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Nella giungla amazzonica fra Perù, Brasile e Venezuela sopravvivono nascoste tribù sconosciute di indios bianchi che dicono di discendere dagli extraterrestri. Tra verità e leggenda, questa è la cronaca di un mondo perduto, dalla notte in cui gli dei arrivarono da Schwerta. Alfredo Lissoni "Ero proprio in Venezuela, ai confini dell’Amazzonia colombiana, l’anno in cui la notizia rimbalzò su tutti i giornali brasiliani. Si trattava di questo: erano state avvistate, da due passeggeri di un bimotore che stava sorvolando la zona, tre piramidi di più di cento metri d’altezza, disposte in forma triangolare e situate sull’estesissima frontiera del Brasile. Su questa "bomba" giornalistica si erano buttati anche Erich Von Daeniken e Jacques Cousteau". A parlare è la linguista ed archeologa dilettante basca Mireille Rostaing Casini che, nel suo libro "Archeologia misteriosa" (1) racconta: "E la storia non finiva qui. Ai primi del 1979 erano state fotografate da un aereo dodici piramidi, grandissime, nella foresta del dipartimento peruviano di Madre de Dios, anch’esso confinante con il Brasile. Queste fotografie le mostrano in collocazione simmetrica, le une vicine alle altre, in due file di sei. Le piramidi si trovano in una regione dove si pensa sia esistito un grandissimo e potente impero, detto del Gran Paititì, e di cui non si sa praticamente nulla se non che nel suo territorio si trovavano enormi ricchezze in oro ed una grande quantità di tesori nascosti. Un indio mi disse che in questa zona esiste un passaggio nella collina denominata Tampu-Tocco, attraverso il quale si passa ad altri mondi situati nelle viscere della terra". IL MISTERO DI PANTIACOLLA La storia delle dodici piramidi del Gran Paititì scatena da anni polemiche infuocate. Diversi esponenti dell’archeologia e della scienza ufficiale, in testa lo stimatissimo geologo brasiliano Aziz Nacib Ab’Saber, ritengono trattarsi soltanto di curiose formazioni rocciose, coperte di vegetazione (2). Di diverso parere sono stati due esploratori dilettanti italiani, l’ormai scomparso Mario Ghiringhelli e suo cugino, il milanese Marco Zagni. "Nell’estate del 1979 mio cugino Mario, provetto esploratore, si trovava in Perù quando seppe da una radioamatrice di Lima che il Radio Club Peruviano di Cuzco aveva perso i contatti con una spedizione francese avventuratasi nel dipartimento di Madre de Dios", ci ha raccontato Zagni. "Non era questo il primo caso. Tutte le spedizioni che si erano avventurate in quella zona, alla ricerca di una sperduta città precolombiana, erano scomparse misteriosamente. Nel caso dei francesi, l’ultimo messaggio da questi inviato diceva: ‘Siamo attaccati da una tribù sconosciuta di indios bianchi, alti almeno due metri’. Ora, io non ho mai sentito parlare di giganti bianchi in Amazzonia, almeno nei testi canonici, in quanto nel folklore sudamerindio esistono da secoli leggende di questo tipo. L’episodio di Madre de Dios sembrava proprio confermare simili dicerie. E non solo. Dopo questi fatti, io e mio cugino abbiamo condotto molte ricerche d’archivio ed abbiamo scoperto che l’episodio si era verificato in una zona fluviale, quella di Pantiacolla, ove, nel 1975, i satelliti meteo Landsat avevano identificato un’area piana, ellittica, al cui interno si notavano dodici strutture piramidali in fila. Per gli archeologi esse sono solo curiose formazioni naturali, ma io non la penso così. Del resto, nessuno è mai andato a controllarle di persona, eccezion fatta per il frettoloso sorvolo a bordo di un elicottero, da parte di uno studioso italiano". GLI INDIOS BIANCHI Esiste dunque, nel cuore dell’Amazzonia, una civiltà perduta, forse nemmeno umana, legata al culto delle piramidi? Piramidi, come sottolinea la Rostaing Casini viste le foto, non di tipo azteco ma egizio? É difficile sostenerlo, ma da un nostro collaboratore, il fisico salvadoregno Luis Lopez spesso a spasso per le Americhe, abbiamo ottenuto ulteriori elementi. "Durante alcune mie ricerche in Salvador", ci ha raccontato Lopez nel maggio del 1993, prima ancora che Zagni riesumasse l’episodio di Pantiacolla, " ho incontrato un archeologo italiano, Mario P., che da anni lavora in Perù. Quest’uomo, appartenendo all’establishment scientifico uffiale e temendo il ridicolo, ha preteso l’anonimato (ma noi abbiamo tutti i suoi dati, n.d.A.); mi ha raccontato di avere visto degli UFO nella zona e di avere scattato delle foto a certe bruciature circolari; Mario ha aggiunto che questi fenomeni sono ricorrenti nella foresta amazzonica al punto che gli indios, affatto spaventati, hanno ribattezzato i visitatori spaziali ‘gli incas’, intesi come appartenenti ad una razza superiore, di signori, come sono considerati gli antichi incas". "Non solo", prosegue Lopez. "L’archeologo ha anche scoperto una serie di scheletri umani lunghi due metri, appartenenti ad una razza sconosciuta. Questa scoperta è per ora mantenuta top secret e non so se e quando essa verrà divulgata". Non finisce qui. La vicenda degli indios bianchi è confermata anche da un altro esploratore, il professor Marcel Homet, archeologo, paleontologo, antropologo ed etnologo francese. Quest’ultimo, durante l’esplorazione dell’Amazzonia brasiliana, nella zona dell’Urari-Coera, si era imbattuto in due indios sbucati dalla foresta. "Senza alcun preavviso", scrisse Homet (3), "la cortina di foglie della giungla si aperse e ci apparvero due indios bellissimi. Ci studiavano con attenzione, infastiditi dal fatto che puntassimo loro contro i nostri fucili. Ebbi agio di osservarli attentamente. Erano esseri umani di forme bellissime. Dove avevo visto degli esseri simili? Ma certo, in Arabia! I nasi aquilini, le fronti spaziose, gli occhi grandi, spalancati, ed il colore chiaro della pelle...Erano uomini di razza bianca, veri mediterranei, progenitori, contemporanei o parenti di questa razza". I due indios vennero in seguito identificati da una delle guide del professor Homet come Waika, membri di una tribù assai poco conosciuta, "pericolosi e crudeli combattenti" che avevano la "curiosa" usanza di rapire donne dalla pelle bianca con cui accoppiarsi, forse per preservare il colore della loro pelle, oltremodo insolito in quelle regioni selvagge. Anche un altro celebre esploratore d’inizio secolo, il colonnello inglese Percy Fawcett conferma, nel suo diario (4), dell’esistenza di indios amazzonici dalla pelle bianca. "A Jequie, un centro piuttosto grande che esportava cacao a Bahia, un vecchio negro di nome Elias José do Santo, ex ispettore della polizia imperiale, mi raccontò di indiani dalla pelle chiara e dai capelli rossi che vivevano nel bacino del Gongugy, e di una "città incantata" che trascinava sempre più avanti l’esploratore, finché svaniva come un miraggio. Seppi poi dei Molopaques, una tribù scoperta a Minas Gerais in Brasile nel secolo XVIIº; avevano la pelle chiara e portavano la barba; le loro donne avevano capelli biondo oro, bianchi o castani, piedi e mani piccoli, occhi azzurri". COLONIZZATORI DA SCHWERTA Ma come erano arrivati dei bianchi nel cuore della foresta amazzonica? La risposta la troviamo in un altro libro, la "Cronaca di Akakor" del giornalista e sociologo bavarese Karl Brugger (tanto per cambiare, assassinato in circostanze misteriose nel 1984). Brugger conobbe bel 1972 a Manaus, in Brasile, il capo indio Tatunca Nara, a suo dire discendente di una mitica tribù "spaziale", gli Ugha Mongulala. Secondo il racconto di Tatunca Nara, i Mongulala vivevano nel cuore dell’Amazzonia, sin dalla notte dei tempi, "in piccoli gruppi, in caverne e grotte, camminando carponi". Poi, nell’anno 13500 a.C. del nostro calendario, "erano giunti gli Dèi. Essi portarono la luce". "Gli stranieri", ha raccontato il capo indio a Karl Brugger, "apparvero all’improvviso nel cielo su brillanti navi d’oro. Segnali di fuoco illuminarono la pianura; la terra tremava ed il tuono risuonava sulle colline. Gli uomini si prostrarono con stupore e profondo rispetto davanti ai potenti stranieri, che vennero ad impossessarsi della terra". "Gli stranieri dissero che la loro patria si chiamava Schwerta, un mondo lontano nella profondità del cosmo. A Schwerta viveva la loro gente, ed essi erano partiti di là per visitare altri mondi, e portarvi la loro scienza". I SIGNORI ANTERIORI "Schwerta", prosegue Tatunca Nara, "era un immenso impero, formato da mondi numerosi come i granelli di polvere di una strada. I visitatori ci dissero che ogni seimila anni i due mondi, quello dei nostri Primi Maestri e la nostra terra, s’incontreranno. E che allora gli Dei torneranno. "Dovunque sia e qualsiasi forma abbia Schwerta, con l’arrivo di questi visitatori dal cielo cominciò sulla terra l’Età dell’Oro". I Maestri, come vennero prontamente ribattezzati dagli indios, "vennero sulla terra con 130 famiglie, per liberare gli uomini dall’oscurità. E loro accettarono e riconobbero gli uomini come fratelli. I Maestri fecero stabilire le tribù nomadi e divisero lealmente ogni frutto della terra. Pazientemente e senza stancarsi, ci insegnarono le loro leggi, anche se gli uomini facevano resistenza, come bambini ostinati. Per questo loro amore verso gli uomini, per tutto quello che diedero ed insegnarono noi li veneriamo come i nostri portatori di luce. I nostri migliori artigiani riprodussero le loro immagini per testimoniare in eterno la loro grandezza. Così sappiamo come erano fatti i nostri Signori Anteriori". "I Signori di Schwerta", racconta Tatunca Nara, "erano simili agli uomini. Il loro corpo esile ed i tratti del volto erano molto delicati. Avevano la pelle bianca ed i capelli neri con riflessi blu. Portavano una folta barba e come gli umani erano vulnerabili, perchè fatti di carne. C’era però un particolare segno fisico che li distingueva dagli abitanti della Terra: essi avevano alle mani e ai piedi sei dita (vi ricorda qualcosa?, n.d.A.). Questo era il segno dell’origine divina". ALIENI, NON TERRESTRI I Maestri, prosegue il capo indio, non erano terrestri. Tatunca Nara, nel ricostruire per Karl Brugger l’intera storia del suo popolo, divideva decisamente il periodo dell’arrivo dei visitatori spaziali (peraltro corrispondente, secondo alcune fonti, alla reale nascita della civiltà egizia) dal successivo arrivo di esploratori bianchi: i goti, nel 570 d.C., gli spagnoli, nel 1532, i nazisti, nel 1941. I Maestri "tracciarono canali e strade, seminarono piante nuove, sconosciute a noi uomini. Insegnarono ai nostri primitivi antenati che un animale non è solo una preda da cacciare, ma anche una preziosa proprietà, che allontana la fame. pazientemente trasmisero loro il sapere necessario per comprendere i segreti della natura. Sorretti da questi principi, gli Ugha Mongulala sono sopravvissuti per millenni a gigantesche catastrofi e guerre sanguinose". Grazie agli Schwerta, gli Ugha Mongulala costruirono un impero che si estendeva dal Perù al Brasile al Mato Grosso (in questa regione scomprave Percy Fawcett, alla ricerca di una città perduta). I Maestri, prosegue Tatunca Nara, conoscevano le leggi dell’intero cosmo. Unendosi carnalmente con gli indios, generarono la tribù degli Ugha Mongulala, gli "alleati eletti". Costoro, eccezion fatta per le sei dita, nei tratti somatici ricordavano molto i visitatori. Gli alieni costruirono diverse città, e molte piramidi, "un mezzo per raggiungere la seconda vita", sostiene Tatunca Nara. GUERRE STELLARI E un brutto giorno gli dei dovettero ripartire. Erano in lotta con un altro popolo dello spazio. "Nel 10481 a.C. gli Dei lasciarono la Terra", sostiene Tatunca Nara. "Le navi dorate dei nostri Primi Maestri si spegnevano nel cielo come le stelle. La fuga degli Dei gettò il mio popolo nell’oscurità. Fummo attaccati da esseri estranei simili agli uomini, con cinque dita ma con sulle spalle teste di serpenti, tigri, falchi e altri animali. Disponevano di una scienza avanzatissima che li rendeva uguali ai primi Maestri. Tra queste due razze di Dei scoppiò una guerra. Bruciarono il mondo con armi potenti come il sole. Ma la previdenza degli Dei salvò gli Ugha Mongulala dalla distruzione". I visitatori di Schwerta costruirono nel sottosuolo amazzonico tredici dimore sotterranee, disposte secondo la costellazione da cui provenivano. E convinsero gli indios a rifugiarsi dentro caverne scavate nella roccia, e murate dall’interno. Con questo espediente gli indios sarebbero scampati alle devastazioni planetarie scatenate dalle lotte fra dei, come pure a successivi cataclismi e perfino all’avanzata dei conquistadores. Questo elemento mi è stato in parte confermato da un’esploratrice italiana che ha condotto diverse spedizioni in Perù, la milanese Elena Bordogni. "Durante una spedizione", mi ha raccontato, "incappammo in un camminamento che costeggiava una montagna e che fiancheggiava un burrone. Sul sentiero si vedevano, pietrificate, le orme dei piedi dei sacerdoti che anticamente percorrevano quella via. Con grande sorpresa ci accorgemmo che ad un certo punto il sentiero si interrompeva dinnanzi ad una parete liscia della montagna. Solo in seguito, scoprendo che le grotte erano state murate dall’interno, capimmo dove finissero quelle impronte di pietra". Si trattava delle grotte Mongulala. Anche la Rostaing Casini ha scoperto, nelle tradizioni orali peruviane, testimonianze dell’improvvisa fuga e scomparsa degli Ugha: "Secondo le tradizioni dei mistici, circa 6000 anni or sono si sarebbe verificato un terribile cataclisma che avrebbe indotto una parte dei Mongulala a rinchiudersi nel fitto della foresta; altri avrebbero invaso i territori costieri dell’oceano Pacifico, sedi di civiltà preincaiche, per poi imbarcarsi verso ignoti lidi. Alcuni si sarebbero stanziati nell’Isola di Pasqua". |
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