Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2019 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

giuliosforzafantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegronichioooooannaschettini2007kunta.mbraffaele.maspericotichPoetessa9avv.Balzfamaggiore2dony686cassetta2
 

Ultimi commenti

Non riesco a cancellare questo intruso faccendiere che...
Inviato da: Giulio Sforza
il 20/11/2023 alle 07:25
 
Forse nei sogni abbiamo una seconda vita
Inviato da: cassetta2
il 01/11/2023 alle 14:32
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:38
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:34
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:31
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

Messaggi di Luglio 2019

Del Silenzio

Post n°1010 pubblicato il 24 Luglio 2019 da giuliosforza

Post 932

La mia splendida solitarietà (non solitudine  - come disse di sé Goethe, Ich bin einsam, nicht allein)  oggi mi spaura. Troppo fitto è nel mio eremo al Frainile, dopo la pioggia attesa e abbondante, il silenzio: non un uccello canta, non un gatto miagola, non un cane abbaia, solo le urla, quasi ululati,  della povera C. risuonano e rimbalzano contro le case addormentate del borgo. Ogni vita canora tace: solo processioni di chiocciole, stanche di un troppo lungo letargo, escono a frotte ad infittire la quiete panica e a pascersi delle erbette già rinverdite ed umide, lasciando abbondanti bave vischiose  sul loro cammino. Ed io scrivo, compongo in cucina o strimpello all’organo malinconiche arie schubertiane e schumanniane per sedare omeopaticamente, non fugare, l’amica malinconia, ‘ninfa gentile’ cui dedicai la mia vita . Ma soprattutto leggo, ed evado dalla onofriana ‘triste obliquità che pensa’.

   Particolarmente ricco è questa settimana il supplemento de Il Sole 24 Ore domenicale, a cominciare dall’occhiello ravasiano a finire alle note letterarie, filosofiche, scientifiche, musicali dalle firme illustri. La prima pagina è dedicata tutta al Silenzio e ai suoi rumori, e pare Luigi Sampietro abbia scritto per me, per ed il mio attuale stato d’animo, il pezzo che trascrivo integralmente, sperando di non violare i diritti d’autore. Si intitola:“Storia del sensibile. Scrittori e artisti hanno raccontato negli anni qualcosa che non è solo assenza di suono, ma è sospensione davanti all’assoluto, luogo intimo che genera la parola. Come cambia il rumore del silenzio” .

   E così procede:

 

    «C’era una volta - cito a memoria – Il silenzio del mare di Vercors, e c’era Il silenzio, tout court, di Ingrid Begman. Un breve romanzo sulla resistenza francese (1942) e un film (1963) con una strana vicenda ambientata in un Paese altrettanto strano, e tanti primi e primissimi piani intervallati da pause interminabili. Erano gli anni della cosiddetta ‘alienazione’, di cui era maestro - a furor di campi lunghi  di lunghi silenzi, appunto  anche il nostro Michelangelo Antonioni. E poco importa se qualche sprovveduto spettatore finiva per appisolarsi sulla poltrona del cinematografo.

   Venne poi Il silenzio degli innocenti, un film horror (1991) tratto da un romanzo di Thomas Harris (1988), con un inarrivabile Anthony Hopkins nei panni di Hannibal the Cannibal. E quella volta, quasi a sconfessare il titolo, il silenzio in sala fu di frequente interrotto da gridolini di terrore.

   C’era anche Il silenzio (Chinmoku, 1956) del giapponese Shūsaku Endō, poi trasposto in film da Martin Scorsese (1971): e Silenzio (1961), una raccolta di saggi del compositore John Cage, oltre ad un libro di Francis Scott Fitzgerald, Silenzio per sveglia (1935) il cui titolo si riferisce all’assolo per tromba che in caserma segna la fine della giornata. Lo stesso, per intenderci, del famoso 45 giri fuori ordinanza  del nostro Nini Rossa (1966).

   Ora, anche se sappiamo tutti benissimo di cosa si tratta, c’è sempre qualcuno a cui non basta parlare del silenzio come si fa con un qualsiasi dato dell’esperienza, ma che vorrebbe definirlo sul piano ontologico. Comprendere che cosa sia in sé. Perché, afferma sempre qualcuno, il silenzio non è solo assenza di suono, cioè di energia, come direbbe un mio lontano parente ingegnere.

   Anni fa un filosofo-poeta o poeta-filosofo svizzero, Max Picard, si prese infatti la briga di indagare l’arcano in un libro, Il mondo del silenzio (Comunità,1951) di recente ritradotto da Jean-Luc Egger (2007) per la casa editrice Servitium: “La parola è nata dal silenzio: dalla pienezza del silenzio.  E questa pienezza sarebbe esplosa se non avesse potuto confluire nella parola, perché la parola che nasce dal silenzio è come investita di una missione: è legittimata dal silenzio che l’ha preceduta”.

    Se il timbro non è vibrante il tono è quasi sacrale, e quella di Picard è una voce che ha l’ambizione di imporsi sul piano dell’eternità. Dove il tempo -passato presente e futuro- implode nella rivelazione profetica, e solitudine e silenzio sono tutt’uno.

   Il mondo del silenzio si colloca infatti accanto ai libri di altri solitari del passato. Da Aurelio Agostino a Petrarca e da Leopardi a Machado, passando per il Timone di Atene di Shakespeare e il Robinson Crusoe di Defoe, fino a quella singolare figura di eremita che è stato il rumeno Costantin Noica, appartatosi in un paesino sui Carpazi durante la dittatura di Ceausescu “non per fuggire il mondo ma per conquistarlo da lontano”.

   Come la solitudine, il silenzio può essere doloroso; e tuttavia sono proprio i sovrumani silenzi e la profondissima quiete di cui parla Leopardi ne L’infinito a darci il senso dell’ineffabile; ovvero di quel momento di sospensione in cui “le cose / s’abbandonano / e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto” (e qui è Montale che parla di rincalzo) e “ci si aspetta  / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”.

   Una sorta di illuminazione interiore, del tutto secolare e non trascendente, che sancisce - sembra di capire - la percezione di quella identità tra sé e l’universo (uni-versus, il mondo inteso come dotato di direzione, cioè di senso) che a sua volta è la risposta della mente stupefatta sulle soglie dell’assoluto.

   Il silenzio che abbaglia e stordisce -ed è foriero di sensazioni estatiche- è anche l’argomento di due libri più recenti di Sara Maitland e Erlin Kagge, rispettivamente. Il primo, A Book of Silence (Graywolf Press, 2008), echeggia nel titolo quelle raccolte di preghiere che erano i libri d’ore, ed è una sorta di resoconto autobiografico delle esperienze vissute, a partire da un certo momento della propria vita, da una protagonista abbastanza abbiente da potersi permettere lunghi viaggi e l’acquisto di solitarie dimore in località sperdute della Scozia per vivere pienamente nella dimensione della solitudine e del silenzio. Con internet ma senza telefono.

   Il libro di Erling  Kegge appartiene invece al filone ecologico salutista. Il titolo, tradotto letteralmente dal norvegese in inglese, è Silence in the Age of Noise: The Joy of Shutting out the World. In italiano diventa un fin troppo ambizioso Silenzio. Uno spazio dell’anima (Einaudi, 2017). Si tratta di un vivace resoconto, introdotto da qualche banalità filosofica, di lontane esperienze di un esploratore -nonché avvocato, collezionista, imprenditore, uomo politico, scrittore ed editore-, panteista nella sostanza e attivo sotto tutte le latitudini, che si è spinto, negli anni ’90, prima al Polo Nord percorrendo 800 chilometri sugli sci, poi al Polo Sud, viaggiando in solitaria e senza radio per 50 giorni; infine in cima all’Everest, che è la terza estremità del pianeta. E poiché gli mancava l’esperienza del silenzio sottoterra, nel 2010 Kegge ha attraversato in cinque giorni la città di New York, dal Bronx a Manhattan fino all’Atlantico, lungo fogne, tunnel per l’approvvigionamento idrico e linee della metropolitana. Tendendo l’orecchio e turandosi il naso.

   Ultimo, l’Histoire du Silence di Alain Corbin (Éditions Albin Michel) ora tradotto con successo anche in inglese. Il sottotitolo è De la Renaissance à nos jours,  ma la suddivisione dei capitoli non è cronologica bensì tematica, e il libro è un thesaurus di citazioni (ne ho contate circa 350) che si dimostra vincente più di tanti discorsi. La pagina di un romanziere o di un poeta, infatti, riesce sempre  a fare “entrare” il lettore nella realtà virtuale che sta rappresentando, laddove i documenti e gli scartafacci d’archivio possono solamente offrire uno spunto dal quale partire per la rielaborazione storiografica.

   Corbin è un affermato “historien du sensible”, specializzato nell’indagine di fenomeni “inafferrabili”, come la mentalità o l’immaginario della gente in un certo periodo, o realtà fisiche quali gli odori e i rumori, la pioggia e il maltempo, con relativi commenti e previsioni, nelle case e nelle osterie. Nella Histoire du Silence si avvale di uno stuolo di scrittori, in maggioranza francesi - da Pascal  e Milton a De Vigny e Hugo; da Thoreau a Whitman a Baudelaire a Verne; e da Zola a Huysmans a Maeterlinck e Claudel, fino a Proust e Camus - come della fonte più sicura per dare al lettore un’idea di come il silenzio sia stato percepito nei secoli.

   C’è il silenzio che avvolge gli oggetti famigliari e i luoghi solitari - chiostri, chiese, cimiteri e carceri - e il silenzio delle strade deserte e delle foreste impenetrabili. Il silenzio come rifugio o come minaccia. Come scelta tattica in società e nella vita privata. Il silenzio che accomuna gli amici e il silenzio ambiguo degli amanti. Il tutto contenuto nella parentesi del silenzio biblico precedente la creazione e l’apertura del settimo sigillo nell’Apocalisse. Quando suoneranno le trombe che tutti sappiamo».

  

   Fin qui Sampietro. L’accenno finale al silenzio biblico mi fa pensare a quello che lungo tutto il tempo della trascrizione ho pensato: esserci un brano del Libro della Sapienza, ripreso dalla Liturgia cattolica, che meglio di tutti esprime la natura divina e la forza creatrice del Silenzio, e di cui paradossalmente  pare Corbin, almeno nel resoconto di Luigi Sanpietro, non si ricordi. Eccolo: 

   Dum medium silentium tenerent omnia et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens sermo tuus, Domine, de caelis a regalibus sedibus venit”.

   En archè en o Logos. Nascita della Parola dal primigenio Silenzio cosmico.

 

*

  Molto interessante mi pare un trafiletto redazionale, posto a spezzare la compattezza del testo del Sampietro. Si intitola Mephisto Waltz, Complexio oppositorum, con chiaro riferimento alla famosa composizione  lisztiana,  e accenna al rapporto Musica-Silenzio.

   C’è un che di rituale e magico nel far musica. Lo si percepisce all’entrata sul palcoscenico degli orchestrali e ancor più nel momento in cui un pianista in recital, da solo sul palco, si trattiene per qualche istante - Michelangeli sublime anche in questo – prima di alzare le mani e iniziare il concerto. Se la platea degli ascoltatori è attenta, come accade sempre in Germania, in Austria o in Israele, o ancor più in Giappone, se è competente e conosce il linguaggio musicale, il pubblico ‘partecipa’ e l’esecutore percepisce all’istante il ‘climax’. Se genio, lo diventa ancora di più. Si tratta di un vero e proprio rito, a volte satanico, che ci viene nelle forme più primitive chissà da quando tramandato, e sempre presente in ogni aggregato umano. E’ l’uso di celebrare con suoni, ritmi e canti ogni accadimento, per esorcismi, riti nuziali o funebri, vittorie e conquiste. Finanche a sostegno terapeutico, psicologico. Come nella pratica della tarantella, la pizzica, per il tarantismo soprattutto femminile, apparsa nel Sud nel ‘600. L’intelligenza artificiale, pur negli sviluppi sempre più fantasmagorici che sta raggiungendo, non arriverà mai ad apprendere o inventare questi fenomeni, perché non tiene cuore né anima. Da buon diavolo qual sono debbo riconoscerlo, arrossendo. Il robot è in grado di realizzare in un istante ogni alchimia del suono, come il temperamento. Con uno sguardo può  decifrare e memorizzare qualsiasi partitura, trasporla in ogni tonalità, riproducendo senza sporcare una nota anche il pezzo più trascendentale. Ma sempre meccanicamente, senza quel sentimento, quella energia travolgente di suggestioni magiche e voluttà del suono, che fan sentire il ‘pezzo’. Conserviamoci dunque il nostro ‘hortus conclusus’, il  nostro ‘axis mundi’ attorno al quale tutto ruota. Il Bello. La leggerezza con cui l’arte in tutte le sue forme ci incanta. Confucio chiedeva a Dio una casa piena di libri, e un giardino di fiori. Nell’atrofia cerebrale di oggi pochi lo imiterebbero. In questi giorni una tragedia: un ragazzo cui la madre ha tolto il computer si è gettato dal balcone. Un nudge negativo, una falsa luce suggerita da Lucifero.

   ________________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Brocken, Monte Croce

Post n°1009 pubblicato il 17 Luglio 2019 da giuliosforza

 

Post 931

   Heine, Viaggio nello Harz.

   Lo Harz è una modesta catena montuosa della Turingia che ha nel Brocken la sua cima più alta (appena 1141 metri sul livello del mare). Ma enorme l’attonimento panico che suscitò nell’anima di numerosissimi artisti.

   E’ la Turingia-Sassonia quel beato Land (lo fu fino a quando, occupato col resto della Germania est dalla Russia, non si vide distrutto in ogni suo aspetto,  fisico e spirituale -ora a fatica tenta di recuperare la sua verginità violata)  in cui fiorirono, dal 500 alla prima dell’Ottocento, le espressioni più alte della cultura europea e mondiale, teologica, filosofica, poetica, musicale. Cercai, e trovai, a Eisleben, Eisenach, Francoforte sul Meno, Berlino, Weimar, Dresda, Jena, Weissenwels…, alla ricerca delle mie radici culturali, i fantasmi di Lutero Bach Goethe Schiller Hölderlin Novalis Hegel Fichte Schelling Wagner  Nietzsche List…Oggi con l’esule Heine rivisito lo Harz, e mi reinmergo nel sabba delle streghe della faustiana Walpurgisnacht, e nel Wartburg odo le voci dei cantori in gara col wagneriano trovatore Tannhäuser tentato invano daVenere. Chissà se le stesse mie emozioni provò Heine. Ma sicuramente, osservando tutt’intorno dalla torretta dell’albergo che sul Brocken lo ospita, si lascia possedere dall’incanto e dalla magia incomparabili del panorama che s’offre al suo sguardo. Scrive:

   “Mentre discorrevamo, cominciò a imbrunire: L’aria si fece ancor più fredda, il sole inclinava più basso all’orizzonte, e il belvedere si riempì di studenti, di apprendisti artigiani, di rispettabil borghesi con signora e figlie: tutti lì per assistere al tramonto del sole. E’ uno spettacolo sublime che dispone l’animo alla preghiera. Pe ru buon quarto d’ora tutti se ne stettero in piedi, seri e silenziosi, a fissare la palla infuocata del sole che sprofondava lenta a occidente; i volti erano accesi dai raggi rosati del crepuscolo, le mani spontaneamente si congiungevano: era come fossimo una silente comunità nella navata di una cattedrale gigantesca e l’officiante levasse ora il corpo del Signore mentre dall’organo si riversava immortale la music del corale di Palestrina.

   “Mentre ero assorto in tanta devozione, sento accanto a me qualcuno che esclama:  Ma quanto è bella la natura in generale!

   “…Sbrigata questa faccenda me ne andai a passeggiare ancora un po’sul Brocken giacché il buio, lassù, non diventa mai impenetrabile. La nebbia non era fitta e io contemplavo i profili delle colline chiamate ‘ Altare delle streghe’ e ‘Cattedra del diavolo’. Scaricai le mie pistole, ma non mi rispose alcuna eco. A un tratto però udii delle voci note e mi sentii baciare e abbracciare. Erano i miei compagni che avevano lasciato Gottinga quattro giorni dopo di me e si meravigliavano di ritrovarmi tutto solo sul Brocksberg. E ne seguirono racconti, esclamazioni di sorpresa, appuntamenti, e poi risate e rievocazioni  - proprio un allegro rivedersi!”  (pp 125-126).

  A parte Beethoven e Wagner, i più grandi ammiratori del Princeps Musicae, ed Hans Pfitzner che a Palestrina. Leggenda musicale dedicò  un’intera opera lirica agli inizi del Novecento, molto ammirata da Mann, è la quarta volta che sento evocato Pierluigi da Palestrina, e questa volta in maniera inattesa da Heine in una notte fatata sul Brocken. Molto popolare è Palestrina in Germania, e non solo fra i grandi Compositori, ma anche nella cultura popolare. La cosa mi commuove e mi esalta. Anche per me il Prenestino fu da sempre il prediletto, a tal punto che in una mia precedente vita ne volli assumere il nome… d’arte, ed oggi ancora quel nome nostalgicamente mi risuona nell’anima. Stabilisco di riprendere quel nome nella mia vita a venire quando ascolterò le sue Messe a cappella e i suoi madrigali sacri e profani cantati dai cori angelici (ché è il Pierluigi  e non Mozart, cari i miei teologi Karl Barth, Hans Küng, Hans Huns von Balthasar, il direttore della Cappella…Angelica!).

   Anche io ho il mio Brocken, e si chiama Monte Croce (1081 sul livello del mare, terzo dopo il Pellecchia (1369), e Monte Gennaro (1271, altrimenti detto Monte Zappi), del gruppo dei Lucretili, incastonati fra i Sabini, i Simbruini, i Prenestini. Nei mattini nei pomeriggi e nelle notti agostane, non meno magiche delle notti del Brocken e non meno popolose di strigi di fantasmi e di streghe, invocai, con la schiera dei miei giovani compagni d’avventura, OdinoWotan, e all’eco delle nostre voci, risonanti per la amene vallette circostanti, il dio non fu sordo a rispondere. E con lui risposero gli Spiriti dei contadini che fin lassù nei secoli erano saliti a strappare, tra pietra e pietra, alla montagna arida un pugno di terra per la loro manciata di farri, di orzi, di frumenti. Oggi il mio Brocken riposa nella quiete della canicola. E ad esso intorno riposano le vallette in cui Coannegli Crocione Capucollefaina Crocetta ‘e Gregoriu digradano. Non sono bastati i sudori di cui i contadini del mio borgo nei secoli le colmarono. Ancora stanno lì aride, silenziose, misteriose a nutrire di cardurapuli i pochi greggi di Pan ancora ammusanti alle ombre fitte di Colatorre e Vazzimigna.

 _________________        

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

   

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Usignolo, filmini tedeschi, Frainile

Post n°1008 pubblicato il 05 Luglio 2019 da giuliosforza

Post 930

   L’usignolo.

   In questa notte di caldo tropicale, destatomi zuppo di sudore (pericolosissima, alla mia età, la perdita notturna di zuccheri) alle 03 solari, uscito in terrazzo alla ricerca non vana di un minimo di refrigerio,  tra le voci d’uccelli, non rare per ventura da udire ancora in questa zona di residui verdi, m’è parso, solo parso, forse ho  solo immaginato,  riascoltare, fra un orrendo cra cra (cras cras!) di cornacchie del malaugurio e un gentile allegro e vario gorgheggiare di merli, un canto d’usignolo nelle sue centinaia di variazioni. E m’è tornata in mente una notte fatata d’Ischia, ospite di un piccolo capanno in quella parte di bosco che infittisce le falde dell’Epomeo sul  versante  di Forio, in cui vegliai non per calura ma per diletto (intrecciando  corone d’edere per il capo della Regina dei Fiori), in cui, unica volta forse in vita mia, mi estasiai nell’ascolto d’un canto solitario d’usignolo in tutta la sua estensione e durata (dai quattro ai cinque minuti le strofe nelle loro varianti  impossibili da fissare, tali che né Vivaldi né Haendel né Messiaen, che pur vi si provarono,  né Respighi - che nei ‘Pini del Gianicolo’, uno degli episodi de ‘I pini di Roma’, pensò bene di ricorrere ad una registrazione fonografica -vi riuscirono) e in quell’ascolto feci l’alba, un’alba chiara come l’Alba dei Tempi.

   Non ha ragione il Goethe del Mit Goethe dirch das Jahr che in data odierna, nel pensiero dedicato, guarda caso, proprio al Nachtigal, scrive: Die Nachtigal sie war entfernt / Der Frühling lockt sie wieder; / Was Neues hat sie nicht gelernt, / Singt alte liebe Lieder. Era lontano l’usignolo, la primavera di nuovo l’attira; ma qualcosa di nuovo non ha imparato, canta sempre le antiche care canzoni. Ha torto il Francofortese: nulla di sempre più nuovo del canto dell’usignolo, ogni volta più ricco di invenzioni timbriche, alte medie basse come fossero in una sola gola tante gole a compenetrarsi, a gara in invenzioni melodiche ora piane or distese, ora singhiozzanti ora esplodenti in arabeschi vocali dai mille toni e dai mille colori, colori-toni sinesteticamente  con- fusi: toni da trenodia o da epicedio, melanconici od osannanti come in una sinfonia dai molteplici movimenti. Nel canto di un usignolo puoi cogliere una varietà di situazioni sentimentali, gioia e dolore, rimpianto ed attesa, Ahnung o Sehnsucht, a seconda del tuo stato d’animo. E’ cosi che in un canto popolare tedesco dedicato all’usignolo (che la mia raccolta di Deutsche Lieder attribuisce a Hoffmann von Fallersleben, 1844) la semplice melodia (Do Maggiore, 4/4, che in traduzione ritmica sillabica rendo  dore mii misol faa fala sooolfa mii misol fa fa re sol miiii, un tempo di silenzio, dove ogni sillaba nel gruppo unito vale 1/8, croma, da sola1/4, semiminima, o 2/4, minima) esprime una grande serenità in contrasto con la tristezza che le parole evocano: già Maggio è passato, passata è la primavere, tu te ne torni ai tuoi lidi lontani e  malinconia ed amarezza invadono il mio cuore. Nachtigal Nachtigal wie sangst du so schön, sangst du so schön vor allen Vögelein.Wenn du sangest, rief die ganze Welt:Jetzt muss es Frühling sein! Nachtigall Nachtigall, wie drang doch dein Lied, drang doch dein Lied in jedes Herz hinein! Usignolo usignolo, come era bello il tuo canto, più di quello di tutti gli altri uccellini! Quando tu cantavi tutto il mondo invocava: ora dev’essere primavera! Usignolo usignolo, come penetrava il tuo canto nel profondo del cuore! Ma è soprattutto nella seconda e nella terza strofa che un sentimento di rimpianto e di sofferenza predominano sulla gioia, il sentimento del tempo fugace su quello dell’eterno ritorno: Nachtigall, was schweigest du nun, du sangst so kurze Zeit. Warum willste du singen nicht mehr? Das tut mir gar zu leid. Wenn du sangst war mein Herz so voll von Lust und Frühlichkeit. Warum willst du singen nicht mehr? Das tut mir gar zu leid. Wenn der Mai, der liebliche Mai mit seinen Blumen flieht, ist so mir so eigen ums Herz, weiss nicht , wie mir geschieht. Wollt ich singen auch, ich könnt es nicht, mir gelingt kein einzig Lied. Ja es ist mir so eigen ums Herz, weiss nicht, wie mir geschieht. Usignolo, perché ora taci? Cantasti così poco tempo. Perché non volesti cantare più? Quando tu cantavi , il mio cuore era così pieno di serenità e di gioia. Questo mi fa molto soffrire. Quando Maggio, il caro Maggio, coi suoi fiori se ne vola via, mi sento così strano dentro, non so che cosa mi succede. Volevo cantare anche io, ma non potevo, non mi riusciva nessuna canzone. Sì, ho attorno al cuore uno strano sentimento, non so cosa mi succede.

   Noi mediterranei siamo fortunati: il canto dell’usignolo ci allieterà fino alla fine di Agosto. Nel passaggio dal Leone alla Vergine trapasserà anche il nostro sentimento alle autunnali malinconie.

 *

   Da qualche tempo il canale tv 55 Cine Sony trasmette di prima mattina e lungo il giorno una serie di film di produzione  tedesca ambientati anche nei riposanti paesaggi scandinavi limitrofi. Si tratta per lo più di semplici storie d’amore, cui fanno da cornice panorami paradisiaci, verdi foreste, laghi trasparenti, lussureggianti giardini, azzurrissimi cieli e azzurrissimi mari. Il colore predominante delle cose è quello che sfuma in pastello, le turbolenze interiori ed esteriori non sono mai devastanti, l’amore trionfa sempre e con esso il bene. Il critico trinariciuto ne riderà. Io, che non sopporto le truculenti serie di gialli, polizieschi, di guerra, di tribunali, d’ospedali, di mafia e malaffari consimili che infestano tutti gli schermi ad ogni ora del giorno e della notte, me li guardo con piacere e  riposo mente e corpo. Per gli stessi motivi guardo ogni tanto la serie bavarese “Tempesta d’amore”, ambientata nell’albergo Fürstenhoff, dove più che le vicende degli uomini sono gli impareggiabili panorami a predominare, una Natura incontaminata, per la cui celebrazione sembrerebbe siano state in realtà le trame leggiadre pensate.  Oppure mi godo antichi film per lo più  in bianco e nero, italiani ( ci fu un tempo in cui anche il nostro cinema fu vivo) e francesi, oltre i soliti Stanlio e Ollio e Charlie Chaplin. Poco fa ho rivisto ‘Nonna Sabella’, con Tina  Pica, ed ho riso a crepapelle. Ma c’à stato anche spazio per la commozione.

*

   Ho lasciato finalmente l’inferno di Roma, e m’ha nuovamente il fresco del Frainile. Prima ancora che la prima luce sorgesse dalle montagne d’Abruzzo, la A24, a quell’ora quasi solitaria, m’aveva (bramosa di me come io di lei: ho già detto dello strano fenomeno che in talune circostanze mi fa vedere la via muoversi verso di me, quasi desiderosa di inghiottirmi) mi accoglieva felice di riavermi, dopo tanto tempo, gioioso nell’abitacolo della fedele Saxo, antica quasi quanto me, come mai dinamica e sciolta sull’asfalto in procinto di ribollire. Un felice percorso a corsia unica a causa di lavori in atto in quasi ognuno dei  cinquanta km di percorrenza. Fossi uscito un’ora dopo, sarei forse ancora imbottigliato nel traffico. Al Frainile trovo uno splendore di verdi e di colori di rose e di ortensie. I noci vigilano, verdissimi anch’essi. Sembra proprio che al Frainile ci si infischi della canicola.

   ________________

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963