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« Raggi di SoleChe sia vero? »

Lentamente la stanza cominciò ad illuminarsi

Post n°14 pubblicato il 06 Aprile 2008 da eleuterian
 

Lentamente la stanza cominciò ad illuminarsi del primo sole del mattino. Marzo si presentava carico di Primavera.

Di strazio, invece, quelli che, muti e silenti, quasi fluttuando sul pavimento della fredda casa, si appropinquavano mesti al capezzale.

Due baci al padre e alla madre, un abbraccio ai fratelli e, poi, come protocollo esigeva, lacrime e sussulti di dolore.

Ah, quanto la zia ha pianto e urlato! L’hanno dovuta quasi trattenere dallo scuotere la defunta nipote! E lo zio, dimentico anche di se stesso perché cerebralmente stroncato da un triste morbo, pur sembrava ricordare chi fosse colei che giaceva esanime sul letto.

Malori vari si susseguirono nei più disparati luoghi dell’abitazione. La signora Antonietta, onnipresente delle avventure del Palazzo Fontana, si aggirava avventurosa ed intrepida tra gli ospiti con caffè e consolatorie parole di cordoglio, con la sua voce rauca e le sue mani sempre olezzanti di candeggina.

Di là, nel salone, qualcuno ha cominciato ad adagiare i fiori. Ci sono corone di fiori che provengono persino da fuori Napoli. Da Genova, da Firenze, da Vicenza, da Roma…

…ecco, adesso tutto è silenzio attorno ai mobili ricoperti di bianchi panni. Nessuno più ha voglia di piangere e qualcuno comincia di già a guardare l’orologio. Si comincia a mormorare, a sussurrare pettegolezzi sulla morta. Su chi è presente e chi, invece, non lo è.

Proprio mentre Sabrina e Virginia osservano che manca il grande imputato, eccolo che, a capo chino, entra nella stanza, accompagnato soltanto dalla sua mesta ombra.

Con la barba e i capelli un po’ sconvolti, ben vestito, ma con un tocco di fretta nel suo abbigliamento, si accostò appena al letto, quasi non posandovi lo sguardo, né su lei né sui presenti.

Il silenzio diviene ancora più pesante. Di quei silenzi accusatori, quasi. Pesanti, di parole che non si possono dire.

Nessuno l’avvicina.

Nemmeno i genitori di lei né lui osa avvicinarsi loro.

Tutti sanno, ma nessuno apre bocca. Tutti bramano chiedere, ma nessuno osa proferir domanda.

Ma il buon ascoltatore, colui che di parole non ha bisogno per intuire quali pensieri, quali discorsi affollano le menti dei presenti, sa.

E, per non guastare il silenzio, che pure ama, tace.

Era sabato.
1 marzo 2008.

D’un tratto, mi ritrovai distesa sul letto. Mi potevo guardare dall’alto. Ero seduta accanto ai miei parenti e li vedevo piangere e disperarsi.
Non potevo credere di essere davvero riuscita a morire. IO! Che ho sempre creduto di essere una specie di creatura immortale…mah!

Un giorno perfetto per morire.

Un giorno di festa.

Almeno amici e parenti non hanno potuto trovare scuse. Sono dovuti venire.

E poi è sabato mattina. Se non si fa tardi e tutto procede secondo i piani, per mezzogiorno saranno tutti liberi di tornare alle loro case e alle loro faccende. Avranno fatto la loro buona azione di fronte a dio e di fronte a me.
Di fronte a dio, per chi ci crede.

Di fronte a me… si, perché magari pensano che io, morta, sul letto, li sto a sentire ancora!

Beata illusione dei viventi!

Ho lasciato detto ai miei di far entrare tutti coloro che si fossero presentati. Anche quei parenti che, ormai, non sono altro che un nome nei miei ricordi di ragazzina. Di fronte alla mia morte, voglio essere buona. Accoglierò tutti!

Prima di spirare, mi sono ricordata della storia di quel tale che finge di morire per vedere chi avrebbe pianto al suo funerale. Se la spassò proprio, secondo me! E’ bello morire per gioco, per burlarsi della vita che si ingegna a farti ingegnare e poi, alla fine, comunque ti fotte! Almeno, per una volta, fingiamo di fregare noi la vita!

L’unico problema – se cosi vogliamo chiamarlo – è che io, però,  non mi alzerò più da questo letto. Tra qualche ora, dopo che tutti si saranno straziati al mio capezzale, verrò sollevata, magari pure con disgusto – sicuramente con indifferenza – da quattro uomini sconosciuti vestiti di nero, tutti eleganti e compiti, nel loro sguardo di pietra, indossato apposta per l’occasione, e verrò riposta, come un oggetto antico, come un elettrodomestico che si è rotto e non si può riparare più perché ormai ne fanno di nuovi e di più belli, nella mia dimora eterna, la bara – tutta lucida, intarsiata, persino scelta dai miei cari congiunti – dove, nel giro di qualche giorno – e voglio essere ottimista – comincerò a decompormi per scomparire, piano piano, senza che io me ne renderò conto, nella nuda terra, diventando polvere senza più un senso e un significato, senza sentimenti e sensazioni, senza più dolore, gioia, passione o altro. Mi porteranno in chiesa, per salvare la mia anima impura e poi un’ultima passeggiata in comitiva, verso il luogo che, secondo voi viventi, abiterò col corpo. Col corpo, sì, perché con lo spirito mi vedete proiettata al Paradiso o all’Inferno – chissà se sono stata cosi cattiva da meritarmelo!

Sono morta. Come i morti che, qualche volta, ho visto in vita.

Vabbè, non è che, in vita, me ne andavo per funerali a vedere cadaveri!

I morti che ho visto sono stati un paio – mia nonna paterna e la mamma del professore di italiano delle scuole medie -  e tutti e due, in verità, non erano che una bara. Non ho mai avuto il coraggio di salutare il caro estinto. 
Mi fa impressione vedere una persona distesa, immobile, che non respira più, circondata da gente che piange o che parla dei fatti suoi, mi dà ai nervi vedere uomini che stanno sul balcone a fumare oppure donne che spettegolano e mi innervosisce anche il continuo via vai di chi ti viene a dare le condoglianze.

Questa volta, però, non posso evitare di veder rappresentato tutto ciò. La protagonista della tragedia, stamattina, sono IO!

Chissà quanti avranno il coraggio – direi lo stomaco! – di salutare me!

Quanti di loro avranno la faccia tosta di entrare nella mia stanza e riusciranno pure a versare qualche lacrima, amareggiandosi per la mia dipartita! A parte le lacrime sincere di mamma e papà, chi sinceramente mi rimpiangerà? Anzi, mi chiedo: verrò rimpianta?

Ma veniamo alle cose serie.

Morire non è uno scherzo. Bisogna prepararsi e preparare ogni cosa. Tu te ne vai, ma lasci tante di quelle cose di te nella casa che abbandoni che è bene decidere prima come debba essere tutto sistemato: i libri, che a centinaia occupano ogni spazio vuoto, li ho donati al Comune, che ne farà una piccola ala della piccola biblioteca per i lettori meno abbienti; i cd li ho destinati a mio fratello, cosi come i dvd – è un intenditore di musica e di films! A mia sorella, niente…ai miei…

…a proposito, ho lasciato sulla scrivania un paio di lettere. Le ho scritte ieri sera, prima di abbandonarmi sul letto. Parlano del significato dell’esistenza. Sono una serie di luoghi comuni, di quelli che ci accompagnano durante il cammino su questa terra infame, e non serviranno che a colmare il vuoto che lascerò nel cuore di chi mi ama. I miei genitori, innanzitutto, che ormai vecchi e tardi finiranno i loro giorni piangendomi, e i miei fratelli, che fortunatamente per loro, continueranno a vivere, presi dalle loro cose e di tanto in tanto volgeranno a me un dolce pensiero per mettersi a posto la coscienza.

Di là, sulla libreria, ho lasciato le fotografie che mi sono più care: quella dell’adozione a distanza, quella di Claudio Baglioni con dedica autografata e quella di gruppo scattata con gli amici a Pasquetta.

Nell’armadio ci sono tutti  i vestiti.  Gradirei che li bruciaste. Non mi andrebbe di sapere che qualcuno li indosserà al mio posto.

No.

Piuttosto, nel cassetto in basso a destra, ci sono i regali che ho più cari. 

Quelli d’oro prendeteli, senza problemi. L’oro non mi è mai piaciuto, lo sapete. Se ho indossato un gioiello è stato un gioiello falso, di rame forse, di ferro.

Il ciondolo a forma di fiore, quello che mi ha regalato Virginia per i miei 30 anni, praticamente 3 mesi fa, riponetelo con me.  Quel fiore mi ha accompagnato nei giorni tristi, quando mi sentivo sola e sconfitta. Bastava che l’indossassi, e allora il sorriso ritornava sul mio volto, perché quell’amica cara, purtroppo fisicamente da me lontana, la avevo al mio fianco e mi faceva cosi compagnia.

Pentesilea, di Heinrich von Kleist, restituitelo a Giuseppe, mio fratello. Non sono riuscita a terminarlo, perché sono morta…ma ditegli che, fin dove ho letto, mi è piaciuto. Ed aveva ragione: io, in quest’ultimo anno, sono stata quella Pentesilea di von Kleist  e ho potuto appieno condividere lo strazio della regina delle Amazzoni della pagina 38, quando dirà, in preda alla disperazione del non poter disarmare Achille: « …meglio essere polvere, che una donna che non seduce[1]».

Non dimenticate di consegnare a Sabrina la lettera che ho lasciato per lei. Voglio che sappia che per me è stata davvero una fortuna averla incontrata. Mi ha aiutata tantissimo, mi ha ascoltata tantissimo, mi ha capita e ha aiutato anche a capirmi. Grazie alla sua amicizia, mi sono vista migliorare. E ne avevo bisogno, credetemi. Un giorno capirete il perché.

Certo, a ben vedere, è lungo l’elenco delle persone per le quali ho avuto un pensiero, l’altro giorno. Ma ognuno di loro, di certo, sa da sé quale arricchimento ha avuto la mia vita nell’incontrare la loro, anche se per un breve cammino.

Una cosa vorrei non fosse dimenticata. Una cosa che mi ripromettevo già da tempo di fare in vita. Quella borsa di paglia, ancora sigillata, quella contenente quel che volli credere un dolce  pensiero, vi prego, per l’amore che mi portate,  gettatela via!

Cosi come lui ha gettato via me!



[1] H. von Kleist, Pentesilea, Torino, Einaudi Editore, 1989

 

 
Rispondi al commento:
jigendaisuke
jigendaisuke il 09/04/08 alle 01:15 via WEB
mi ha lasciato un pò così....
 
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