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'Fallisci meglio' è il mio secondo nome
 

Messaggi del 15/05/2011

Faccia da funerale

Post n°649 pubblicato il 15 Maggio 2011 da middlemarch_g
 

Venerdì sono stata a un funerale. Non direi che il legame di parentela giustificasse la mia presenza in chiesa, o che la morte della defunta avesse motivo di essere definita prematura:  i 90 anni della Rina complessivamente davano un senso piuttosto compiuto al suo trapasso e a tutto il cerimoniale connesso. E' che Rina mi piaceva, e non la vedevo da tantissimo tempo.

Sono andata volentieri, ma temevo qualche contraccolpo perferico che infatti c'è stato. Perché quello che mi crea problemi ai funerali, come del resto anche ai matrimoni o in tutto l'apparato della fenomenologia liturgica, non è il prima e il dopo, che anzi mi piace. E' il durante. Sono le parole della fede.

Questo perché ai miei tempi ho avuto un periodo di ardente fervore devozionale. E' stato intorno alla fine degli anni '80, e anche all'epoca in cui pure giocavo in casa, c'era una cosa che mi faceva impazzire: la vacuità con cui nel cattolicesiomo si ripetono gesti e parole senza avere la minima idea di quello che si dice e del perché lo si fa. Il rito potrebbe essere in lingua kazara, e per la maggior parte dei presenti non farebbe nessuna differenza, tanto basta guardarli per capire che il decorso sotterraneo dei loro pensieri si àncora alla litania solo per calarsi in fondo ai cunicoli della coscienza inseguendo il ritmo ondivago del chiacchiericcio interiore. La devozione ti aiuta. Non ci sono solo le parole. C'è una precisa e rigida gestualità per cui ti alzi, ti inginocchi, ti rialzi e ti siedi, ed è così intima e interiorizzata che perfino il mio apparato scheletrico e muscolare, che non assiste più a una cerimonia da credente da almeno 25 anni, conserva ancora perfetta memoria della sequenza del pattern verbale e cinestetico. Non mi allineo, naturalmente, ma mi costa uno sforzo cosciente. E anche se non ripeto quelle parole, mi risuonano in testa un attimo prima che l'assemblea le pronunci, e devo irrigidirmi per non assecondare l'impulso delle ginocchia a flettersi o sollevarsi secondo le richieste del cerimoniale.

Da credente mi costringevo a riflettere sempre su quel che ripetevo. Il risultato è che appena ho capito quanto fossi distante dal cattolicesimo, il mio pathos filologico mi si è rivoltato contro. Perché è vero che ho smesso di andare in chiesa, ma quando poi mi tocca presenziare a una cerimonia, proprio ora che mi farebbe tanto comodo sganciarmi con la mente e pensare ai fatti miei, qualcosa mi impone di esserci e mi tocca far caso a quello che si dice. Anche se lo dicono gli altri.

Così quando il prete nell'omelia ha esaltato la vita di sacrifici della povera Rina, poi ha ricordato come lei fosse ormai pacificata e quieta, e infine ha creato un nesso di intima relazione causale tra il punto uno e il punto due - perché le persone buone sanno che un grande amore le attende nell'altra vita - io mi sono arrabbiata. Indignata forse. E intristita.

Perchè vedo che siamo sempre dalle parti del cattosadomasochismo. Da una parte la Vita che ti opprime. Dall'altra l'Amore che ti attende. E dopo duemila anni stiamo ancora qui a oscillare fra i due estremi di questa solennissima minchiata in forma di polarità, che ti spinge a credere che il Bene sta Dillà. E che quindi per conseguenza non sta Diquà. Per cui Diquà è bene non aspettarselo. Non cercarlo. Non desiderarlo. Possibilmente non pensarci nemmeno. L'unica opzione lecita è cercare di guadagnarselo.

Basta. Basta. Per favore basta. Facciamo davvero che basta? L'Amore non sta Dillà. Sta Diquà. E non va guadagnato. E' un prodotto Creative Commons non passibile di commercializzazione. L'Amore che sta Diquà è gratis. L'unica cosa per cui vale la pena stare al mondo, è lavorare alla consapevolezza di meritarselo per il solo fatto di essere qui. Vivi. E con un cuore che batte forte, puttana miseria.

 
 
 

Great expectations

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.

Samuel Beckett

 

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