Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Agosto 2012 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
    1 2 3 4 5
6 7 8 9 10 11 12
13 14 15 16 17 18 19
20 21 22 23 24 25 26
27 28 29 30 31    
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

Chi pụ scrivere sul blog

Solo l'autore pụ pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

Ultime visite al Blog

nictilopegattamelatinofilicefrancesco.fgiancasetteMICHELEALESSANDROlibriefilmTerpetrusmaria.sarzisartorijenainsubricaclipper1965ivan.lanzillosimone2204giovannivassobillduke82
 
 

Ultimi commenti

Sulla Beringia come antica culla umana andrebbero...
Inviato da: Fabio
il 27/10/2012 alle 11:43
 
Grazie mille, ho in programma di scrivere ancora un bel...
Inviato da: MICHELEALESSANDRO
il 27/08/2012 alle 18:14
 
Complimenti per la serietà delle tematiche trattate. Buona...
Inviato da: boscia.mara
il 27/08/2012 alle 10:49
 
Premessa interessante
Inviato da: Luisella
il 16/08/2012 alle 15:22
 
Prova
Inviato da: Francesco
il 28/07/2012 alle 15:29
 
 

Messaggi di Agosto 2012

 

POPOLAZIONI ATTUALI E POPOLAZIONE ANCESTRALE / KHOISANIDI ED ETIOPICI

Post n°12 pubblicato il 12 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Abbiamo visto come nelle analisi genetiche vi siano modi diversi di costruire gli alberi evolutivi, il che dipende anche e soprattutto dall’ipotesi di partenza della maggiore uniformità, o meno, del tasso di mutazione generale.

Dal punto di vista del DNA mitocondriale (trasmesso per via materna) e del cromosoma Y (presente nei soli individui di sesso maschile) i ricercatori che partono dall’assunto – come abbiamo visto, tuttaltro che certo – di un tasso di mutazione costante in tutte le popolazioni mondiali, sembrano poter individuare nei Khoisan la popolazione attuale che può essere considerata come la più diretta discendente della popolazione protoafricana ancestrale e quindi, in un’ottica afrocentrica, di quella mondiale. Se però tra Africa ed Asia si preferisce piuttosto dare maggior importanza, ad esempio, alla popolazione con il mtDNA più simile alla media di tutte le popolazioni mondiali, come abbiamo già visto sembrerebbe essere l’Asia la più probabile culla primordiale; in tal caso, la notevole divergenza dei Khoisan andrebbe spiegata come il risultato di una specifica accelerazione nella velocità di mutazione di quel particolare gruppo.

Riformulata in altri termini, la questione può, a nostro avviso, essere quindi riassunta nella seguente domanda: quelle popolazioni attuali nelle quali i genetisti ritengono di poter ravvisare un maggior numero di mutazioni intervenute rispetto al gruppo ancestrale, vanno considerate più antiche di tutte le altre, in quanto separatesi prima dal tronco comune (nella prospettiva di un tasso costante di mutazione per tutti) o, invece, vanno considerate piuttosto come quelle che, rispetto ad altre odierne, si sono geneticamente allontanate di più dai progenitori comuni (nella prospettiva di un tasso di mutazione variabile, che nel loro caso avrebbe accelerato il ritmo evolutivo) ?

Comunque, la popolazione singolarmente “più mutata” verrebbe rappresentata, nell’albero genetico, come un ramo a parte, staccatosi in un punto molto vicino alla radice della struttura e particolarmente lungo, raffigurato come parallelo ai rami delle altre popolazioni (se scegliamo l’ipotesi della maggior “antichità”) o nettamente divergente in direzione laterale (se scegliamo l’ipotesi della maggior “devianza”); ma, in ogni caso, riteniamo ci sia da chiedersi quanto un ramo geneticamente “lungo” – perché, pur sempre, portatore di un maggior numero di mutazioni rispetto ad altri – possa effettivamente aiutarci a capire quale possa essere stato l’aspetto della popolazione ancestrale rispetto a quelle odierne. Ad esempio, Nicholas Wade ammette significativamente che anche africani ed australiani, che considera popolazioni molto antiche in quanto rappresentano i rami più lunghi dell’albero genetico delle popolazioni mondiali (quindi nella prospettiva di un tasso evolutivo grossomodo costante per tutti), potrebbero differire considerevolmente dalla popolazione ancestrale che ha generato tutti noi.

La posizione genetica dei Khoisan è per Cavalli Sforza intermedia tra quella degli  africani e degli asiatici occidentali, ed il ricercatore ci segnala comunque come questi (analogamente anche ai Pigmei, dei quali parleremo più avanti) si ritrovino a “deviare dal tipo africano principale”; di conseguenza, dal suo punto di vista, le popolazioni boscimanoidi non appaiono come le migliori candidate per rappresentare oggi l’erede più diretto dei protoafricani ancestrali, propendendo piuttosto per una loro origine derivante da un’antica ibridazione (forse di 20.000 anni fa).

In generale però Cavalli Sforza riconosce che, per molti aspetti, due ipotesi diverse come l’ibridazione e la discendenza diretta da un gruppo ancestrale possano portare ad evidenze genetiche molto simili.

In effetti questo è un punto significativo, che apre la strada ad una serie di considerazioni a nostro avviso di particolare importanza: potrebbe infatti essere plausibile considerare particolarmente vicine a quelle originarie altre popolazioni che invece per Cavalli Sforza sono solo il prodotto di un incrocio.

Sappiamo che per il genetista italiano, oltre ai Khoisan, una possibile origine da ibridazione può aver interessato anche gli Etiopi e, allargando la scala, anche gli Europei tutti. Per questi ultimi, ricordiamo che la relativa brevità del ramo che li rappresenta nel suo albero filogenetico viene spiegata in prima battuta con l’ipotesi di un’origine per incrocio tra 1/3 di geni africani e 2/3 di geni orientali; ma, esplicitamente, Cavalli Sforza ammette per gli europei attuali anche un’ipotesi opposta, ovvero che, invece di essere il risultato di un’incrocio, siano molto simili alla popolazione ancestrale.

Comunque, l’ipotesi di considerare alternativamente i koisanidi, gli etiopi, o gli europei come raggruppamenti odierni particolarmente vicini a quella che fu l’antica protoumanità, a nostro avviso andrebbe vagliata alla luce di quanto può dirci anche l’antropologia classica, sia in termini storici che in termini geografici.

Per quanto riguarda le popolazioni khoisanidi, per le fasi più recenti del Paleolitico Superiore sembrerebbero attestate forme boscimanoidi su una superficie, rispetto a quella occupata attualmente, ben più vasta, ovvero dalla zona del Capo fino all’alto corso del Nilo; và però detto che non risulterebbero essere stati ritrovati ulteriori elementi chiaramente riconducibili al particolare tipo khoisanide di età superiore ai 20.000 anni, né tantomeno in territori al di fuori del continente africano.

Probabilmente una maggior estensione temporale e geografica sembrano mostrare gli elementi etiopici: se per alcuni antropologi tale varietà sarebbe riconducibile ad un meticciamento relativamente recente tra europoidi e negroidi, vi è qualcun altro (ad esempio il Vallois) che si chiede se – in linea con l’ipotesi sopra espressa – più che il risultato di un incrocio, essa non possa piuttosto rappresentare il residuo di un ceppo ancestrale non ancora differenziatosi né nel senso bianco, nè nel senso nero; ciò, oltretutto, spiegherebbe perché il tipo generale degli etiopici si presenti in una forma così diversa da quello dei mulatti, che sono invece, notoriamente, degli incroci. Secondo tale interessante ipotesi, dei meticciamenti negli etiopici sarebbero poi intervenuti comunque, ma solo in un secondo momento, modificandone in diversi punti la varietà, in modo da avvicinarla in parte ai neri ed in parte ai bianchi.

Quello etiopico sembra dunque essere uno snodo piuttosto importante nella storia umana, anche se la sua origine può forse essere ricondotta, a sua volta, ad un insieme ancora più ampio e generalizzato, appunto quello europoide, se è vero che, ad esempio per Renato Biasutti, il gruppo etiopico può essere interpretato come originariamente europoide dalla pelle chiara e dalla provenienza eurasica settentrionale (cosa peraltro ammessa anche per gli Ottentotti, che hanno anch’essi conservato la pelle chiara).

Nel prossimo post cercheremo di passare rapidamente in rassegna gli elementi che sembrano portare in questa direzione.

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

POPOLAZIONI ATTUALI E POPOLAZIONE ANCESTRALE / PALEOEUROPOIDI

Post n°13 pubblicato il 13 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Proseguiamo sulla linea del post precedente, in particolare sul significato antropologico sia dei reperti antichi che dei gruppi viventi e di quanto tutto ciò può chiarirci in merito all’aspetto della popolazione umana primordiale.

Per rimanere in Africa, segnaliamo che ritrovamenti come quelli di Boskop o di Oldoway sono stati considerati protoetiopici, ma anche più specificamente avvicinati allo stesso tipo di Cro-Magnon (quello di Boskop in particolare da Giuffrida Ruggeri, che peraltro nega decisamente, in termini generali, la presenza di qualsivoglia elemento negroide in Cro-Magnon); diversi sono stati gli  antropologi che hanno ipotizzato per l’Africa del sud e del sud-est un popolamento cromagnoide, o comunque di vecchie forme paleoeuropidi, risalente anche a 20-30.000 anni fa e quindi antecedente a quello dei boscimanoidi stessi. Tale ipotesi, peraltro, sembrerebbe recentemente confermata dall’analisi del cranio di Hofmeyr (Sud Africa) che lo daterebbero a circa 36.000 anni fa e ne evidenzierebbero un aspetto molto più simile ai reperti risalenti al Paleolitico superiore europeo, piuttosto che a quelli recenti sudafricani ed europei. Per restare nell’area dell’Africa australe, ricordiamo che per Vittorio Marcozzi elementi europoidi possono, quanto meno, essere entrati come componenti di popolazioni a suo parere dalla probabile origine mista, come i cafridi dell’Africa sud-orientale o i malgassidi del Madagascar.

Ma in generale, per l’Africa tutta, Bernatzik conclude che, data la mancanza di crani negridi fino a dopo il mesolitico (argomento già trattato in uno dei post precedenti), in tempi più antichi il continente nero tenderebbe sempre più a rivelarsi come un territorio di europoidi.

Se usciamo dall’antropologa africana e guardiamo verso altri continenti, Steve Olson ammette, in merito alla generale presenza in Asia, Australia ed America di frequenti tratti apparentemente europoidi tra popolazioni non “bianche”, che il fenomeno può essere spiegato con il mantenimento delle caratteristiche originarie delle genti uscite dall’africa nord-orientale (l’autore si pone comunque nell’ambito della teoria “Out of Africa”) che avrebbero poi generato  tutte le popolazioni del resto del mondo dopo la traversata della zona medio-orientale. E’ comunque notevole sottolineare come tali caratteristiche iniziali sarebbero, quindi, proto-europoidi anche in chi si muove comunque in un’ottica afrocentrica. In altri casi, a tali elementi se ne sarebbero invece sovrapposti ulteriori di carattere più marcatamente mongoloide che però, notiamo noi, sono necessariamente meno arcaiche; va infatti ricordato che le specificità delle popolazioni “gialle” sono, quasi unanimemente, riconosciute avere un’origine nettamente più recente (ad esempio, il cranio cinese di Ciu Cu Tien risalente a cira 15-20.000 anni fa non mostra alcuna somiglianza con gli attuali orientali).

Via via che ci allontaniamo dall’Africa, per il subcontinente indiano è significativo che diversi autori (Bernatzik, Pullè, Eickstedt, Weinert) concordino sul fatto che i gruppi umani più arcaici ivi stanziati, come i veddoidi, siano fondamentalmente dei paleoeuropoidi. Probabilmente allo stesso raggruppamento dovrebbe fare riferimento anche Biasutti che segnala analoga origine per i paleoindidi (ricordiamo che molto spesso in ambito antropologico la classificazione tassonomica viene effettuata secondo denominazioni che possono sensibilmente variare da autore ad autore). Per Vittorio Marcozzi elementi europoidi entrano nella composizione di popolazioni dalla probabile origine mista quali gli gli indo-melanidi del deccan.

La presenza di vecchie forme europoidi viene rilevata anche in Indocina e nel sud-est asiatico; se per Vallois la razza indonesiana o protomalese è una razza gialla a caratteri estremamente attenuati, è tuttavia significativo il fatto che egli stesso ne rilevi l’affinità con le popolazioni europee, tant’è che ricorda come taluni l’abbiano addirittura inclusa nel ramo della razza mediterranea. Ma forme paleoeuropoidi vengono anche individuate in Melanesia ed in Polinesia, e diversi antropologi hanno ritenuto di poter classificare i polinesiani in toto tra gli europoidi.

Più a sud, gli stessi Australoidi vengono incasellati da Weinert come paleoeuropoidi essi stessi e, da diversi antropologi, considerati quanto meno appartenenti alla stessa linea centrale degli europoidi, rispetto a quelle più “laterali” e specializzate rappresentate da negroidi e mongoloidi.

Virando verso nord e superando l’area orientale densamente popolata – ma in tempi relativamente recenti – dalle popolazioni gialle, troviamo nel settentrione dell’Asia tutta una serie di gruppi che evidenziano caratteristiche, quali il colore degli occhi e della pelle, riscontrabili quasi unicamente presso gli europoidi settentrionali. Di particolare interesse è il ramo paleosiberiano, che per Vallois è annoverabile tra le razze gialle, ma con caratteri mongoloidi estremamente attenuati ed una certa affinità con i bianchi; a suo avviso sarebbe il risultato di un antico meticciamento tra bianchi e gialli primitivi (questi, forse giunti da sud), ma non possiamo non rilevare come invece per alcuni antropologi i paleosiberiani rappresentino piuttosto una vecchia forma intermedia ed indifferenziata tra mongoloidi ed europoidi, riproponendo anche in questo caso la doppia opzione, analogamente a quanto visto in ambito africano per gli Etiopi, tra la summenzionata ipotesi di meticciamento primitivo, ed una di origine diretta da un tronco ancestrale paleoeuropoide che, in Asia, stava appena iniziando a differenziarsi verso i mongolidi propriamente detti.

Ed in tale contesto è notevole anche il caso degli Ainu del Giappone settentrionale e delle isole Curili, per i quali l’ipotesi dell’ibridazione sembrerebbe ancor meno probabile, a vantaggio piuttosto della precoce separazione da un tronco principale paleoeuropeo. E’ stato rilevato che alcuni caratteri degli Ainu li farebbe, a parere di qualche studioso (soprattutto da Sternberg e Werth), avvicinare ai tipi australiani, ma altre caratteristiche più simili a quelle nord-europee inclinerebbero maggiormente per una classificazione più chiaramente paleoeuropoide; il giapponese Matsumoto parla infatti di “ainu-caucasici pre-mongolici”, mentre per Biasutti gli Ainu rappresentano un residuo di quelli che definisce “Pre-Europidi”, che segnala in tempi preistorici enormemente più diffusi di quanto gli Europidi non lo fossero all’inizio dell’evo moderno. Anche Vallois concorda sugli Ainu come gli ultimi rappresentanti di quelle arcaiche popolazioni bianche che anticamente occupavano il nord della Siberia, senza soluzione di continuità con la stessa Europa.

Infine, per il continente americano, sul cui popolamento dedicheremo in futuro una trattazione più specifica, per ora segnaliamo che Deniker designa come razza Paleo-americana quella degli amerindiani considerati più arcaici e privi di caratteristiche mongoloidi, presupponendo anzi antichi rapporti con forme australoidi ed europoidi. Biasutti, nella sua classificazione, preferisce piuttosto parlare direttamente di Pre-Europidi (ai quali avvicina il ritrovamento europeo di Combe-Capelle), mentre riteniamo opportuno ricordare come gli amerindiani più meridionali, i Fuegini, che probabilmente sono annoverabili – proprio per la loro posizione geografica – tra le popolazioni più antiche arrivate in America, presentino anch’essi caratteristiche che li accostano chiaramente al tipo europoide.

In effetti, più che al Cro-Magnon, sembrerebbe proprio il già citato ritrovamento europeo di Combe-Capelle il tipo fisico al quale non è azzardato avvicinare un gran numero di popolazioni mondiali tra quelle che abbiamo rapidamente passato in rassegna; l’antropologo Giuffrida-Ruggeri considera l’ “Homo aurignacensis” (appunto, il Combe-Capelle) quale rappresentante di un ramo umano più meridionale, nel quale far rientrare ad esempio popolazioni come Ainu, Protoetiopici, Vedda, Australoidi, Dravidi ecc.., mentre individua in Cro-Magnon un ceppo più occidentale .

In definitiva, quale sintesi si può trarre da tutti questi elementi ?

Certamente non che la popolazione ancestrale avesse lo stesso aspetto degli europoidi attuali (europei, nordafricani, asiatici occidentali); però, a nostro avviso, vi sono chiari indizi che un aspetto “simil-europoide” sembra essere presente sul pianeta fin dai tempi più antichi, sebbene in forma ancora sfumata ed arcaica rispetto a come si presenta oggi, apparendo quasi come una base di partenza per tutte quelle popolazioni non ancora chiaramente indirizzate verso la direzione negroide o mongoloide (realtà più specializzate che emergeranno solo successivamente). Tale aspetto, oltretutto, emerge un po’ ovunque nel mondo, anche – e questo ci sembra particolarmente significativo – in sedi lontanissime da quelle storiche occupate dalla cosiddetta “razza bianca”. Ed infine, possiamo concludere che oggi tale definizione, quello di “razza bianca”, nel senso più ampio la si voglia intendere, identifica un raggruppamento che appare alquanto eterogeneo ed esteso, nel quale probabilmente risiedono componenti, oltre che della massima arcaicità, anche piuttosto diversificate e sulle quali dovremo tornare in seguito.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I PRIMI PASSI DELLA POPOLAZIONE ANCESTRALE – AFRICA, AUSTRALIA ED EURASIA

Post n°14 pubblicato il 18 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Cercheremo ora di gettare uno sguardo generale sulle primissime tracce lasciate in varie parti del mondo dalla popolazione ancestrale del nostro Manvantara, dopo che nel post precedente abbiamo avanzato qualche ipotesi su quelli che potrebbero esserne stati i probabili elementi fisico-razziali di base. In ogni caso, anche se generici tratti “anatomicamente moderni”, o tecnologie ad essi associabili, sono riscontrabili già negli antichi ritrovamenti africani di Klasies, mediorientali di Skhul / Qafzeh, arabi di Jebel Faya, cinesi di Liujiang ed australiani di Kununurru – tutti databili attorno, o anche più, di 100.000 anni fa – vari ricercatori ipotizzano che le facoltà culturali completamente “moderne” e la piena adeguatezza dello sviluppo cognitivo a livello neurologico (quindi non riconoscibili attraverso i reperti scheletrici), può essere apparsa non prima di 40-50.000 anni fa, ovvero contemporaneamente all’inizio della fase preistorica denominata Paleolitico Superiore. In effetti, viene rilevato che proprio attorno a tale data l’aspetto materiale degli oggetti e dell’arte prodotta iniziano a cambiare rapidamente e da più parti è stato proposto che il mutamento osservato può essere collegato anche all’inizio delle prime forme di linguaggio complesso (curiosamente, lo stesso lasso di tempo venne proposto anche dal glottologo Alfredo Trombetti per la differenziazione, a partire da una base comune, di tutte le lingue mondiali); sulla cosa sembrerebbe peraltro concordare anche il genetista tedesco Svante Paabo in base all’analisi di alcuni specifici geni deputati a regolare la funzione del linguaggio.

E’, questo, un punto di vista chiaramente evoluzionista, in quanto tende comunque a mettere in relazione, in linea ascendente, le forme umane più recenti con quelle più antiche, ma la data nella quale per i ricercatori si manifestò quella che viene considerata una nettissima discontinuità evolutiva ci sembra particolarmente significativa per una serie di ragioni che di seguito si chiariranno.

Infatti, è più o meno attorno a 50.000 anni fa – o, quanto meno, difficilmente prima – che, come vedremo, si possono collocare, in varie aree  del mondo, i più antichi eventi, reperti diretti ed attestazioni culturali attribuibili con una certa sicurezza a Homo Sapiens Sapiens e che rientrano nell’ambito del presente Manvantara iniziato 65.000 anni fa (ricordiamo che quanto invece è collegabile a datazioni ancora più antiche ricade, dal nostro punto di vista, in cicli umani precedenti a quello attuale, e quindi esce dai limiti della presente ricerca).  

Per quanto, ad esempio, riguarda l’Africa, se escludiamo la cultura sudafricana di Howiesons Poort, collocabile circa 60-65.000 anni fa (le cui caratteristiche pienamente “moderne” non trovano unanimità tra gli studiosi, anche per le enigmatiche modalità della sua scomparsa, in quanto soppiantata da una tecnologia più arcaica), possiamo ricordare i ritrovamenti in Marocco di Dar-es-Soltane e Temara, situabili a circa 40-50.000 anni fa, o forse anche un po’ di più ma, anche qui, senza il generale consenso dei ricercatori. In un periodo analogo, sotto l’aspetto genetico, Cavalli Sforza ipotizza un flusso migratorio avvenuto dall’Asia occidentale all’Africa tra i 60.000 e i 40.000 anni fa, anche se tale stima andrebbe analizzata assieme all’evidenza di un probabile spopolamento che, per il territorio nordafricano, Klein segnala tra 40.000 a 20.000 anni fa.

Per l’Europa disponiamo di qualche elemento in più. Fino a qualche anno fa, i più antichi ritrovamenti riconducibili al Paleolitico Superiore, e quindi collegabili alla presenza di uomini anatomicamente moderni, erano considerati i siti di Bacho Kiro e Temnata in Bulgaria, datati ad oltre 40.000 anni fa, suggerendo un’ingresso di popolazioni dal medio oriente attraverso la penisola balcanica; in questo quadro si può forse inserire anche il sito ungherese della grotta Istallosko, nei monti Bukk, con punte di cultura aurignaziana valutate attorno a 42.000 anni fa. Successivamente, però, il quadro è stato reso meno chiaro da datazioni similari emerse anche per altri ritrovamenti europei, come la mandibola di Cavern Kent dell'Inghilterra sud-occidentale (tra 44.000 e 41.000 anni fa), quelli della Baia di Uluzzo in Puglia (tra 45.000 e 43.000 anni fa, precedentemente ritenuti neandertaliani), di Fumane in Veneto (40.000 anni fa) e di Magrite in Belgio (tra 43.000 e 41.000 anni fa). Inoltre, tra 45.000 e 40.000 anni fa è stata osservata un intrusione rapida di gruppi aurignaziani cromagnoidi verso ovest lungo le rive settentrionali del Mediterraneo, fino ad arrivare in Spagna dove i siti di El Castillo e Romanì vengono fatti risalire ad un periodo compreso tra 43.000 e 41.000 anni fa. In altre aree appartate dell’Europa nord occidentale, vi sono prove di industrie associabili all’Uomo di Neandertal (Castelperroniano, Uluzziano) che addirittura, in rapporto a quelle aurignaziane, risulterebbero più recenti.Più verso oriente, nella Russia europea, ritrovamenti di antichità valutata tra 50.000 e 35.000 anni fa a Starosel’e, e di circa 45.000 anni fa a Kostenki, fanno in definitiva desumere che, per tutta l’area europea in generale, non sia azzardato considerare la possibilità di retrodatare la comparsa di Homo Sapiens Sapiens anche a 50.000 anni fa.

In Medio Oriente le prime manifestazioni collegabili al Paleolitico Superiore sono situabili tra 50.000 e 47.000 anni fa, in siti quali Boker Tachtit in Negev e El Wad sul Monte Carmelo, dove sono state rinvenute lame ricavate dalle locali schegge musteriane (cioè attribuibili a popolazioni neandertaliane). Una analoga industria basata sulle lame sarebbe anche riscontrabile a Ksar Akil in Libano (42-44.000 anni fa).

Proseguendo verso il centro eurasiatico, ricordiamo i reperti di Diarra-i-Kur in Afganistan, collocabili tra 50.000 e 35.000 anni fa ed i resti riconducibili a Homo Sapiens Sapiens, di circa 43.000 anni fa, rinvenuti presso i monti Altai, a nord del bacino di Tarim; più ad est ancora, segnaliamo lo scheletro trovato nel 2003 nella grotta di Tianyuan, vicino a Pechino, che avrebbe un’età compresa tra i 38.500 e i 42.000 anni e lo collocherebbe tra i più antichi dell’Asia orientale.

Più a sud, nello Sri-Lanka in prossimità di Balangoda (grotta di Batadomba), si segnalano ritrovamenti forse databili a 34.000 anni fa, mentre nel sud-est asiatico quelli di Niah Cave nel Borneo vengono posti tra 50.000 e 35.000 anni fa; per la Nuova Guinea, Lewin valuta molto scarse le prove archeologiche di una presenza umana anteriore a 45.000 anni, mentre la glottologa Johanna Nichols stima tra i 40.000 ed i 45.000 anni l’età della famiglia linguistica indopacifica e di quella australiana.

E proprio in Australia possiamo ricordare i ritrovamenti di Willandra Lakes, situabili tra 50.000 e 35.000 anni fa, e quello del Lago Mungo, recentemente ridimensionato a  42.000 anni fa (dagli iniziali 60.000) ma particolarmente interessante per le implicazioni genetiche che ne sono derivate, data l’impossibilità di ricondurlo a linee mitocondriali africane. Un buon compromesso potrebbe fissare a circa 46.000 anni fa l’arrivo di Homo Sapiens Sapiens in Australia, anche vista la massiccia estinzione di tutti i mammiferi più grandi che in quel momento sembra essersi verificata nel continente, probabile conseguenza di un’intensa attività di caccia praticata dall’uomo.

Ma è soprattutto per il continente americano che, come vedremo nel prossimo post, stanno emergendo elementi interessanti che sembrerebbero rimettere in discussione le ipotesi più consolidate sulla tempistica del suo popolamento.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I PRIMI PASSI DELLA POPOLAZIONE ANCESTRALE – AMERICA E…BERINGIA

Post n°15 pubblicato il 24 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come concludevamo nel post precedente, in tempi recenti si è alquanto ravvivato il dibattito attorno ai tempi ipotizzati per il primo popolamento del continente americano da parte di Homo Sapiens Sapiens; ciò essenzialmente sulla base di ritrovamenti che presenterebbero datazioni anteriori a quelle attribuite alla cultura Clovis, di circa 12.000 anni fa, e a lungo ritenuta la più antica d’America.

Va innanzitutto ricordato che la via principale di questo popolamento dev’essere stata costituita dall’istmo di terra, allora emerso, che ora è costituito dallo stretto di Bering, stretto braccio di mare che divide la Siberia orientale dall’Alaska; sono state ipotizzate anche vie migratorie alternative, sulle quali ora non è però il caso di soffermarci e che eventualmente tratteremo in seguito.

In ogni caso, è stato valutato che tale istmo emerso – denominato “Beringia” – dovette essere alquanto esteso, rendendosi geologicamente percorribile in un arco di tempo sul quale la letteratura propone date abbastanza differenziate, i cui limiti più larghi sarebbero collocabili tra i 72.000 ed i 14.000 anni fa.

In merito ai reperti rinvenuti in America, ve ne sono diversi tra quelli incompatibili con la teoria del popolamento Clovis, ma i più antichi che vogliamo qui ricordare sono costituiti dal bambino di Taber, nel Canada occidentale, risalente forse a 40.000 anni fa, il sito di Topper nella Carolina del Sud, abitato forse già 50.000 anni fa (ma la data è contestata) ed i resti rinvenuti a Pedra Furada in Brasile, anch’esso di circa 40.000 anni fa. Sulla base di tali elementi, non è quindi più azzardato collocare, da parte di un settore sempre più consistente della comunità scientifica, l’inizio del popolamento continentale ad opera dei primi Paleoamericani attorno a 40-50.000 anni fa; datazione forse confermata (pur con tutte le riserve già espresse in merito all’interpretazione dei dati di origine molecolare) anche dalla “distanza genetica” delle genti americane rispetto a quelle del vecchio mondo, che situerebbero il momento di ingresso in America attorno ai 43.000 anni fa, o anche da valutazioni di carattere glottologico, che porterebbero Johanna Nichols a stimare in non meno di 45.000 anni l’età linguistica del “Nuovo” Mondo.

Se quindi il popolamento di tutto il continente è stato così arcaico, ne consegue che anche la presenza umana nella stessa Beringia deve esserlo stata almeno altrettanto; possono certamente essere esistite anche vie alternative di ingresso in America, ma comunque una elevata antichità della presenza umana alle latitudini più elevate sembrerebbe confermata anche in via diretta dal sito forse più antico di tutto il continente, quello di Old Crow, nel nord Yukon in Canada (posto oltre al circolo polare artico), dove sono stati rinvenuti reperti risalenti ad almeno 50.000 anni fa.

In effetti la Beringia, della quale Old Crow avrebbe potuto senz’altro far parte, è stata ipotizzata, soprattutto da parte di studiosi russi, come una terra estremamente estesa; visti gli attuali bassi fondali del Mar Glaciale Artico, che a nord della Siberia e dell’Alaska presenta in media profondità inferiori ai 200 metri (lo zoccolo continentale del mare dei Ciukci e dello stretto di Bering ha addirittura una profondità massima di 45-55 metri), un’enome area posta tra la penisola del Taymir ed il Canada sarebbe anticamente risultata emersa per effetto della glaciazione in atto ed il conseguente abbassamento del livello marino planetario. Ma anche considerando i valori generali della temperatura mondiale, al tempo meno elevati rispetto ad oggi, e la vicinanza geografica al polo nord, sembrerebbe che la Beringia, sorprendentemente, godesse di condizioni climatiche temperate – comunque migliori di quelle attuali dello stretto di Bering – con temperature estive superiori ai 10 °C e la presenza di una consistente vegetazione composta da abeti, betulle e pioppi la cui presenza, più a nord dei loro limiti attuali, indicherebbe che persistettero lunghi periodi di clima più caldo ed umido di quanto lo sia oggi. La cosa sembrebbe confermata anche dal fatto che nella limitrofa Siberia orientale, tra il fiume Lena e lo stretto di Bering, il fenomeno glaciale fu molto ridotto - come anche in Alaska e Yukon - presentando solo ghiacciai sui rilievi montani e peraltro di modesto spessore.

Sta in effetti prendendo sempre più corpo l’idea che il ruolo giocato da quest’area in tempi preistorici sia stato molto più importante di quello di semplice punto di passaggio dall’Eurasia all’America; infatti, con il nome “Out of Beringia” è stato recentemente denominato un modello secondo il quale viene presa in considerazione l’eventualità che popolazioni rimaste stanziali in zona per un lasso non trascurabile di tempo, abbiano ivi subito un processo piuttosto marcato di diversificazione genetica, per partire solo in un secondo momento, ed a scansioni diverse, verso mete più meridionali, sia in direzione orientale che occidentale. E’ evidente come, pur con tutte le già menzionate riserve sulle datazioni attribuite alle varie mutazioni genetiche umane, dal nostro punto di vista – “boreale” – tale ipotesi risulti comunque estremamente interessante; ed anche tenendo presente come la teoria “Out of Beringia” in effetti non si ponga mai in reale alternativa alla “Out of Africa”, ma ne sottolinei al massimo una funzione di “centro di smistamento” – importante, ma pur sempre secondario – a nostro avviso cià non toglie che ci troviamo davanti ad un’ipotesi comunque non trascurabile di “culla” umana posta a latitudini significativamente elevate che prima, a quanto ci risulta, non erano mai state teorizzate dalla moderna ricerca scientifica.

Nel prossimo post rimarremo saldamente nel Nord del mondo con una serie di ulteriori considerazioni tratte ancora dalla letteratura scientifica che però serviranno, più in là ancora, ad introdurre anche argomenti di ordine diverso.  

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

UN’ARTIDE ANTICAMENTE TEMPERATA ?

Post n°16 pubblicato il 26 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Dalla Beringia, con la quale avevamo concluso il post precedente, spostandoci verso occidente troviamo ancora alcune evidenze di presenza umana di età paleolitica a latitudini piuttosto elevate, anche se meno antiche di quelle di Old Crow nello Yukon.

In Siberia orientale il sito di Berelekh, posto a 70° gradi di latitudine, risalirebbe a 30.000 anni fa e dimostrerebbe che il delta del fiume Yana un tempo doveva essere più caldo di oggi, con vegetazione tale da sostenere erbivori di grossa taglia e quindi anche l’insediamento umano. Più ad ovest, Klein segnala ritrovamenti situabili tra 20.000 e 35.000 anni fa nel bacino del Lena ed altri siti, riconducibili al Paleolitico Superiore (però di antichità non meglio specificata), all’intersezione tra i monti Urali ed il Circolo Polare Artico. Altre fonti citano inoltre una presenza umana risalente a 40.000 anni fa nella Finlandia nord-orientale ed ancora in Siberia oltre il circolo polare, ma andrebbero sottoposte ad ulteriori verifiche per definire meglio le aree in questione. Infine, nella penisola di Kola in territorio russo, ricordiamo che nel 1997 il ricercatore Valerij Diomin rinvenne reperti risalenti forse a 20.000 anni fa.

Ma anche a prescindere dagli insediamenti umani, dal punto di vista ambientale e di quanto può essere osservato dall’analisi dei terreni, della paleovegetazione e delle faune presenti, sembrerebbe confermato che durante l’ultimo massimo glaciale (circa 20.000 anni fa) non fossero glacializzate né la penisola di Jamal né gran parte della penisola del Tajmyr, e quindi è probabile che non lo siano state nemmeno durante le fasi meno acute del wurmiano; inoltre, ancora più a nord di queste penisole siberiane, sono state ritrovate zanne di mammuth risalenti ad un periodo tra i 25.000 ed i 19.000 anni fa, segnalando quindi indirettamente la presenza di un ambiente temperato, adatto alla presenza umana. Evidenze simili, ed anche più antiche, sono state riscontrate all’estremo nord della Norvegia, oltre al Circolo Polare Artico, dove sono emerse ossa di lupo ed orso databili forse a 42.000 anni fa, in una zona che invece si pensava stabilmente occupata dalla calotta glaciale. Tra le varie isole del Mar Glaciale Artico che durante il Wurm sembrano non aver subito alcun raffreddamento rilevante, presentando anzi una vegetazione ed una fauna compatibile con un clima temperato, è probabile si possa inserire anche la Groenlandia settentrionale (peraltro, dal significativo nome di “terra verde”) che pare aver beneficiato delle stesse favorevoli condizoni climatiche a partire da circa 50.000 anni fa.

Le temperature sorprendentemente calde, rispetto ad oggi, rilevate durante l’ultima glaciazione su vari settori costieri ed insulari dell’Artide, sono ovviamente connesse a quelle che furono le condizioni idrografiche del Mar Glaciale: in conseguenza del generale abbassamento del livello marino, il bacino dovette essere molto più chiuso di quanto non sia già oggi perché, oltre a mancare del tutto lo sbocco verso l’Oceano Pacifico per la presenza della Beringia, anche nella zona di contatto con l’Oceano Atlantico vi fu probabilmente una vasta area di terre allora emerse nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Faroer e forse Scandinavia (area che successivamente, in concomitanza con un periodo relativamente più freddo, forse verificatosi tra circa 40.000 e 30.000 anni fa, iniziò progressivamente ad inabissarsi, concludendo tale movimento forse attorno ai 6-7.000 anni fa; è un argomento sul quale avremo modo di tornare in futuro). Varie analisi del fondale del Mar Glaciale Artico evidenzierebbero, infatti, che al tempo il bacino risultava essere chiaramente temperato, almeno in prossimità delle coste siberiane, norvegesi e groenlandesi; inoltre, è stato osservato che la superficie marina artica non può essere stata ininterrottamente coperta, come oggi, da una compatta banchisa polare, perché in tal caso non si sarebbe potuta verificare l’evaporazione acquea necessaria ad alimentare le precipitazioni nevose alle alte latitudini che hanno creato e mantenuto le grandi coltri di ghiaccio delle calotte.

Delle calotte glaciali, poi, è stata notata la distribuzione fortemente asimmetrica ed eccentrica rispetto al polo nord attuale, tanto da far ritenere alcuni studiosi che ciò potesse essere indicativo di una variazione, nel corso del tempo, della posizione geografica del polo (ipotesi sostenuta da Hapgood e da Wirth ma non da Tilak, e che qui ci limitiamo solo ad accennare senza ulteriori sviluppi); in effetti vi furono aree completamente glacializzate a latitudini relativamente basse, mentre altre, come abbiamo visto, apparentemente non ne vennero mai interessate, pur a latitudini molto elevate, probabilmente per una serie di fattori di carattere altimetrico, topografico o di prossimità al mare. A titolo di esempio ricordiamo in nordamerica, tra Illinois e Minnesota, una zona di 26.000 kmq che, pur completamente circondata dalla coltre del Wisconsin, rimase sempre libera dai ghiacci. Calotte, quindi, dallo sviluppo estremamente irregolare ed i cui margini possono anche aver favorito, come forse avvenne nell’Asia nordorientale, la creazione di aree circoscritte favorevoli all’insediamento e, per qualche periodo, all’isolamento umano, ma in condizioni diverse da quelle della tundra attuale, che costringe gli odierni cacciatori di renne in un paesaggio estremamente spoglio e quasi senza vegetazione, al contrario di quello che sembra essersi presentato nel paleolitico superiore.

Dal punto di vista paleoclimatologico, la glaciazione wurmiana è stata suddivisa in varie fasi sulla base delle analisi isotopiche dell’ossìgeno. Lo stadio n. 3 (da 59.000 anni fa a 24.000 anni fa) secondo Klein deve aver offerto temperature relativamente miti ed, in quest’arco di tempo, Clark segnala tra 40.000 e 50.000 anni fa l’interstadiale (intervallo particolarmente temperato) denominato Laufen / Gottweig; ancora più specificatamente, Brezillon indica il periodo di Peyrards, tra 44.000 e 42.000 anni fa, che sembra corrispondere all’oscillazione climatica calda di Laufen.  

A nostro avviso è singolare che tale lasso di tempo, per le datazioni già riscontrate nei post precedenti, sembrerebbe potersi sovrapporre alla transizione tra Paleolitico medio e Paleolitico superiore, o, quantomeno, evidenziare un momento particolarmente favorevole per la circolazione di gruppi umani ad elevata latitudine, in aree ancora emerse ma magari non più, o non ancora, glacializzate e quindi inaccessibili.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

VERSO L'INIZIO DEL CICLO

Post n°17 pubblicato il 29 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come abbiamo visto, durante la glaciazione wurmiana le zone artiche paradossalmente beneficiarono di condizioni climatiche migliori di quelle attuali, tali da permettere insediamenti umani alle alte latitudini che non sembrano essere stati solo di breve durata, o di carattere occasionale.    

Se ora andiamo a riesaminare le datazioni che, nei post precedenti, abbiamo riassunto per i più antichi ritrovamenti in tutto il mondo, collegabili a Homo Sapiens Sapiens nel nostro Manvantara (iniziato, lo ricordiamo, circa 65.000 anni fa), noteremo un dato essenziale: i siti africani, in effetti, non risultano essere sostanzialmente più antichi di quelli di altre zone del mondo.

Almeno, non di quelli riferibili alla Beringia.

Ricordiamo ancora che ogni eventuale ritrovamento anteriore al suddetto limite temporale va considerato attinente ad un Manvantara precedente al nostro, e quindi relativo ad un’altra umanità, separata dalla nostra da una cesura piuttosto netta che, secondo Renè Guenon, non deve aver consentito alcun passaggio verso il nostro ciclo; a questo proposito, crediamo sia particolarmente significativo che anche la scienza ufficiale ipotizzi sia avvenuto – in un momento quasi coincidente con l’inizio del presente Manvantara – un evento traumatico di dimensioni planetarie, la cosiddetta “Catastrofe di Toba” (l’eruzione, circa 70.000 anni fa, di un supervulcano nell’isola di Sumatra), le cui conseguenze geoclimatiche dovettero essere tali da ridurre l’umanità del tempo ai minimi termini, fino quasi a provocarne l’estinzione.

Quindi, se guardiamo “al di qua” dell’inizio del nostro ciclo, e ricordiamo che prove veramente decisive, sia di tipo genetico, fossile o archeologico sull’origine africana di Homo Sapiens Sapiens non ve ne sono (assieme al fatto che la provenienza delle popolazioni negroidi continua tuttora a rimarere un mistero antropologico), a nostro avviso non è azzardato collocare nella zona artica il punto di origine dell’attuale umanità, peraltro in conformità con quanto sembrano dirci molti dei miti primordiali di tutto il mondo.

Oltretutto, è plausibile che il modello di un’origine boreale delle prime migrazioni umane si strutturi in modo notevolmente diverso da quello immaginato dalla teoria “Out of Africa”. Questo, infatti, prevede l’ipotesi di piccoli gruppi di migranti che si sarebbero spinti sempre più lontano dall’Africa, portando con sé solo una frazione della variabilità genetica globale, in gran parte però rimasta nel continente-madre fino ai giorni nostri. Al contrario, nell’ipotesi boreale, a nostro avviso non sarebbero stati solo pochi uomini a lasciare la zona originaria – la Beringia ? – attorno a 50-52.000 anni fa, ma ne sarebbe uscito un numero molto maggiore, probabilmente a causa di un primo evento geoclimatico che in quel periodo colpì la zona artica (sul quale torneremo più avanti), in modo da spopolarla in larga misura. Ma se per l’Africa, come abbiamo visto, le attuali evidenze genetiche, che vengono lette a sostegno dell’origine umana, potrebbero risultare falsate da meccanismi di carattere demografico (p.es. una elevata densità di popolamento intervenuta in tempi mediamente recenti) è chiaro che una simile distorsione interpretativa non può verificarsi per le attuali aree artiche, quasi del tutto disabitate o ripopolate in tempi più recenti di quelle africane, peraltro non da popolazioni ivi originatesi, ma adattatevi solo da qualche millennio; è, ad esempio, il caso degli Inuit, di evidente origine mongolide e quindi non particolarmente antica.

In altre parole, vogliamo dire che l’Artide attuale non può più rivelare chiare tracce genetiche del suo passato, perché nel corso del tempo è stata sottoposta ad una dinamica demografica (che più avanti approfondiremo) riassumibile nello schema:

antropogenesi => forte spopolamento iniziale (probabilmente in più fasi) => ulteriore spopolamento successivo => scarso ripopolamento recente.

E’ quanto, ad esempio, è stato già constatato, su scala più ridotta, con le migrazioni paleolitiche da est verso l’Europa, le cui tracce si sono praticamente perse a causa delle varie fasi della glaciazione wurmiana, che hanno causato una massiccia dislocazione di popolazioni verso sud ed il conseguente rimescolamento dei relativi dati genetici.

Ma se ormai, a livello molecolare, forse ben poco può essere ricostruito nel nord del mondo, qualche evidenza generale di carattere bioantropologico ancora permane, se è vero che, ad esempio, Giuffrida-Ruggeri negò l’ipotesi di un origine tropicale dell’uomo propendendo invece per una zona nettamente più boreale, rilevando un   miglior adattamento umano ai climi meno caldi (e che dovrebbero corrispondere all’ambiente nel quale venne alla luce, o dove rimase immerso per un periodo non breve). Impostazione che sembrerebbe di recente confermata (Le Scienze – ottobre 2005) anche dal fatto che, al contrario di quanto finora sembrava stabilmente acquisito, i nostri diretti antenati avrebbero evidenziato, rispetto alle popolazioni neandertaliane, migliori attitudini a fronteggiare il clima rigido dell’Europa glaciale; e ciò anche in considerazione dell’assenza di siti di cultura mousteriana a nord dei 45 gradi di latitudine, mentre invece ritrovamenti riconducibili al Paleolitico Superiore sono stati rinvenuti fin’oltre al circolo polare artico.

Ma da uno sguardo generale sulle datazioni dei ritrovamenti riferibili a Homo Sapiens Sapiens nel mondo, emerge a nostro avviso anche un altro importante elemento di riflessione: l’assenza, in pratica, di reperti collocabili tra 65.000 e 52.000 anni fa, ovvero nella primissima fase del nostro Manvantara.

Questo lasso di tempo dovrebbe in effetti corrispondere al momento veramente primordiale della nostra umanità e a nostro avviso non è casuale che tale assenza di siti archeologici copra un periodo di circa 13.000 anni, ovvero quello che nelle varie tradizioni è stato definito come “Grande Anno”; questo, corrisponde alla metà della durata del ciclo precessionale terrestre e, come Renè Guenon ricorda, nelle varie mitologie assume spesso un’importanza particolarmente significativa, in misura anche maggiore del ciclo precessionale completo di 26.000 anni. Il "Grande Anno", segnalato anche da Gaston Georgel nel suo importante libro “Le quattro età dell’Umanità”, rappresenta una fondamentale modalità di suddivisione del Manvantara, in quanto costituisce precisamente un quinto della sua durata totale.

L’assenza di reperti umani da 52.000 a 65.000 anni fa corrisponde quindi al 1° Grande Anno del nostro Manvantara, ovvero alla prima metà esatta dell’Età dell’Oro; per tentare di comprendere le motivazioni che potrebbero essere la causa di tale evidenza, dovremo fare un passo indietro e, con i prossimi post, iniziare a svolgere, per quanto ci è possibile, qualche analisi sulle primissime fasi della genesi umana.  


 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963