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Luoghi Perduti

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L'altalena del respiro

Post n°22 pubblicato il 07 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

La scrittura di Herta Müller Premio Nobel per la Letteratura 2009

Così inizia L'altalena del respiro, libro intenso e non facile ma un'opera importante, una testimonianza necessaria.

Far le valigie

   Tutto quel che ho lo porto con me.
   Oppure: Tutto quel che è mio me lo porto appresso.
   L'ho portato tutto, quello che avevo. Cose mie non erano. Cose nate con un'altra funzione, o appartenenti a qualcun altro. La valigia di pelle di maiale era la custodia di un grammofono. Lo spolverino era di mio padre. Il cappotto da città con il colletto di velluto era del nonno. I calzoni alla zuava, quelli di mio zio Edwin. I gambali di cuoio erano del vicino, il signor Carp. I guanti di lana verde, quelli di mia zia Fini. Solo la sciarpa di seta bordeaux e il nécessaire erano miei, regali degli ultimi Natali.
   C'era ancora la guerra, nel gennaio del 1945. Nel terrore che in pieno inverno dovessi andarmene chissà dove dai russi, ciascuno volle darmi qualcosa che potesse essere utile, quando ormai non c'è più niente che serve. Visto che nulla al mondo poteva servire. Visto che stavo sulle liste dei russi, irrevocabilmente, e ognuno mi dava qualcosa e aveva la sua idea nella testa. Io lo prendevo e a diciassette anni pensavo che questo andarmene stesse arrivando al momento giusto. Non doveva essere per forza la lista dei russi, ma bastava che non finisse troppo male che per me era persino un bene. Volevo andarmene vìa da quella cittadina angusta come un ditale, dove tutti i sassi hanno occhi. Anziché paura avevo quell'impazienza nascosta. E una cattiva coscienza, perché la lista che faceva disperare i miei era una situazione accettabile per me. Avevano paura che mi succedesse qualcosa, in terra straniera. Io volevo andare in un posto che non mi conoscesse.
   Qualcosa mi era già successo. Qualcosa di proibito. Era strano, sporco, svergognato e bello. Era successo nel parco degli ontani, giù in fondo, dietro la collina dall'erba rasa. Tornando a casa ero passato in mezzo al parco, nel padiglione rotondo dove nelle giornate di festa suonavano le orchestre. Mi ero fermato là un po' a sedere. La luce penetrava attraverso il legno finemente intagliato. Vedevo la paura dei cerchi vuoti, dei quadrati e dei trapezi, uniti da bianchi tralci con gli artigli. Era il motivo del mio smarrimento, il motivo del terrore sul viso di mia madre. In quel padiglione, l'ho giurato: non verrò più in questo parco.
   Quanto più cercavo di impedirmelo, tanto più in fretta ci tornai - due giorni dopo. Per un rendez-vous, così si diceva nel parco.
   Andai al secondo rendez-vous con lo stesso primo uomo. Si chiamava LA RONDINE. Il secondo era uno nuovo, si chiamava L'ABETE. Il terzo si chiamava L'ORECCHIO. Poi venne IL FILO. Poi IL RIGOGOLO e IL BERRETTO. E poi ancora LA LEPRE, IL GATTO, IL GABBIANO. E LA PERLA. Solo noi sapevamo quale fosse il nome di chi. Era il passo della selvaggina nel parco, e io mi lasciavo trasportare dall'uno all'altro. Ed era estate e le betulle avevano la corteccia bianca, e nei cespugli di gelsomino e sambuco crescevano pareti verdi di un impenetrabile fogliame.
   L'amore ha le sue stagioni. L'autunno metteva fine al parco. Gli alberi si spogliavano. I rendez-vous si spostarono insieme a noi al bagno di Nettuno. Accanto al portone di ferro c'era il suo emblema ovale con il cigno. Ogni settimana mi incontravo con uno che aveva il doppio dei miei anni. Era rumeno. Sposato. Non dico come si chiamava né come mi chiamavo io. Arrivavamo in momenti diversi e la donna alla cassa nella sua guardiola di vetro e piombo, il pavimento di pietra lucente, la colonna nel mezzo, le piastrelle alle pareti con la fantasia a ninfee, gli scalini di legno intagliati non dovevano pensare che ci fossimo dati appuntamento. Andavamo in piscina a nuotare insieme agli altri. Ci incontravamo soltanto nei piccoli box di legno che facevano da saune.
   Allora, poco prima del Lager e così dopo il mio ritorno a casa, fino al 1968, quando abbandonai il paese, ogni rendez-vous avrebbe significato la prigione. Cinque anni almeno, se mi avessero beccato. Qualcuno l'hanno pure beccato. Dritto dal parco o dalla piscina, dopo un interrogatorio brutale finiva in prigione. E poi da lì nel campo lungo il canale. Oggi so che dal canale non si ritornava più. Chi nonostante tutto ritornava era un cadavere ambulante. Invecchiato e devastato, inutilizzabile per qualsiasi amore al mondo.
   E all'epoca del Lager - se mi avessero beccato nel Lager sarebbe stata la morte.
   Dopo i cinque anni di Lager vagavo giorno per giorno nel tumulto delle strade provandomi le frasi migliori nella mente, nel caso mi avessero arrestato: COLTO IN FLAGRANTE - contro questo verdetto di colpevolezza mi sono preparato mille alibi e scuse. Porto con me il mio bagaglio, ed è un viluppo di quiete. Mi sono avviluppato così a lungo nel silenzio che non riesco mai a svoltolarmi in parole. Mi inviluppo soltanto in altro modo, quando parlo.

Giacomo Feltrinelli editore 2010

 

 

 
 
 
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