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Messaggi di Agosto 2019

In memoria di Luigi Volpicelli

Post n°1014 pubblicato il 16 Agosto 2019 da giuliosforza

 

Post 935

   Della stessa autrice di cui segnalai la monografia dedicata ad Armando Armando mi risulta essere un altro notevole studio, pubblicato anch’esso da Anicia, il cui oggetto è lo studioso e l’uomo Luigi Volpicelli, colui che per me fu ben più che un  maestro: fu di fatti all’origine delle mie scelte culturali ed umane, della mia conclamata ‘riconversione’ all’immanenza e della mia modesta carriera. Mi chiedo come non sia venuto a mente al  suo figliolo prof.  Ignazio  (del quale l’Autrice è stata collaboratrice) che ben conosce i rapporti strettissimi che a sua padre mi legarono e mi legano, di consigliare a costei di prendere contatto  con me (oltretutto l’unico dei ‘discepoli’ ancora vivente, che ha la presunzione, parcant di, di non ritenersi colui che gli ha reso meno fedele testimonianza e, nella vita e nell’opera, minor onore) che  le avrei potuto mettere a disposizione i molti ricordi originali e significativi in mio possesso.

   La sua morte fu per me una gravissima perdita, come quella di un padre. E questo a caldo scrissi e pubblicai   in quella triste occasione:

    «”Die Mänlein, Weiblein, traurige Gesellen  / sie tun wie arme Puppen vor dem Tod.

   Omini, donnette, triste compagnia / si muovono come miseri fantocci davanti alla morte”.

   Sono immerso nello ‘sfinimento’, nella ‘putrescenza’, nello ‘sfacimento’ trakliani alle 17 di questo 17 Giugno quando mi annunciano la tua morte. Mai ferale notizia trovò stato d’animo più preparato. Io già so della tua dipartita. Un totale malessere dell’essere me ne preavvisa.

   Corro all’Ars medica da te. Sei là sciatto come non fosti mai (grigia anche la cravatta: non una delle tue smaglianti cravatte), le mani sul petto, ma il solito sorriso birbone sulle labbra: un ammiccamento alla morte: “Nella penombra della stanza spoglia “tracci con stanca mano un ghignante silenzio alla parete / dormiente sussurri nel sonno”. Mi sussurri  le parole ora dolci, ora dure, or facete, ora irose che da trenta anni, Vecchio, mi moduli, mi dici, mi gridi. Ascolto. Ricordo.

   Ricordo un remoto 1956. In un pubblico concorso mi si chiede di consigliare dei libri di lettura a un adolescente. Io dispongo di molta paccottiglia da oratorio (che non dispiace al buon Bongioanni, se supero con lode la prova) e cito, giustificandone con ottime argomentazioni la scelta, i romanzi di Luigi…Volpicelli, un nome che non so per quale caso mi è nelle orecchie. Volpicelli sta per Ugolini. Quando in seguito te lo narrerò, poco mancherà non mi bastoni.

   Ricordo un remoto 1958. Al termine di un appassionato esame di pedagogia (‘Sommariogentiliano, biblioteca di Pedagogia alle Terme, tu in maniche di camicia sbuffante per la calura, io madido di sudore, oltretutto, per l’emozione) sbotti: “ma che vai girando mascherato a codesto modo? Fuori la faccia!”.

   Ricordo la tua prima lettera. Sono a Genova travagliato da problemi metafisici. Tu che i miei problemi hai intuito, mai per la verità irridendoli, solo qualche volta  celiandovi attorno, mi parli con paterna partecipazione e concludi, lapidariamente: “È questo il tempo dell’immanenza. È questo il tempo della costruzione di Dio mediante il nostro storico impegno”. Inauguri così la mia nuova stagione, gentiliana e rilkiana, imprimendole il tuo marchio e il marchio dei tuoi Maestri. Tu ami i tuoi maestri, vivi i tuoi maestri. Sei attualista in…atto, testimonianza vivente della dottrina: attualista la tua curiosità intellettuale, attualista la tua attenzione al farsi storico dell’uomo, attualista il tuo critico dominio del tempo, attualista il gusto della vita in ogni suo aspetto, attualista la tua spirituale giovinezza, attualista la tua capacità di discernimento della stipa dai sempreverdi, attualista l’ironico distacco, attualista il gusto della parola, attualistica la sensibilità estetica, attualista la sensibilità ‘religiosa’ come senso universale delle cose e degli uomini che la loro precarietà unificando redime, e nell’unità delle Spirito esalta e sublima. Tu, alieno dal vizio teoretico, riuscirai a far calare nella realtà un che da quel vizio è segnato, e consunto, come da tabe originaria.

   Ricordo…

   Quanto ti faccio soffrire. Eppure mi ami e mi rispetti. Mi ami e mi rispetti per quel mio essere schivo, per quel mio essere incapace di servilismi, per la mia indipendenza di giudizio, per la mia ‘ribaldaria’, per quella testarda difesa della mia libertà da tutto e da tutti. Sei magnanimo, tollerante, umano. Mi ami perché sai che nella mia ribellione (che è l’anima stessa della dottrina: lo spirito non può mai ripetersi) ti sono ostinatamente fedele. Non rinnego la tua eredità, non vendo la tua eredità per il piatto di lenticchie delle mode pedagogiche. Per questo mi ami, ed il tuo affetto si intensifica col tempo. Fustighi la mia presunzione, stimoli la mia pigrizia, mortifichi la mia ipocondria. Severo e paziente, come un padre.

   Quanti ricordi, Vecchio. Te li dedico ora che continui a sorridere dal tuo cataletto alla mia fragilità ai miei tormenti alle mie esaltazioni ai miei sogni. Lasciati carezzare la fronte gelida. Ricordi questi ultimi nostri mesi? Ricordi il nostroPinocchio’ veronese?. Per esso abbiamo passato indimenticabili giorni (gli ultimi tuoi giorni) nel Veneto, abbiamo bevuto grappa alla taverna del Ponte, abbiamo brindato ai fanti nella trattoria sotto il Monte. Le foto di quei giorni, le ultime della tua vita, ti ritraggono più giovanile che mai. La stessa giovinezza offri alle studentesse incantate (sei venuto a concludere il mio corso di educazione estetica, rivarcando dopo anni le porte della tua università. Chiudi affermando, ed io t’abbraccerei: “La comunicazione è un fatto spirituale. Solo due Spiriti possono comunicare”. Un testamento. La sera, all’Eden Cassiano di Tivoli, sei in forma splendida. Affermi da star mangiando il più buon pesce della tua vita. All’una di notte di quel 30 Maggio congedandoti mi dai l’ultimo consiglio: non fumare tanto, serbati a te stesso ed alle tue figlie. Ci proverò, anche per serbarmi alla tua memoria.

   S’è fatto buio nella stanza del sottosuolo. Quasi non ti vedo più. Risate irriverenti, voci estranee e indifferenti  dai corridoi. Voci sacrileghe. Tu continui, birbone, a sorridere. Nemmeno la tenebra riesce a spegnere il tuo malizioso sorriso. Ciao, Vecchio. Vado tra la gente. ”Irreale m’appare la ridda dei viventi e stranamente dispersa nel vento serale”.

   Settembre. Sono ora tre mesi che riposi nella tua Scanno. Ascolto la Messa da Requiem di Mozart e te la dedico. Hanno scritto in parecchi di te, ma non tutto ti piacerebbe. Io ti darò nuove di me e del mondo. Continuerò ad apprender da te il gusto della vita, il senso della morte. Ciao, Vecchio. E’ autunno qui. “Oh, le rosse ore serali! / Baluginante oscilla alla finestra aperta / la vite confusamente all’azzurro intrecciata / dentro nidificano i fantasmi dell’ansia”.

   Ciao, Vecchio. È autunno qui. Migran gli dei. Restano, sempre più numerosi, i re. E tu sai che dannata anima d’anarchico alberga nel mio petto».

________________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

  

  

  

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

  

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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"Ce l'ho con l'Ilaria". Sagre al Borgo

Post n°1012 pubblicato il 12 Agosto 2019 da giuliosforza

 

Post 934

    Il 9 luglio 1981 pubblicai su «L’Italia del popolo», e poi ripresi nel volume Studi Variazioni Divagazioni (Bulzoni, Roma, 1986, pp. 317 e segg.), un breve articolo dal titolo “Ce l’ho con l’Ilaria”. L’Ilaria in questione era la bella e brava attrice fiorentina  Ilaria Occhini, nipote prediletta di Giovanni Papini, andata sposa al noto scrittore napoletano Raffaele La Capria, e recentemente scomparsa. Ripubblicando qui l’articolo intendo onorare la sua memoria in maniera un po’ diversa, insolita per un necrologio. Ma criticando un episodio di cui fu protagonista, dal quale per altro implicitamente emergono la mia stima e il mio affetto per il suo  personaggio e quello del grande Avo, credo di compiere una azione eticamente corretta. Oggi probabilmente attenuerei il tono del mio intervento ma non la sostanza. Alla  sua indiscussa grandezza non gioverebbe una  palinodia.

    «Intorno agli anni Sessanta insegnavo filosofia in un Liceo della Capitale. Un liceo dal nome pomposo, se non glorioso, che ammassava, nelle sue stipatissime aule, il più variegato gregge borghese in cui mi sia stato dato di imbattermi: rampolli di villani male inciviliti resi boriosi dal facile quattrino, di benpensanti illusi di salvaguardare per la prole in una scuola confessionale fede e costumi aviti, di politici di ogni colore, di finanzieri, di professionisti illustri o solo contingentemente egregi (ex grege emergenti come suol dirsi, per corna o per campana; per compiacenza sempre o per ordine dei superiori): un materiale umano composito, da amare svisceratamente (non ero, come non sono, di quelli che fan pesare sui figli le colpe di padri), da curare con diligenza perché in grado, in un avvenire che sarebbe comunque loro appartenuto, di operare positivamente in situazioni socialmente privilegiate. A quei giovani io giovane inquieto regalai un Circolo culturale intitolato a Giovanni Papini: un Uomo cui dovevo il meglio della mia formazione, messo allora al bando dalla cultura ufficiale, rappresentata in buona parte da personaggi a suo tempo frustati e stroncati dall’implacabile Gianfalco. L’intitolazione del Circolo al Fiorentino voleva essere, è facile intuirlo, una provocazione, una pubblica dichiarazione di anticonformismo, un giovanile insulto alla prassi del volgare asservimento che non avrebbero dovuto dispiacere ad una giovane come Ilaria Occhini, nepote del grande Vecchio che l’amava, lo testimonia ogni passo del Diario, di un amore sconfinato e riponeva in essa tutte le sue speranze (“Mi resta solo l’Ilaria”).

   Scrissi all’Ilaria per interessarla alle nostre attività. Avevo già avuto il concreto incoraggiamento (le cui prove gelosamente custodisco nel mio archivio, insieme alla foto che mi vede chino sulla tomba di Giovanni al cimitero delle Porte sante, prima tappa del mio viaggio di nozze: la donna che me la scattò, e che doveva diventare la madre  della Beatrice, della Laura e della Fiammetta, subì allora la mia prima imperdonabile violenza, la prima di una serie ignobile che l’avrebbero giustamente sospinta a cercar poi la sua pace lungi dai cemeterii) avevo già avuto, dicevo, l’incoraggiamento di Piero Bargellini ( e per suo tramite della signora Giacinta), di Giuseppe Prezzolini, di Vasco Pratolini, di Vintila Horia appena frodato del ‘Concourt’, di Thomas Merton, reduce dalla fatiche de La Montagna dalle sette balze. Ma l’Ilaria, Lei,  non rispose. Era allora impegnata a costruirsi, a rifinire i suoi stupendi tratti; forgiava la sua complessa immagine privata in procinto di divenir, per la gioia di noi tutti, pubblica. Non rispose. Io pensai male, ma indubbiamente mal pensai: perché, mi chiedevo, una Ilaria, papiniana progenie, deve essere insensibile agli sforzi di un giovane professore che tenta nel nome di Papini di dilatare gli angusti spazi della scuola onde essa non sia, come la rilkiana gloria, quella “demolizione pubblica di un essere in divenire, nel cui cantiere penetra la folla per rubargli le pietre” (I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti 1974, p. 62) che purtroppo è? Che le risulti, ora, scomoda la figura dell’Avo? Altre cose pensai e malamente pensai. Perché l’Ilaria non rispose agli ammiccamenti semplicemente perché Ilaria, e non Gertrude, e non sventurata.

   Passò qualche anno e salii in Cattedra, una cattedrina alla Sapienza, vieppiù alimentai nonostante gli smacchi fottuti i miei sogni di gloria, iniziai a scrivere sui giornali, e per un grande giornale sulla via del tramonto (avrebbe di lì a poco chiuso: iellato io o iettatore?) concepii un pezzo che avrebbe dovuto essere l’ultimo della mia collaborazione: Papini e i giovani. Ribussai, testardo, da Ilaria. Le scrissi una lettera che era una lettera d’amore. Le dissi tutto quello che pensavo di lei e di suo Nonno, la supplicai, piansi, la scongiurai: m’inviasse una testimonianza tratta dai suoi certo innumeri ricordi perché io potessi fare non dico uno scoop, semplicemente un elzeviro fresco, originale, scoppiettante, ricco di amabili sfottimenti, come quello che una volta il Nonno le aveva dettato in occasione di una visita del giovane Carlo Bo (cito a mente: Bo nato e sorto non sappiamo come – ha l’ingegno più corto del cognome). Ma l’Ilaria ancora una volta fu sorda alle mie invocazioni. O gelosa dei suoi ricordi, o obbligata a tacere da chi teneva ambo le chiavi del suo cuore, o inumana: ipotesi di cui solo la prima per cotanta Nepote era possibile. Che semplicemente le mie invocazioni (poste allora disumane!) non le fossero giunte?.

   Sta di fatto che l’Ilaria troppo a lungo (forse non sollecitata da ben altri che da me) ha continuato a tacere. Nel frattempo è stato degnamente celebrato il centenario papiniano, molti dei frustati e degli stroncati sono usciti di scena, sono iniziate le revisioni critiche eccetera eccetera, i mass-media (fremete ossa giovannee) si sono accorti di Lui, i Sopravvissuti gli han reso giustizia. E finalmente l’Ilria ha parlato. Ignoro chi sia il fortunato, potente sul di lei cuore e sulla di lei riservatezza, che è riuscito a carpirle i più cari segreti. Sul quinto numero di “Prospettive libri” escono Lettere inedite di Giovanni Papini alla nipote Ilaria Occhini, con interventi di Francesco Mercadante, Giuseppe Prezzolini, Sergio Quinzio, Anna Maria Greco. È Un evento da salutare con gioia. No ho avuto ancor modo di leggerle, ma non è difficile immaginare contenuto e stile. L’ultimo Papini  miracolosamente sopravvissuto al totale disfacimento del suo corpo, da esse penso emerga in tutta la sua tragica umanità, affinata dalla sofferenza, liberata delle incrostazioni scostanti del titanismo iconoclastico che a troppi dispiacque, grandissima umanità delle Schegge. La mia speranza è che le lettere non abbian subito altre censure, totali o parziali, che non sian quelle dovute al rispetto del privato, e che rappresentino solo il prologo di una più vasta rivelazione dell’anima papiniana a tutti, in primo luogo a quanti, con me, avvertono di appartenere al numero di quei fedeli sconosciuti che egli sentiva di amare di un amore puntuale e personale, per una sorta di miracolo che solo l’amore, per l’appunto, sa fare. È bene che l’Ilaria continui ad aprirci il suo cuore e a ridarci Lui senza riserve: Egli appartiene anche a noi. Solo a questa condizione smetterò di avercela con l’Ilaria».

 Da 23 giorni la figlia di Barna Occhini e di Gioconda Papini ha raggiunto i suoi cari. Sia festa per Essi in Cielo.

 

*

   Dopo la rumorosa sagra degli gnocchi al sugo di pecora (uno dei più trucidi e barbari riti tramandatici dalla … “civiltà” contadina) il mio borgo s’appresta ad osannare la Vergine  Illuminata, con celebrazioni  anch’esse rimaste incorrotte da secoli: fiaccolata di vari chilometri dal santuario campestre alla Chiesa parrocchiale, processione nei due giorni seguenti con statue di santi protettori e comprotettori, botti e suoni e canti sguaiati che  mantengono quel tanto di dionisiaco (quel tutto per la verità, l’apollineo non abitando da secoli queste lande, di cultura infeconde). Io sono solito per lo più trascorrere questi giorni di giubilo paesano in solitudine nel mio eremo (ma per anni ho dato il mio contributo sottolineando, spero nobilitando, col mio coro polifonico i momenti liturgici)  o in un Grand Tour al contrario per le strade di Francia o di Germania. Ma ovunque mi trovi sempre il mio pensiero, sovente irriverente (misereor super turbam)  per troppo amore, ed il mio sentimento accompagnano le folle, pellegrinanti con più o meno sincera e profonda fede dietro l’immagine dell’Iside cristiana per le vie tribolate del borgo offrendo all’Illuminata le loro pene e le loro speranze. Non ho fede, ma comprendo la fede. Il Nolano e il Francofortese mi hanno educato al suo rispetto, e sempre di più sono con essi convinto darsi una fede del dotto ed una dell’”ignorante”: Wer Wissenschaft  und Kunst besitzt, der hat auch Religion. Wer jede beide nicht besitzt, der habe Religion. Chi possiede scienza ed arte ha già la sua religione. Chi nessuna delle due possiede costui abbia la Religione. Imperativo categorico.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

   

 

 

 
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il 33 nella mia vita. Pierluigi il Palestrina. "Filosofi a Luci rosse". "Armando Amando"

Post n°1011 pubblicato il 01 Agosto 2019 da giuliosforza

 

Post 933

    Questo, il 933°,  dovrebbe essere un post speciale. Il 33, anni di Cristo, i suoi multipli, o i numeri il 33 in qualche modo includenti, furono in vita mia i numeri ricorrenti. Nel 1933 nacqui, il 133 fu il mio numero di matricola in collegio, parimenti poi in caserma a San Giorgio a Cremano, sede della scuola Trasmissioni dell’Esercito, all’epoca del  mio servizio militare (ero stato rifiutato, in quanto…filosofo  - sic, ‘che ce ne facciamo di un filosofo?’, se n’era uscito un colonnello - al corso allievi ufficiali di complemento, e avevo dovuto così contentarmi d’essere  sergente, una delle…   signorine dell’esercito”, come  si era soliti sfotterci. Ma di quel mortificante periodo  credo di aver già molto a lungo scritto). Abitai per oltre 20 anni al numero 133 di Via Francesco d’Ovidio a Roma. Tra i miei numerosi occhiali il preferito fu ed è il pince-nez d’oro appartenuto ad un 33 della massoneria palermitana, un medico dell’800. E le Triadi, quella sacra prima, quella profana hegeliana poi, furono per molti anni, fino allo shock marceliano-nicciano, il punto centrale di riferimento della mia formazione teologico-filosofica. E tre le figlie, tre i nipoti… E dovessi contare le mie, per altro pochissime - non certo le …1003, solo di Spagna, di Don Giovanni - raggiungerebbero al massimo le 3x3. Avrebbe tutti i motivi, questo post, di essere speciale. Ma speciale  non sarà.  Ho deciso di attendere il 999°, il 333x3!

 *

   Più volte, anche recentemente, ho scritto in queste mie note di Pierluigi “il Palestrina”, e della venerazione  che Wagner e Beethoven per lui nutrivano. Ora mi scopro davanti un poster, (uno dei tanti, per lo più di carattere musicale, che tappezzano le pareti della mia bicocca, memoria dei miei vagabondari per i musei di Germania, Inghilterra, Austria, Ungheria Francia, i miei luoghi dell’anima) che reclamizza uno studio di Luigi Bandiera, apparso a cura del Centro Studi Palestriniani, e che in terza di copertina cita Wagner e D’Annunzio, senza precisazione di fonti, ma della cui autenticità sono assolutamente certo. Wagner: “I capolavori del tutto incomparabili della musica del Palestrina producono un effetto che commuove così prodigiosamente il cuore fino nelle più intime fibre, che assolutamente non lo si può paragonare ad alcun altro effetto di qualsiasi altra arte… Palestrina è il fiore e la perfezione della Musica”. Immagino la citazione sia tratta dal Mein Leben, che copre gli anni 1813-1864.. E D’Annunzio (immagino dal Notturno): “Più volte parlai della necessità si spandere sopra le moltitudini la voce del Palestrina e di proporre al culto della Nazione la musica corale di Colui che io eguaglio a Dante e a Michelangelo. La sua musica - come ogni potenza infinita - s’irradia nel passato e nel futuro”…

   Onore eterno al Princeps Musicae.

 *

   Agli inizi degli anni Settanta la Casa Editrice-Libreria Armando Armando aveva la sua sede (era ancor giovane di fondazione) in un angusto scantinato, stipatissimo di libri, di Via della Gensola (poco più di un modesto largo in realtà cui si accedeva attraverso una breve scalinata che scendeva dalla riva destra del lungotevere, nel tratto compreso tra Ponte Garibaldi e Ponte Sublicio che dà accesso all’Isola Tiberina. L’aveva fondata nel 1950 una simpatica figura di intellettuale “liberale”, già direttore didattico, un omone che dalla durezza e dalla dolcezza insieme dei suoi tratti mi dava l’idea d’un rude valligiano alpino per caso calato ai lidi romani. Per lui io, giovane squattrinato, tradussi, per un compenso per la verità irrisorio,  parecchi libri dal francese, ma la circostanza mi diede l’opportunità di frequentare molti intellettuali dell’ambito pedagogico, da quello storico a quello didattico, psicologico, sociologico, linguistico: da Volpicelli a Valitutti, da Titone a Laeng, da Antiseri a Plebe  a Giovanni Bollea, fondatore della Neuropsichiatria infantile,  morto nel 2011 a 98 anni, e a tanti altri. Ora leggo che presso l’editrice Anicia, la vera erede dell’Armando Armando nello spirito e negli intenti, una giovane collaboratrice di Ignazio, figlio di Luigi, Volpicelli, Elena Zilioli, ne ha pubblicato una biografia che così leggo  presentata in rete, dopo averne chiesto notizie a Mauro Bellisomo (il quale si è dispiaciuto di non aver consigliato alla Zilioli di contattarmi in fase di ricerca: avrei potuto metterle a disposizioni del materiale epistolare interessante per la sua monografia armandiana ma anche  per l’altra volpicelliana che mi risulta ella aver pubblicato in vista del suo concorso d’associata a Roma Tre), attuale gestore della  Anicia.

 

   «“Non ho bisogno di diventare professore universitario. Io i professori universitari li creo”. Così provocatoriamente affermava Armando Armando, il quale provava l’orgoglio di essere riuscito, con un’editoria di qualità, a formare docenti di ogni ordine e grado, mediante la sua opera e i suoi libri. Molti insegnanti e studiosi, con la lettura dei suoi testi, o scrivendo per la sua casa editrice, hanno potuto affrontare con professionalità il quotidiano scolastico e i concorsi per l’immissione in ruolo, ed ambire e conquistare una cattedra universitaria. Armando Armando ha spaziato, dagli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, nel campo delle scienze umane, dalla pedagogia alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia, dall’economia al diritto, dalla filosofia alla medicina. Figura complessa e singolare di editore, battagliero ed infaticabile promotore della omonima casa editrice romana, viene ricordato in queste pagine attraverso l’attenta ricostruzione del suo itinerario culturale. “Il libro che va sempre” è stato il criterio costante della sua editoria. Millecinquecento titoli in 25 anni, mai un bilancio passivo, mai un prestito, mai un appoggio di centri di potere. Molti i best seller da 50.000 copie in su. Dodici, tredici e più edizioni per alcuni titoli. Il suo catalogo, composto da trenta collane e completo di uno schedario bibliografico definito Enciclopedia aperta, con 2568 voci e 5260 sotto voci, ha ospitato gli esiti culturali più diversi, di autori italiani e stranieri. Un’opera straordinaria ed attuale, oltre le ideologie e i confini territoriali”».

    Per quanto ne ricordo io, che con Armando fui spesso in rapporto dialettico, ma che fui da lui generosamente aiutato all’epoca del mio tardivo servizio militare (mi presentò, attraverso Alberto Consiglio, all’allora direttore del Mattino per qualche collaborazione e mi anticipò delle minime somme “in acconto di lavori futuri”) l’opera dovrebbe dare del personaggio una fedele rappresentazione, e m’affretterò a leggerla. L’attuale responsabile dell’Anicia Mauro, all’epoca zelante factotum della casa editrice, me ne assicura.

    P.S….erotico

   Tra i giovani studiosi che conobbi in via della Gensola uno ve ne fu che, ormai pensionato anche lui dell’Università di Messina, mi fa simpatica compagnia in questi giorni di complicata villeggiatura sui monti Lucretili al cospetto del maestoso Velino. Si tratta di Pietro Emanuele, già assistente di Armando Plebe (il discusso filosofo impegnato in politica, variamente  oscillante tra posizioni di destra di sinistra e di centro) che lo introdusse in carriera. Sto leggendo un suo libricino stampato anni orsono dalla TEA: Filosofi a luci rosse. La filosofia, l’universo dei punti di vista, guardata da un punto di vista inedito: il sesso. L’informazione non manca e nemmeno la documentazione. Ma troppi i grandi assenti (Cartesio, Spinoza, Leibniz, Hegel, Fichte, Schelling, Novalis - tutti asessuati?- e tutti i moderni e contemporanei) e la mia …curiosità resta inappagata. Imperversano naturalmente psicologi e psicanalisti, fatti assurgere o degradati, a seconda

dei punti di vista, al rango di filosofi. Non tutto nel libretto è da ridere e molto c’è da divertirsi. In quarta di copertina troverete una efficace sintesi: Socrate intimo. Masturbazioni ciniche. Le verità eroica di Eloisa. Voltaire e i panini del profeta. Un precursore di de Sade: Sant’Ignazio. Le disavventure erotiche di Rousseau. Non manca un simpatico Congedo casto che mi piace riprodurre in attesa del mio …casto, sic, desinare, perché puro di desideri …carnali (sto tardivamente diventando vegetariano):

   «Questo libro si conclude con un pensatore, Nozick, che ha avuto un approccio maldestro alla sessualità. Questa conclusione può essere emblematica, Se un filosofo affronta il mondo degli istinti come un capitolo di routine della sua teoria, uccide quel mondo e rischia di screditarsi. Se Cartesio, accanto alle Meditazioni metafisiche, avesse scritto delle Meditazioni sul sesso, ci avrebbe lasciato un’opera debole scientificamente e umanamente ridicola,

   «Allora il sesso dovrebbe essere bandito dalla filosofia? Questo libro ha cercato di dimostrare il contrario. Ma un filosofo intelligente deve avvicinarsi a esso a luci soffuse, non sotto i bagliori di un riflettore. La trasgressione, il senso del peccato, quello della vergogna sono tratti essenziali della sfera della sessualità.

   «Il sesso analizzato e spiegato perde il suo fascino. Diventa o ridicolo o di cattivo gusto. I suoi nemici peggiori sono la pretesa di pianificarlo e la sua esibizione linguistica. Da sempre l’habitat naturale del sesso è la penombra, Ma che meglio della filosofia si può muovere nella penombra? Ecco perché non avrebbe avuto senso un libro dedicato ai bancari o ai vigili urbani a luci rosse. Costoro hanno familiarità con cose che stanno alla luce del sole, come le banconote o i monocicli.

 I filosofi che sanno parlare di sesso mantenendone l’alone di mistero difficilmente sono noiosi. Ma ancor più interessanti sono quando non si limitano alla teoria, ma lo vivono in prima persona. Può spingerli l’istinto o la curiosità, spesso entrambe le cose. L’istinto spingeva il Socrate intimo, la curiosità Luciano; l’uno e l’altro stimolavano Nietzsche.

   «Il sesso non ha il monopolio della trasgressione; la condivide perlomeno con l’empietà religiosa, sia perché questa è stata a lungo perseguitata sia perché è malvista dal senso comune. Quando poi l’empietà si congiunge con la trasgressione sessuale, come avviene in Sade e in Joyce, il risultato è esplosivo.

 «Ho la sensazione d’essere riuscito a non essere volgare, nonostante la scabrosità degli argomenti. Certo, il linguaggio non poteva essere esente da espressioni poco timorate. Dovrei pentirmene? Come dice Marziale, mi scuserei del linguaggio osceno se l’avessi introdotto io: «lascivam verborum veritatem excussarem si meum esset exemplum» (Epigrammi I, 1). Ma se, quando Rousseau dice «per non sembrar troppo coglione», io avessi epurato scrivendo «per non sembrar troppo testicolo», sarei stato ancor più osceno. Se la cinica sentenza del sadiano Dolmancé per cui «Dio non si è mai interessato alla sorti di un culo» l’avessi resa con «Dio non si è mai interessato alle orti dei glutei», sarebbe svanito l’effetto della battuta.

   Non mi preoccupo che questo libro venga considerato immorale, perché non mi ritengo vincolato ad alcuna morale tradizionale. Mi dispiacerebbe soltanto se il lettore lo trovasse mal scritto. Come diceva Oscar Wilde, i libri on si dividono in morali e immorali, ma in libri scritti bene e in libri scritti male. Come ho detto nel prologo, mi sono proposto soprattutto di divertire. Io mi sono divertito, spero anche i lettori».

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  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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