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« AttesaMetamorfosi Umane »

La sirena Partenope

Post n°10 pubblicato il 26 Marzo 2008 da eleuterian
 

Alla mia città, triste

maschera della gioia

Il mare abbracciava quel fazzoletto di terra felice e ridente di sole. L’austero guardiano del luogo, Vesuvio sornione, a tratti borbottava l’antica presenza. Lambivano piano le coste morbide onde schiumose e s’infrangevano dolci sospiri di sale.

Tra i flutti troneggiava la bella di chiome scirocche che cantava, ammaliando di musiche rare l’intera città.

Abisso e orizzonte si fondevano: un’unica linea d’azzurro che corre per posti lontani la mostrava all’uomo che navigò senza una meta. In essa si perdeva, distesa di magie sottomarine, lo sguardo pensoso di quella sirena. Lo splendido corpo di donna, sinuoso e di desideri nascosti, si mostrarono sullo spuntone di roccia azzurrognola, nel mezzo del mare in tempesta.

Partenope aspettava l’amante disperso.

Attendeva ma invano.

Più nero il mare, più scuro il cielo al mattino si fece,acque salate sbattevano sui muriccioli a difesa dell’antico sito.

Le imposte serrate proteggevano i vetri e le genti, le strade deserte aspettavan tremanti la fine. Il castello sul mare fu solo un fantasma che fugge nelle segrete.

Si scaldò appena Vesuvio turbato.

- Perché, o Partenope saggia, sospiri sì alti lamenti? Non è tuo, forse, il mare, il sole che lo riscalda ed io stesso, che ponesti a difesa della tua bella città?

Scarmigliata e per niente assopita, la bella stentava a dargli risposta.

Sempre più immane tempesta infuriò quel giorno.

I mulinelli furon mortali alle barchette dei pescatori. Le reti da loro gettate non furono più ritirate. I pesci, in balia delle onde, stentavano a trarsi in disparte.

Partenope aspettava l’amante perduto.

Nubi grigiastre spenser le luci diurne, fulmini e tuoni echeggiarono per la città.

S’accesero voti per placar la tempesta. S’acceser candele dietro alla finestra.

Sullo scoglio, guardinga, aguzzava la vista, alla ricerca di Sebeto amato.

Cadevano giù dalla sfera celeste piogge d’uccelli di mare. I bianchi gabbiani libravan le ali con stenti e fatiche.

Fu uno di essi a spinger Nettuno a farsi sentire – Non consentirle di rovinare un luogo sì ameno! Imponile la mano sul capo e dalle la pace!

Allora dal fondo del mare Nettuno raggiunse la terra. S’assise gigante sul dirupo a lei dirimpetto. La barba grondante di mare e gli occhi grigi accigliati.

- Placa l’ira furiosa che oggi ti move! – tuonò, scotendo per aria il mostruoso tridente – Che la tua pietà prevalga e salvi la città che ti fu regalata! Ammansisci la pena che provi per il giovine perso. Gli dei non concederanno che un uomo si leghi a te di amore perenne!

Partenope fissò lo sguardo del dio, chiedendo di cose mai dette. Può un dio volere che la sua prediletta creatura soffra tale immane dolore?

Ben ricordava l’inizio del mondo, di quando si disse – Va’! A te è assegnata una terra felice. Abbine cura ed amala sempre. Sorridi per il destino che così stabilì. Godrai di una gioia perenne!

Ricordava il limpido mare al mattino, i pesci giocosi e le cantilene dei pescatori sognanti. Vedeva gli amanti a passeggio sul molo e allora spandeva nell’aria il suo bel canto.

Ovunque gli occhi volgesse vedeva lodi e altari devoti. Nessuno avrebbe mai osato odiare la bella Partenope.

Eppure fu un giorno d’aprile a renderla triste per sempre.

Nuotava felice tra l’onde serene del mare.

Raggiunse una meta ben nota: gli scogli del castello antico di mille battaglie passate.

Amava riposare lì e dir due parole col sole. Amava scaldarsi ai suoi raggi e attendere l’ora di andare.

Fu allora che udì, nell’aria salmastra, un giovane canto mai udito prima.

- Cosa ne sai – poteva ascoltare – cosa ne sai tu, Partenope dal cuore di ghiaccio, cosa significhi amarti? Cosa ne sai tu? Chi si strugge d’amore per te è perduto per sempre! Chi ti ama è destinato a morire da solo! Cosa ne sai tu, Partenope dal cuore di ghiaccio?

Il cuore non era di ghiaccio e si sciolse a quelle parole. Cercò con lo sguardo l’uomo che le aveva gettate nel vento. Voleva svelargli che un giorno anche lei avrebbe amato. Voleva mostrargli le meraviglie che le avevan donate all’inizio del mondo: la terra felice, il mare, il sole, il guardiano alle spalle.

Alzata la testa a scorgerne il volto, vide un puntino farsi più grande ed infine sparire nell’abisso, ai suoi piedi.

Muta rimase per due giorni interi.

L’aria si fece pesante, nelle reti i pesci divennero radi. Gli altari ricolmi di fiori non vennero più visitati.

Un canto lieve divenne sempre più acuto. Ebbe inizio l’immane tempesta, da tutti temuta come la fine del mondo.

Ancora Nettuno attendeva risposta, quand’ecco ch’ella scomparve lasciando a quel posto il sereno.

La protettrice della terra felice sdegnò il soggiorno e raminga, per gli oceani ignoti, s’andò portando per anni.

Scavava le sabbie e agitava tempeste. Nessuno le donava un fiore, temendone l’ira.

Fu allora che il dio del mare chiamò a consiglio il padre e i fratelli. Fu fatto convegno per prender partito.

- Era la bella di questa città!

- L’avevi assegnata in eterno a quel luogo.

- Chi sorveglierà gli scogli perenni? Vesuvio è soltanto un esperto guardiano, non può sobbarcarsi l’immane lavoro.

Le divinità ascoltarono ogni sacro parere. Arduo era intervenire.

Intanto la bella sirena affondava barche e scatenava tempeste, cantava orrenda sciagure alle terre che visitava.

Chi poteva capire il suo grande dolore?

Dalla candida spuma di Cipro, Afrodite prese parola – Mi è stato affidato l’affanno d’amore. Sia fatta giustizia! Sia fatta eccezione! E’ vero o no che può tutto l’amore? Allora che s’aprano gl’Inferi e riportino in vita il giovine Sebeto. Che vivano insieme la gioia eterna degli innamorati!

Si aprirono i varchi dell’oscuro Ade.

Così come Orfeo ottenne Euridice, gli dei riportarono in vita Sebeto.

Dagl’antri bui della terra fu posto a cantare su un dirupo già noto.

S’espanse il suo canto d’amore e di lode per tutte le terre emerse. Accorse, commossa, Partenope muta.

- Non posso cambiare le leggi dell’Universo – disse Giove dal cielo – ma posso operare perché questo giovine e tu viviate per sempre vicini.

Entrambi piansero di gioia e di amore.

Allora il dio trasformò la bella in fertile terra, a ridosso del mare e il giovine fu fatto fiume possente ad attraversarla, baciandola e in eterno abbracciandola.

S’amarono infine il fiume e la terra.

Pubblicato su "Linee Letterarie"
Rivista Lettararia, Padova aprile/maggio 2004

e su www.pennadoca.net

 
Rispondi al commento:
jigendaisuke
jigendaisuke il 26/03/08 alle 19:03 via WEB
E' tua? davvero molto bella! povera partenope (e mi riferisco a napoli)
 
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