Dopo 70 anni torna in Cattedrale
A luminarie spente
Viaggi e guarigioni
Uniti nella grazia, profughi tra gli uomini, muti nell’attesa. È l’arcangelo Raffaele, con Tobiolo: pellegrini sbandati in una discarica di campagna, gemme incastonate in una cloaca.
Saverio Sciancalepore li intravede tra gli effetti della civiltà: grazie al suo occhio attento, il gruppo scultoreo viene sottratto al disfacimento definitivo. Passano gli anni, mi confida della preziosa reliquia – era il 1997. La osserviamo. Facile l’indagine, facile l’identikit: il piccolo relitto era uno dei simulacri del 9 maggio. Ciò che è accaduto dal giorno della sua scomparsa a quello del miracoloso ritrovamento non è dato sapere.
Con gesto encomiabile, Saverio dona i due reietti alla loro antica dimora – la Cattedrale - regalandoci un pezzo del nostro passato. La generosità di don Gioacchino farà il resto, accogliendoli come legittimi inquilini. Dopo l’ultima discesa, con dignità ritrovata gli esuli risalgono la scalinata familiare della chiesa madre, a luminarie spente.
Per più di cent’anni la coppia biblica aveva percorso agilmente le vie della festa patronale. Dopo un secolo di residenza consacrata, giunse l’intimo di sfratto per logorio e fuorimoda. Arrivano i decenni 50/60 del Novecento, tutto si ammoderna: i canoni della bellezza vengono dettati dal mondo reclamizzato. Di lì a poco, TV e pubblicità avrebbero deciso la sorte dei tempi, bussole del gusto e del disgusto – la bulimia sarà la stella polare del web totalitario.
L’effetto disumanizzante dell’idolatria tecnologica non è recente, ha già alle spalle vittime illustri: l’efficacia dei sensi e la sapienza delle mani. La civiltà della macchina seppellirà l’artigianato nei musei - si cerca di riesumarlo con l’hobbistica artistoide. Delitti perfetti, archiviati per necessità.
Anche i luoghi sacri si sottomettono alle nuove tendenze e Vieste, insieme a tantissime diocesi, non può che sostenere il crimine fatuo. Le chiese si liberano del superfluo, di anticaglie e obsolescenze secolari, racchiuse tra un romanico e un barocco desacralizzati a diletto culturale. Organi a mantice, compresi di canne e ante decorate; pulpiti di legno e altari marmorei; dipinti e statue di santi, sconosciuti e venerati. Dati via, gettati o bruciati. Un’iconoclastia casereccia era in atto e non fu certo la prima. Rammentiamo un episodio locale, di levatura controriformista: lo smantellamento delle cinquecentesche “tavole indorate” della Cattedrale, voluto dal vescovo Kreiter nel 1699. Si trattava sicuramente dei dipinti delle botteghe croate, profumi di Bisanzio - queste sì perdite sciagurate. Per una bizzarra fusione stilistica, l’unica traccia di quei pregevoli arredi è ancora visibile nel lunotto ogivale – totalmente contraffatto – assemblato alla pala del Rosario (stridente l’estraneità dei due corpi pittorici, un dettaglio del tutto ignorato).
Meno estremisti, i favolosi anni ’60 modernizzano l’agorà mariana con statue alla moda, di serie. Insieme a Raffaele e Tobiolo, fu eliminato il piccolo San Michele. Per forza maggiore fu sostituito anche un San Giorgio stramazzato a terra. Fra le cause delle espulsioni angeliche, oltre al pessimo stato di conservazione, senz’altro le ridotte dimensioni delle sculture: troppo piccole per la parata. I due arcangeli vennero rimpiazzati dalle statue attuali – più grandi e funzionali, ma non affatto più belle.
Ci sembra doveroso riscattare “l’artigiano” della nostra scultura, gioiellino dell’ottocento napoletano. L’opera, seppur aggiornata con timido gusto classicheggiante, è visibilmente legata ai modi del tardobarocco settecentesco. Il minuto gruppo scultoreo è tra i migliori manufatti del nostro patrimonio artistico. L’autore è ignoto, ma è lecito pensare ad un nome o a una bottega autorevoli: tra i papabili ci sono Francesco Salzano (allievo del Citarelli), e i fratelli Verzella - panneggi e posture fanno propendere per quest’ultimi, precisamente per Francesco. È facile disperdersi nell’uniformità e nella ripetizione delle opere di mestiere; speriamo in ritrovamenti di vecchie pergamene di storia patria, con annesse notizie sulla committenza e l’origine del culto. La graziosa scultura lignea fa parte di quella fioritura di opere - poche e uniche - dovuta allo zelo di qualche illuminato pastore di anime o di esigenti confraternite. Alcuni decenni di antico gusto bastano per il vanto cittadino, un fugace moto d’orgoglio per un’isolata costellazione d’arte (poche opere brillano di luce propria nel cielo viestano).
Giunti in Cattedrale, lasciamo il bel Tobiolo presepiale al suo spavento ittico, e facciamoci ispirare dall’arcangelo verso i voli dell’immaginazione. Mediatore tra cielo e terra, Raffaele è il protagonista assoluto della rappresentazione. L’inviato di Dio atterra tra noi con ali suggestive, impigliate nella vita degli uomini- sarà difficile riprendere a decollare. In quali spazi potrà svolazzare? Vorrà ancora intercedere per noi? Messaggero ingenuo.
Si assemblano le membra sparse dell’accompagnatore e amico dei giovani. Liberati dalle offese del tempo e dell’uomo, affiorano i colori belli, avvolti da una rinata e luminosa azzurrite. Molte sono le qualità estetiche emerse dal consueto palcoscenico della retorica teatrale. Ma se teatro deve essere, che sia intimo, delicato, affettuoso, senza scadere nella banalità del sentimentalismo. Il nostro anonimo intagliatore era un maestro.
Sotto la regia dello scultore si esibiscono: le più belle ali dell’angelificio locale, merletti di legno fiammante; il panneggio abbondante e articolato, cesellato a protezione delle sacre anatomie; le linee morbide del modellato sbalzate dal fluire del disegno elegiaco; i volumi tesi ma equilibrati, di una sensibilità ancora settecentesca rinnovata dal gusto neoclassico.
Benché mutilo di piedino destro, l’elegantissimo Raffaele incede con la leggerezza di uno spirito danzante e, come un’arpista, ci conduce silenzioso nella contemplazione del bene. Tutta la rappresentazione si sublima nel suo volto d’intelligenza estatica, testolina biondo-chiomata, armonicamente sproporzionata sul corpo slanciato di guaritore divino. È negli occhi angelici, custodi delle visioni di Dio, che l’originalità dello scultore ci lascia attoniti: palpebre di taglio orientale, bisturi celesti sulle opacità terrene.
Su quante spalle hanno viaggiato i due pellegrini, in quanti occhi, sospesi tra fede e folclore. E se per duecento anni la statua è stata amata e invocata dai nostri antichi concittadini, possiamo farlo anche noi, apostoli della bellezza. Per apprezzare meglio l’opera, sarebbe opportuno leggere il racconto biblico “Libro di Tobia”, un manualetto di pietà filiale, codice della carità autentica, quella fatta da chi vive in povertà, da chi non ha niente se non se stesso.
Da meta turistica ad improbabile tappa angelica. A Vieste si sono avverate le parole iniziatiche della guida alata: «sani e salvi partiamo, sani e salvi ritorneremo». Così termina il viaggio di Rafa-El e Tobhj-Yah viestani.
Ben tornati.
Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)
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