stato malato assai ed è ancora molto debole. Mi ha parlato della lettura odierna di Dante fatta da Gabriele D’Annunzio a Orsanmichele. Il D’Annunzio, come il solito, ha parlato di tutto fuorché di quello di cui era stato invitato a parlare, cioè dell’VIII canto dell’Inferno: Ma ha parlato bene, armoniosamente ed elegantemente, come egli sa: in fondo ha letto una sua bellissima laude”.

   Avrebbe potuto esser diversamente? Che onore per Dante!

   Non conoscevo l’Hölty. Mi toccherà comprarlo, e anche questo lo dovrò a quel giovanottello, assatanato curiosissimo lettore di nome Papini. Vado a controllare nella mia raccolta di Lieder e trovo che molte delle sue poesie furono in seguito musicate dai vari Mozart, Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Brahms…

*  

   Nec deus intersit nisi dignus vindice nodus.

   “Prendi Dio che a te le squadro”.

   Orazio e Vanni Fucci (quello delle amendue le fiche: nemmeno Capaneo aveva osato tanto) mi ronzano stamane nelle orecchie. Ed il perché ignoro.  

*

   Ho sognato tutta la notte di disquisire con filosofi e teologi trascendentisti del mio aberrato panteismo. Processo mistico di discesa (proodòs): dall’Assoluto trascendente all’Assoluto immanente il mio (Lui Tu Natura Io,); processo mistico di risalita (epistrophé): dall’Assoluto immanente all’Assoluto trascendente (Io Tu Natura Dio) il loro. Prima del sorgere del potere razionale oggettivante (infanzia adolescenza) prevalenza del sentimento dell’unità; in età di presa di coscienza, prevalenza del dualismo o pluralismo, oggettivazione e trascendenza. Ma non ho di meglio da sognare? Per esempio, un De Musset che chiede: Regrettez-vous le temps où le ciel sur la terre / marchait et respirait dans un peuple de dieux? E un adolescente Arthur che di rincalzo risponde: Je regrette le temps de l’antique jeunesse / des Satyres lascifs, des faunes animaux? Molto più semplice, molto più chiaro, molto più in-mediato. E molto più ‘pagano’, che ve ne pare?

*

   Su Rai5 la riduzione teatrale da parte di Luca Ronconi di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, per il quale non stravedo, come non stravedo per il suo autore Gadda. Ma mi piace Corrado Pani, un po’ meno mi piace Graziosi; di più mi piace Ilaria Occhini, bellissima e bravissima, non per niente nipote di Giovanni Papini, e moglie del raffinatissimo Raffaele La Capria, ultranovantenne, di Lei rimasto recentemente vedovo. E un Otello verdiano (penultima opera del Maestro, ove finalmente si recepisce la atmosfera europea e specialmente wagneriana) molto gradevole, registrazione Rai del 1958 con Mario del Monaco e Rosanna Carreri. Il bel tenore dalla bellissima voce particolarmente ‘cruda’ quasi baritonale ma ciononostante di grande estensione fu l’idolo maschile lirico, paragonato a Caruso e a Gigli, della mia generazione. Troppo presto morì di una crisi cardiaca conseguente ad insufficienza renale per la quale era in dialisi, e lo ripiangemmo a lungo. Bravissima Desdemona Rosanna Carteri, la veronese morta novantenne l’ottobre scorso: meno celebrata di lui, ma che nulla aveva da invidiare alle sue famose colleghe più giovani, Tebaldi Callas Freni Devia Scotto... Io, che all’Opera ho sempre preferito la Musica sinfonica, non schiavo del pregiudizio per il quale tutti gli strumenti dovrebbero mettersi al servizio di quello più nobile, la voce umana appunto (il superamento della querelle avviene con Wagner che fa della voce umana uno strumento fra gli altri, con essi sin-fonicamente in pari dignità colloquiando e fondendosi), non sono per questo sordo al richiamo di una bella vocalità, singola o di gruppo (di questa in particolare che sola può raggiungere il massimo dell’indipendenza espressiva e degnamente competere con l’insieme strumentale) e dove essa esista godo immensamente come di uno dei più bei doni della Natura che per me, uditivo ingiustamente punito nel senso dell’udito, ancor prima e più che colore è Suono, se è vero che da un Ur- Klang, un primitivo Suono il Tutto-Universo iniziò a configurarsi.      

* 

   Tornando all’Adone del Cavalier Marino.

   Se l’Adone mi piace dipende anche dal fatto che mi ricorda una delle opere di D’Annunzio che preferisco, quel Martyre de Saint-Sébastien, inviso a molti critici nostrani pruriginosamente moralistici,in cui misticismo e passione, poesia e musica, parola e suono (infine dissolventisi l’una nell’altro) si rivelano in più perfetto connubio. Hélène Tuzet nel citato Dizionario dei miti letterari (Tascabili Bompiani 2004, Dictionnaire des mythes littéraires, Éditions du Rocher, 1988, Monaco) alla voce Adone, riferendo del Martyre fa una lucida e serena disamina della grande opera dannunziano-debussyana, la cui parte poetica dalla critica becera e rancorosa di casa nostra è sovente svalutata a vantaggio di quella musicale (che mai, è bene ricordarlo, fu in più felice connubio coi versi che la ispirarono). Quando la lessi venivo da un farraginoso (oltre tutto disturbato dal chiacchiericcio continuo di Carmen Llera, fresca vedova …allegra di Moravia, con l’amante di turno) Martyre di Villa Medici pieno di bizzarrie registiche (fra cui l’affidamento ad un uomo della parte del protagonista che era stata di Ida Rubinštejn) nella quale la identificazione Adone-Saint Sébastien era svuotata completamente della sua connotazione esoterica. Ecco cosa scrive la Tuzet:

   “A dispetto del titolo, in quest’opera Adone occupa lo stesso spazio di Sebastiano. Questo gioco drammatico ci fa vedere sulla scena -caso unico- i fedeli del dio che celebrano le Adonie.

   L’ambiente è un Impero Romano passato allo stato di mito del decadentismo: confusione dei culti, decomposizione religiosa di cui si compiace un imperatore egli stesso mitico. Sullo sfondo un’Asia, speziata di aromi, patria di un brulichio di riti strani; mistica e sensuale inseparabilmente. La musica – geniale – di Debussy è fedele a questa atmosfera.

   Il vero tema è lo sforzo del cristianesimo nascente, incarnato da Sebastiano, di liberarsi da questa ‘turma’; mentre il culto di Adone ha qui il compito di farvelo ricadere. Ma la figura del santo, troppo affascinante, si presta all’equivoco. L’imperatore, invaghito della sua bellezza, vuole divinizzarlo identificandolo con Adone. Se egli cerca di evocare il suo Signore, riecheggia subito il canto delle celebranti delle Adonie: anche Cristo…Sebastiano non sfuggirà ad esse se non con la morte: si impossessano anche del suo corpo trafitto di frecce; solo la sua anima entra in Paradiso - e la musica ci trasporta con esso.

   Lo scenario dell’opera è forse il più asfissiante che abbia prospettato il decadentismo europeo. Tuttavia, perché D’Annunzio era un vero artista, ha saputo rispettare l’eredità di Bione: i canti delle celebranti delle Adonie conservano una linea molto pura. Questo spettacolo, sfarzoso e sovraccarico ci ha dato, nel 1911, ciò che si poteva fare di più vicino alle Adonie antiche. (Op. cit. pag. 26)  

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