Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Riflessioni sui coloranti organici

Post n°113 pubblicato il 24 Giugno 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

A proposito della crisoina dell'altra volta, e parafrasando un noto presentatore, si potrebbe dire che "sorge spontanea una domanda": perchè questa sostanza è un colorante e mille altre non lo sono?
Come mai certe molecole hanno questa bella caratteristica?

Non si può naturalmente rispondere a questa domanda in poche righe, ma si può tentare di riassumere qualche concetto utile.
Il colore di un composto dipende dalla lunghezza d'onda λ della luce che esso assorbe.
Se la luce viene assorbita fuori dal campo del visibile (diciamo tra 380 e 680 nm), il composto appare senza colore.
La percezione cromatica si ha in corrispondenza del colore complementare della radiazione aasorbita: la luce che arriva all'occhio manca proprio di quella radiazione assorbita e l'occhio vede il colore complementare.


Cerchio cromatico

 

Siccome l'occhio umano non è in grado di distinguere i vari colori quando viene colpito contemporaneamente da radiazioni di λ diversa, oltre ai colori "puri", esistono infinite combinazioni diverse, che danno la sensazione della tonalità cromatica a seconda dell'assorbimento più o meno selettivo da parte della sostanza colorata.

La presenza di una particolare struttura e di certi raggruppamenti atomici nella molecola di un composto chimico conferisce la capacità di assorbire selettivamente luce visibile e rendere quel composto colorato.
L'assorbimento delle radiazioni (quindi energia!) da parte delle molecole è in grado di provocare delle transizioni energetiche nelle orbite degli elettroni più esterni, impegnati o non impegnati in un legame, che passano da uno stato fondamentale ad uno stato eccitato.
Questi elettroni possono appartenere ad un legame σ (per es. legami semplici :C-C:), oppure π (legami doppi :C=C:) oppure a doppietti elettronici liberi (su O, N, ecc.).
Ad elettroni meno legati corrisponde una minore quantità di energia da fornire da parte della radiazione per portarli ad uno stato eccitato, e siccome l'energia di una radiazione è inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda λ, sostanze con legami π (nei quali gli elettroni sono meno legati) saranno eccitabili da radiazioni maggior lunghezza d'onda, cioè nel visibile.
I composti con solo legami σ, più forti, saranno eccitati da piccole lunghezze d'onda, magari nell'ultravioletto, e quindi la sostanza appare non colorata.

Succede che se in una molecola sono presenti doppi legami coniugati (-C=C-C=C-) gli elettroni risultano maggiormente delocalizzati, con conseguente ulteriore diminuzione energetica tra un livello e l'altro e più facile eccitabilità da parte di una radiazione visibile.
Ciò può essere necessario ma non sufficiente ad impartire colore ad una sostanza, rendendosi indispensabile la presenza di gruppi attivanti per diminuire ultriormente l'energia di eccitazione.

La vecchia teoria classica di Witt (più intuitiva in un semplice contesto come questo) affema che una molecola per apparire colorata deve possedere almeno un gruppo "cromoforo" e percolorare almeno un gruppo "auxocromo".
I gruppi cromofori sono i seguenti:

:C=C: etilenico
:C=O carbonilico
:C=NH imminico
-N=O nitroso
-NO2 nitrico
-N=N- azo
-N=NO- ossiazo


I gruppi auxocromi sono i seguenti:

-OH ossidrilico
-OR alcossilico
-NH2 amminico e derivati -NHR, -NR2, -NHAr, -NHOH, -NH-NH-
-SO2OH solfonico
-COOH carbossilico

Un auxocromo permette sia la fissazione del colorante ad un substrato sia di aumentare la λ della radiazione assorbita rendendo colorata una molecola che senza di esso assorbirebbe nell'UV, oppure di spostare verso il rosso la tonalità (diverso effetto di una stessa causa).

La teoria di Witt è incompleta e non spiega per esempio la colorazione dell'importantissima classe di sostanze derivate dal trifenilmetano; allo stesso modo non è detto che un composto che abbia un semplice gruppo cromoforo ed uno auxocromo sia un colorante... ci vogliono altre condizioni (una bella serie di doppi legami coniugati per esempio), la complessità molecolare, ecc.

Per concludere queste semplici riflessioni, torniamo alla crisoina e verifichiamo:

-c'è il fondamentale gruppo -azo? Sì!
-c'è il gruppo solfonico? Sì!
-ci sono ossidrili? Sì!
-ci sono doppi legami coniugati? Sì!
-il tutto è sistemato in una bella molecola abbastanza complessa? Certo!

Jawohl! esclama allora Herr Otto Witt,... perchè mai la crisoina non avrebbe il sacrosanto diritto di farti una bella macchia gialla sulla camicia?

 

 
 
 

Sintesi della Crisoina

Post n°112 pubblicato il 16 Giugno 2011 da paoloalbert

Dopo qualche divagazione "elettrostatica" (ma fatta con molta soddisfazione!) torniamo a noi, ovvero alla chimica sperimentale.

Attore protagonista odierno è personaggio secondario della saga dei coloranti azoici derivati dall'acido solfanilico.
L'acido solfanilico (p-aminobenzensolfonico NH2-C6H4-SO2-OH) dà origine ad una notevole serie di prodotti intensamente colorati in genere nei toni rossi, i più noti dei quali sono il metilarancio (solfanilico + dimetilanilina) e l'Arancio II (solfanilico + beta-naftolo).

Ho provato a fare un azoico meno conosciuto, derivato dalla copulazione (termine di chimica organica...) dell'acido solfanilico con la resorcina; il colorante risultante era impiegato in passato per la tintura di lana e seta e addirittura come colorante alimentare (E103, ora proibito): si tratta della crisoina [Sodio p-(2,4-diidrossifenilazo)-benzensulfonato].


Crisoina


Materiale occorrente

- Acido solfanilico p-NH2-C6H4-SO2-OH
- Resorcina m-HO-C6H4-OH
- Sodio nitrito NaNO2
- Acido cloridrico
- Sodio idrossido
- Sodio cloruro
Vetreria opportuna e ghiaccio

- In un becker da 100 ml sciogliere 2,5 g di acido solfanilico e 1 g di NaOH in 40 ml di acqua.
Aggiungere 1,3 g di NaNO2 sciolti in 5 ml di acqua e portare tutto a circa 2-3° con bagno di acqua e ghiaccio. Aggiungere goccia a goccia HCl al 25% fino a reazione acida, sempre mescolando energicamente ed evitando che la temperatura salga oltre i 5°.
In un becker da 50 ml preparare intanto una soluzione di 1,6 g di resorcina e 1,2 g di NaOH in 15 ml di acqua, posti sempre nel medesimo bagno di acqua e ghiaccio.
Mescolando, aggiungere pian piano la seconda soluzione alla prima: il liquido assumerà immediatamente prima una colorazione aranciata e poi sempre più scura fino a copulazione avvenuta.

Crisoina 1Il problema maggiore a questo punto è che la separazione, perchè la soluzione alcalina di crisoina e la crisoina stessa è solubile in acqua. Innanzitutto neutralizzare cautamente con HCl e portare fino a reazione acida, quindi aggiungere NaCl solido fino a saturare la soluzione (ne serve circa una ventina di g), mescolando con pazienza fino a dissoluzione completa del sale, eventualmente aggiungendone.

Crisoina 2La maggior parte della crisoina precipita sotto forma di polvere rosso-arancio; lasciare in riposo un paio d'ore e poi filtrare su buchner sotto buona aspirazione perchè il colorante tende fortemente ad intasare il filtro formando una massa appiccicosa.

Crisoina 3

 

Lavare con soluzione satura di sale, aspirando bene per eliminare quanto più liquido possibile e poi essicare lentamente e con fatica all'aria.
Purtroppo il colorante rimane un po' impregnato del cloruro di sodio rimasto nella poca acqua sul filtro; non è molto ma comunque il prodotto è leggermente "salato".

Ho provato a purificare per soluzione ma è quasi impossibile perchè la crisoina non è solubile nei solventi apolari; sicuramente una buona passata nel soxhlet con etanolo riuscirebbe a risolvere il problema, ma per ora ho tenuto il prodotto così com'è.

 

Crisoina 4

 

La crisoina secca si presenta come una polvere color ruggine, discretamente solubile in acqua e in etanolo; tinge i tessuti in colore dai toni caldi dal giallo all'ocra ed è anche un indicatore di pH nel range basico 11-12,7 (giallo per pH <11 e rosso per pH >12,7

 

Crisoina 5

 
 
 

Generatore elettrostatico Van de Graaff - Seconda parte

Post n°111 pubblicato il 11 Giugno 2011 da paoloalbert

Ecco la macchina di Van de Graaff completa!

 

Vdg 1


La cinghia
è il componente che più mi ha impegnato nelle sperimentazioni... alla fine è risultato vincente un elastico nero da 40 mm lungo un metro, debitamente incollato a formare un nastro continuo; è composto per l'84% da fibra poliacrilica e il 16% da fili di gomma.
Altrettanto bene funzionano il PVC ed il polietilene (quello delle coperture per le serre), ma quest'ultimo è difficilissimo da incollare e poco elastico.
Il nastro di gomma gialla di tipo "para" funziona benissimo ma è di più difficile reperimento.
Invece la tipica gomma nera da camera d'aria di bicicletta ha un rendimento pari esattamente a zero .

Chi avesse la vaga intenzione di fare un modello di questo interessante generatore elettrostatico si guardi anche la serie triboelettrica dei materiali, nella quale sono elencate le proprietà di elettrizzazione per strofinio reciproco fra molti materiali con i quali costruire i rulli e la cinghia.

La tensione di uscita risente pesantemente dell'umidità atmosferica, andando quasi a zero quando l'umidità è molto elevata; in una giornata particolarmente secca supera invece i 200 mila volt.
Le scariche luminose (uno schiocco secco, s-tak!) arrivano ad un massimo di circa 8 cm (sono tanti!), mentre le scariche scure (un rumore sordo, quasi un "bop-bop") per effetto corona sono più lunghe e ramificate, fatte esattamente come dei microfulmini naturali.
L'effetto "peli sul braccio" si sente con tempo secco fino a quasi mezzo metro.

Si tenga presente che per scariche fra sfere abbastanza grandi (non fra punte) la tensione di rottura in aria secca e in corrente continua è abbastanza lineare ed è attendibile considerarla 25/30000 volt/cm.
Più di così è difficile ottenere da sfere di queste dimensioni perchè si autoscaricano per effluvio, soprattutto dalla parte forata inferiore verso la cinghia.

Attenzione a non confondere questo generatore, che funziona in corrente continua, con un generatore di Tesla, che funziona in alta frequenza.
I due dispositivi non hanno NIENTE in comune, e men che meno la potenza impegnata ed il tipo di scarica.


Se la sfera presenta anche una minima discontinuità appuntita (basta un millimetro) la tensione sfugge alla grande per effetto corona e per questo non è possibile far avvenire le scariche tra due punte.
Come scaricatore si usa una sfera (le dimensioni non sono critiche, dai 50 mm di diametro in su) fissata su un sostegno isolante e collegata a massa, ovvero al pettine inferiore del generatore e a tutte le parti metalliche adiacenti.

Nonostante la tensione sia elevatissima, la corrente è estremamente bassa e l'energia accumulata in un condensatore di capacità così piccola (17 pF) è minima, di conseguenza le scariche sono del tutto innoque; occorre solo il (notevole!) coraggio di prendere la prima scossa, poi le altre vengono da sè: non dico che ci si diverta a mettere le nocche delle dita e prendere una stecca da un centinaio di kilovolt, ma è un'impresa fattibile...
(Vista l'esperienza che mi è capitata con più circuiti elettronici nelle vicinanze, per chi ha il pacemaker direi che giocare con una VdG è un sistema quasi infallibile per tentare di fermarlo...).

La sperimentazione per l'ottimizzazione del generatore è stata stimolante ma molto impegnativa, con la conseguenza che ho dovuto smontare e rimontare i perni dei rulli un'infinità di volte per poter provare cinghie, distanze, pettini, ... (senza i cuscinetti avrei svergolato i fori nella plastica in maniera indecente).

Ci sono begli esperimenti di elettrostatica da fare con la VdG: per ora li lascio alla fantasia dei lettori.

(Una doverosa conclusione: da tempo il mio amico Guglielmo mi incoraggiava a fare questa macchinetta; siccome ora sta passando un periodo personale veramente difficile, a lui dedico questo lavoro).

 
 
 

Generatore elettrostatico Van de Graaff - Prima parte

Post n°110 pubblicato il 08 Giugno 2011 da paoloalbert

Se è vero che alla fine tutti i nodi vengono al pettine, è arrivato finalmente al pettine anche questo nodo: la costruzione di una macchina Van de Graaff, che avevo in progetto da tempo immemorabile.
Di mister Robert Jemison ho già parlato la volta scorsa; del principio di funzionamento di questo dispositivo non parlerò perchè si trova facilmente in rete tutto quello che si vuole e quindi mi limiterò a descrivere, per così dire, solo l'hardware e le impressioni di funzionamento.

Solo due parole per i più pigri: questa macchina consiste in un motorino che fa girare una cinghia isolante impegnata da due rulli e da una grande sfera metallica cava.
La cinghia strisciando sui rulli si elettrizza e le cariche elettriche vengono trasportate dal movimento della cinghia stessa all'interno della sfera, nella quale si accumulano.
Chi non conosce niente di questa macchina... veda su YT!

 

Vdg 1

Vdg 2

 

 

 

 

 

 

Motore e rullo inferiore                  Trasformatore per il motore

 

Vdg 3

  Vdg 4

 

 

 

 

 

Cinghia e rullo superiore                Il pettine interno alla sfera

 

Premetto subito che (a meno di non fare un modellino scalcagnato) non è una costruzione facile come forse potrebbe sembrare:  una buona attrezzatura meccanica e precisione nell'esecuzione sono indispensabili.

Come materiale per tutta la struttura, a parte la base di sostegno, ho usato il plexiglass, che è un materiale esteticamente bello e adatto per lavori in alta tensione ma è schifosamente scomodo da lavorare; tuttavia avevo deciso di usare questo e con questo ho proseguito.

Per i due rulli (quello di trascinamento e quello superiore) mi sono venuti in aiuto due amici col tornio (Guglielmo e Giovanni), senza i quali li avrei  realizzati con maggiori difficoltà.
I rulli devono essere di materiali diversi: nel mio caso il rullo di trascinamento inferiore è di nylon rivestito con una boccola di alluminio e quello superiore di solo nylon; quest'ultimo è stato tornito con una forma a botte, per far sì che la cinghia si autocentri durante la rotazione.
I perni dei rulli scorrono su quattro piccoli cuscinetti a sfere e questo impone di evitare anche minimi errori nella coassialità dei fori e nella complanarità dei pezzi; nonostante le maggiori difficoltà di realizzazione consiglio caldamente questo sistema.

Il motore è un ricambio (trovato nuovo ma ad un prezzo simbolico) di un registratore a nastro professionale Lenco, con l'alberino esattamente da 6 mm e lungo quanto basta per passare da parte a parte la base della macchina; funziona in corrente continua a 30 V, e nel mio caso viene sottoalimentato a 24.

L'alimentatore
che si vede in foto è formato da un trasformatore a 24 V con ponte di diodi e condensatore; usando alimentatori switching o a regolazione elettronica si corre il fortissimo rischio che si guastino perchè i semiconduttori non reggono i rientri di picchi di alta tensione, che sono inevitabili.

La sfera superiore è costituita da due ciotole semisferiche inox del catalogo Ikea del diametro di 28 cm; ho provato con successo poco inferiore anche quelle più piccole di diametro 20 cm; la tensione d'uscita di una Van de Graaff è proporzionale al diametro della sfera.
Molto approssimativamente si può considerare che:

diametro in mm = tensione in kilovolt

Il pettine inferiore per l'effetto corona è realizzato sagomando a punte un lamierino di rame; è singolare il fatto che il massimo rendimento si ottiene posizionandolo non in corrispondenza del rullo ma spostandolo una decina di cm più in alto, lungo il nastro.
Il pettine di estrazione delle cariche all'interno della sfera consiste in un pezzo di lamierino di rame sagomato a punte, ma può più semplicemente essere costituito da un unico filo sottile (1 mm) e appuntito fissato sul vertice della calotta e scendente fin quasi a toccare il nastro.

La prossima volta concluderò il discorso hardware e vedremo il generatore completo, con i relativi commenti sul funzionamento.

 
 
 

Robert Jemison Van de Graaff, un multimilionario... in volt!

Post n°109 pubblicato il 04 Giugno 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Robert Jemison Van de Graaff nacque a Tuscaloosa, Alabama, il 20 dicembre 1901.
Frequentò l'Università dell'Alabama, dove si laureò nel 1923 in ingegneria meccanica.
Lavorò breve tempo come assistente ricercatore, quindi continuò gli studi, prima alla Sorbona a Parigi (1924-1925) e poi ad Oxford, ricevendo altri titoli di studio in fisica (1926-1928), ed attendendo a degli esperimenti in fisica nucleare con E.Rutherford, in particolare sull'accelerazione delle particelle.
Nel 1929 ritornò negli Stati Uniti come ricercatore presso la prestigiosa Università di Princeton.
Fu in questo contesto che Van de Graaff concepì il primo modello di generatore elettrostatico che porterà il suo nome; con successivi miglioramenti, riuscì con la sua originale macchina ad ottenere nel 1931 la tensione di UN MILIONE di volt.

L'apice fu raggiunto nel 1933, presso l'altrettanto prestigioso MIT (Massachusetts Institute of Technology): in un hangar aeronautico l'intraprendente Robert assemblò due enormi sfere in alluminio di 5 m di diametro, isolate dalla base (un carrello ferroviario) con colonne in ceramica alte 8 metri e del diametro di quasi due, componendo una struttura alta complessivamente quasi 15 metri.
Messa in moto la cinghia (vedremo bene in seguito questi particolari...), il 28 novembre 1933 la più grande macchina elettrostatica mai costruita produsse la bellezza di SETTE MILIONI di volt!!!

 

Van de Graaf

 

Nel 1935 V.d.G. ottenne il brevetto per la sua invenzione, destinata, oltre che come acceleratore di particelle, per la produzione di raggi X penetranti per la cura di tumori.
Lo scienziato lavorò negli anni '40 a progetti e fondazioni sempre riguardanti l'impiego di altissime tensioni; i suoi acceleratori permisero in quel periodo e fino agli anni '50 notevoli progressi nello studio delle particelle e nella struttura atomica.

Van de Graaff rimase professore al MIT fino al 1960; nel 1966 ricevette un ambito premio da parte della American Phisical Society per la sua invenzione, con la motivazione:

"un dispositivo che ha permesso un immenso progresso nella ricerca nucleare".

Morì a Boston nel 1967, a soli 66 anni, lasciando in eredità molte delle sue macchine elettrostatiche funzionanti in altrettanti laboratori di ricerca sparsi per il mondo.

                                 --ooOOoo--

Perchè  questa biografia?
Perchè in onore di Robert Jemison, e per mio diletto, ho costruito una macchina Van de Graaff (non grande come la sua...!) che la prossima volta presenterò.

 
 
 

La ballata del Deodorante

Post n°108 pubblicato il 01 Giugno 2011 da paoloalbert

Accennavo l'altra volta all'idiosincrasia mediatica verso la chimica e tutto il suo mondo, indotta da un'informazione e da una cultura scientifica media che non ardisco definire.

Ho preso a caso da uno scaffale di supermercato un deodorante spray, del quale mi piace riportare la composizione chimica e le formule relative che costituiscono questo popolarissimo prodotto.

State a sentire perchè la ballata è bella ed i protagonisti sono tanti e molto articolati... nelle loro ramificazioni laterali, se così vogliamo dire.

Allora, nella bomboletta c'è dentro (maestro, vai con la musica):

- butano H3C-CH2-CH2-CH3

- propano H3C-CH2-CH3

- isobutano H3C-CH(CH3)-CH3

- ciclopentasilossano

Deod 1

-
cicloesasilossano, idem come sopra, con un anello a 12 termini


-
alluminio cloruro AlCl3

-
isopropilmiristato

Deod 2

-
trietilcitrato

Deod 3

-
quaternium-18 hectorite (sali di ammonio quaternario di acidi grassi e particolari argille: impossibile mettere la formula)

-
bisabololo

Deod 4

-
biossido di silicio SiO2

-
butilfenilmetilpropionale

Deod 5

-
benzilbenzoato

Deod 6

-
cumarina

Deod 7

-
esilcinnamale

Deod 7

-
linalolo

Deod 8

-
estratto di foglie di aloe (evviva!)

                                       M O R A L E

Ma la chimica è cattiva, è neutra, è buona o dipende da qualcos'altro?
Ma la cumarina fatta in fabbrica o fatta dalla natura sono uguali?
Ma quella sostanza che... e così via per altre mille domande che un bimbo intelligente potrebbe fare...


Perchè non insegnamo tutto ciò ai bambini, in forma scientifica, che poi lo sappiano quando sono grandi?
Perchè dosi industriali di schizofrenia chimica mediatica e poi basta prendere un banale deodorante per poterci costruire su una ballata come questa?

 

Punto interrogativo

Troppi perchè che non avranno mai una risposta.

 
 
 

A proposito di reagenti...

Post n°107 pubblicato il 28 Maggio 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Mi è stato chiesto da un lettore di questo blog dove trovo un facile reagente, l'acido fosforico.
Dico facile perchè un fornitore di sostanze per laboratorio ha sicuramente questa sostanza in soluzione all'85% e l'H3PO4 non è certo un reagente dei più difficili.
Purtroppo non è invece possibile rispondere a questa domanda in maniera specifica, efficace e con significato valido per tutti.

Il problema dei reagenti è molto sentito per chi si diletta di chimica ed ognuno cerca di risolverlo come può con le sue fonti, che non sono replicabili in generale perchè funzione di troppe variabili.
La reperibilità dipende essenzialamente da dove si abita, dalle proprie conoscenze, dalla propria intraprendenza e determinazione, dalla disponibilità finanziaria dedicata a questo fine, soprattutto da quanto tempo ci si dedica a questo hobby, eccetera, eccetera...

Un laboratorio chimico hobbistico NON si improvvisa di questi tempi e tanto meno si improvvisa in poco tempo!

Una volta era infinitamente più semplice, perchè non esisteva quella idiota e moderna "fobia della chimica", che fa considerare agli occhi del pubblico tutto ciò che riguarda questa scienza come tossico, inquinante, esplosivo, corrosivo...
...insomma N E G A T I V O.

Spesso mi chiedono, come ha fatto il lettore mp 1981: -ma dove trovi queste "sostanze"?
La risposta è semplice per me ma troppo complicata per il ricevente, perchè ogni polverina e ogni liquido ha la sua storia, che è personale e che non è replicabile in maniera generale.
Tanto per stare nell'esempio io ho l'H3PO4 da tantissimo tempo e ricordo bene da dove arriva. La sua origine non è però replicabile dovunque, e non avrebbe significato per il lettore.
Ma se proprio uno è interessato perchè ama questo hobby, cercherà nei suoi spazi (internet, negozi specializzati, conoscenti, forum, ecc.), e prima o poi troverà ciò che cerca.

Proprio l'ultimo posto dove cercare? Il più ovvio, le farmacie... e lascio alla fantasia del lettore intuire il perchè.

 
 
 

Oggi parliamo di giacimenti minerari

Post n°106 pubblicato il 27 Maggio 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Nel blog dell'amico Marco Capponi si è parlato recentemente di quella storica miniera della Val Imperina nell'Agordino, dalla quale, partendo da una pirite debolmente cuprifera, veniva estratto il rame che fin dalla notte dei tempi suppliva al fabbisogno di questo fondamentale metallo la Serenissima Repubblica di Venezia.
Ciò mi fornisce l'aggancio per rinverdire vecchi concetti di mineralogia spicciola che rischio fortemente di dimenticare; addentriamoci allora un attimo con la fantasia in qualche vecchia miniera, che a dir il vero con la chimica ha molto a che fare.
No mines, no chemicals... direbbe qualcuno!

Intanto come si classifica un giacimento minerario?
Prima di tutto un giacimento può essere primario o secondario, a seconda se il minerale utile si trova "dove è nato" oppure se è stato trasportato altrove da eventi geologici o geomorfologici.
Giacimenti secondari classici sono le sabbie aurifere che si raccolgono nelle anse di certi fiumi, i quali hanno a monte il giacimento primario, magari in formazioni rocciose con il metallo utile assai disperso e non estraibile direttamente.
La selezione meccanica dell'acqua operata in tempi geologici rende fondamentali i giacimenti secondari; un solo esempio: senza le sabbie platinifere degli Urali non sarebbe possibile estrarre il platino dalla roccia madre!

Dal punto di vista genetico, vi sono:

- giacimenti di origine magmatica
- giacimenti di origine sedimentaria
- giacimenti di origine metamorfica

ed a sua volta ognuno di essi può essere ulteriormente sottoclassificato a seconda di diversi punti di vista più specifici.

I sedimentari sono i più intuitivi: traggono origine da processi meccanici (es. depositi alluvionali auriferi, ecc.), chimici (es. depositi salini, gessi, ecc.), biochimici (es. banchi silicei, limonitici, ecc.), organici (es. carboni fossili, idrocarburi, ecc.).

I giacimenti di origine metamorfica si attribuiscono ad azioni prevalentemente termiche, dinamiche e chimiche subite dalla roccia mineralizzata; esempi sono il talco, l'amianto, la grafite. Più ristretti sono gli esempi di metamorfismo "di contatto" tra due formazioni diverse e chimicamente reattive (in tempi geologici, s'intende!)

Di gran lunga più importanti dal punto di vista prettamente minerario sono i giacimenti magmatici (poi magari più o meno metamorfizzati), che in rapporto con le condizioni di consolidamento da cui sono provenute le soluzioni mineralizzatrici possono essere plutonici, sub-vulcanici, vulcanici a seconda della più o meno profonda localizzazione.

Ma, morale della favola, da dove è derivata quella "metallizzazione" utile a fini estrattivi?

Perchè là c'è una concentrazione a solfuro di molibdeno e qui no? Perchè qui si trova un bel filone di  pirrotina nichelifera e tutto attorno niente? La risposta certo non è semplice.
Prima di tutto è ovvio in partenza che l'elemento che ci interessa deve essere contenuto nel materiale litico originario; il perchè la natura abbia messo per esempio l'uranio in... Boemia piuttosto che in Madagascar... direi che sono fatti suoi che non possiamo certo sindacare, tanto meno in questa sede!
In generale una grande massa intrusiva subisce col lentissimo raffreddamento una differenziazione magmatica, che porta ad un arricchimento di certe sostanze in zone particolari ed un impoverimento in altre; questo fondamentale processo di differenziazione può essere dovuto:

- a smistamento di fasi liquide poco miscibili in seguito alla diminuzione di temperatura (es. ossidi e solfuri da masse silicatiche)
- a migrazione per differenziazione gravitativa per il diverso peso specifico (es. minerali ferriferi, ferro-titaniferi)
- a perdita più o meno veloce di elementi volatili lungo le fratture
- a iniezione nella rete di fratture di vapori, gas, soluzioni termali
- ad assorbimento e reazione di sostanze derivanti dalle rocce incassanti
- ad altri motivi (secondari rispetto al nostro semplice discorso)

Riassumendo: in ogni caso è determinante la cristallizzazione frazionata del magma in funzione del gradiente decrescente della temperatura, che suddivide il fenomeno in vari stadi, fino ad arrivare all'ultimo, quello idrotermale (al di sotto della temperatura critica dell'acqua, 374°), nel quale le soluzioni diluite di sali si concentrano in quantità e nel sito più favorevole, magari anche per "spremimento" da forze tettoniche.
Perchè nel fenomeno intervengono appunto anche le pressioni, anch'esse di livello... geologico! E non dimentichiamo mai il fattore tempo, che in questi casi non ha fretta!

Da questi elementi genetici sopra riassunti, prendono origine la maggior parte dei filoni e giaciture metallifere dei metalli più importanti, per lo più sotto forma di solfosali o ossidi, immersi nella "ganga" della roccia incassante, costituita da quarzo, silicati, alluminati... e così via. Idem per i minerali più rari e di più complessa costituzione.

Per concludere, visto che sono in argomento: mi sono ripromesso di visitare (questo al più presto, non in tempi geologici!) il famoso complesso minerario piombo-zinco-argentifero di Monteneve, in alta Val Ridanna, dove si penetra veramente nelle viscere della terra, muniti di mazzetta e scalpello...


Miniera

 
 
 

Preparazione del selenio dal rosso di cadmio

Post n°105 pubblicato il 14 Maggio 2011 da paoloalbert

Stavolta solo chimica applicata, poche parole di contorno e tante di procedura.
Allora, eravamo rimasti a:

-pesare 10 g di rosso di cadmio, metterli in una beuta da 150 ml su agitatore magnetico e aggiungere lentamente una miscela di 25 ml di HNO3 e 5 ml di HCl concentrati.
Ad ogni aggiunta si ha riscaldamento e vigoroso sviluppo di ossidi d'azoto, pertanto l'aggiunta va fatta tassativamente sotto cappa o in un luogo adeguato.
Dato l'ambiente fortemente ossidante non si ha sviluppo nè di H2S nè di H2Se, ma zolfo e selenio vengono ossidati in un primo momento ad elementi e poi ad acido rispettivamente solforico e selenioso.

 

Selenio 1


Il pigmento rosso si trasforma alla fine dell'aggiunta in un bruttissimo grumo gommoso,  apparentemente del tutto insolubile (ad un sommario test dovrebbe trattarsi di una mix di zolfo, selenio e pigmento non reagito); lasciar digerire nell'acido per un di giorno.
Per completare l'ossidazione montare un refigerante a ricadere e far bollire a piccola fiamma la miscela fino alla cessazione di sviluppo di ipoazotide.

Il grumo molto lentamente si disgrega e si scioglie, lasciando alla fine solo un liquido biancastro, che va filtrato; un po' di selenio si perde anche in questa fase, ma è sempre meglio portarsi dietro meno porcherie possibili.
Il filtrato è perfettamente incoloro (sali di cadmio, solfati, cloruri, seleniti).

 

Selenio 2

 

Diluire il filtrato con altrettanta acqua e poi aggiungere lentamente ammoniaca, sempre mescolando energicamente; ad ogni aggiunta precipita l'idrossido di cadmio bianco, che mescolando si ridiscioglie finchè l'ambiente è sufficientemente acido; quando non si sciolie più, tornare leggermente indietro con qualche goccia di HCl, fino a riottenere una soluzione limpida e e senza più HNO3 libero.
Ora i sali, oltre che di cadmio, sono di ammonio.
La riduzione dello ione selenito a selenio elemento a questo punto può essere effettuata in due modi: con anidride solforosa e con idrazina; li ho provati entrambi.

 

Selenio 3

 

Porre la soluzione in un recipiente alto e sottile (un cilindro graduato) per favorire il massimo contatto con il gas e far gorgogliare una sufficiente quantità di SO2, facendola sviluppare in un pallone dalla reazione tra metabisolfito K2S2O5 e HCl; scaldando leggermente il pallone di reazione si ottiene una buona corrente di anidride solforosa, portata al fondo del cilindro da un tubo di vetro.
Dopo un po' si nota prima ingiallimento della soluzione e poi forte intorbidamento per la formazione dello stato allotropico rosso del selenio, sotto forma di un bel precipitato finissimo rosso intenso. 

 

Selenio 4

 

Continuare con la SO2 se si vuole ridurre con questo metodo, oppure interrompere e provare con la procedura all'idrazina, molto più comoda perchè avviene in fase omogenea.
Ho quindi lasciato sedimentare un po' di precipitato, giusto per filtrare e fotografare: ecco finalmente il selenio rosso!. 

 

Selenio 7

 

Alla soluzione residua aggiungere mescolando 4 g di idrazina solfato e scaldare appena appena se si vuole ottenere prevalentemente selenio rosso, lasciando in riposo una giornata. 

Selenio 5

 

Per ebollizione l'allotropo rosso si trasforma e si aggrega nella forma grigia, molto più facilmente separabile. In ogni caso filtrare, lavare accuratamente e lasciar asciugare. 

 

Selenio 6

 

Per fusione in capsula di porcellana si ottiene il selenio nero

 

Selenio 5

 

per raffreddamento molto lento il selenio si trasforma nell'ulteriore allotropo metallico (selenio grigio, non fatto).
Questo elemento impartisce alla fiamma un deciso colore azzurrino, svolgendo fumi di biossido (anidride seleniosa) SeO2.

Ricordo che il selenio, tutti i suoi composti e altri reagenti di questa esperienza sono molto tossici; in caso di tentativo di replica di quanto descritto, agire quindi solo se si è consapevoli di quello che si fa in ogni passaggio.

Per concludere, le reazioni sono complessivamente (semplificando) le seguenti (non faccio comparire l'HCl e nemmeno lo ione ammonio della neutralizzazione, che non sono significativi):

3 CdS + 8 HNO3 --> 3 Cd(NO3)2 + 3 S + 4 H2O
3 CdSe + 8 HNO3 --> 3 Cd(NO3)2 + 3 Se + 4 H2O
HNO3 + S --> H2SO4 + NO
4 HNO3 + Se + H2O --> H2SeO3 + 4 NO
K2S2O5 + 2 HCl --> 2 KCl + 2 SO2 + H2O
2 SO2 + H2SeO3 + H2O --> 2 H2SO4 + Se
H2SeO3 + N2H4 --> Se + N2 + 3 H2O

La resa globale in selenio non è entusiasmante (non mi aspettavo che lo fosse!) ed è stata di soli 1,8 g , sufficienti tuttavia a confermare la presenza di questo elemento nel rosso di cadmio e nel contempo fornire l'occasione per una interessante esperienza di pura chimica sperimentale.

Finalmente desidero ringraziare, e lo faccio con molto piacere e stima, il sig. Arturo (lo chiamerò così), che mi ha fornito utilissime idee in merito a quanto sopra, e senza i cui preziosi consigli probabilmente non avrei iniziato il lavoro.

 
 
 

Allora, lo facciamo questo selenio?

Post n°104 pubblicato il 10 Maggio 2011 da paoloalbert

Il titolo è molto provocatorio... è ovvio che il selenio al massimo si estrae, mica lo si "fa", ma anche l'estrazione hobbistica di questo elemento non càpita tutti i giorni.
Anche questo esperimento deriva da una mia curiosità: verificare approssimativamente quanto seleniuro di cadmio (CdSe) contenesse il pigmento commerciale "rosso di cadmio" (assieme al solfuro CdS) ed eventualmente tentare il recupero del selenio.
Non è detto che nel pigmento ci sia stechiometricamente CdSe, molto probabilmente si tratta di "solfoseleniuro", dove il rapporto stechiometrico tra i tre elementi non è ben definito e probabilmente dipende dal metodo di preparazione.

 

Rosso cadmio

 

Il rosso di cadmio è reperibile in qualche colorificio professionale che tratta pigmenti originali in polvere, come si usava una volta quando gli artisti (o altri operatori del settore) si facevano da soli i colori miscelando bellissime polverine colorate assieme ad olio di lino o simili disperdenti.
Esistevano un tempo delle splendide "drogherie chimiche" i cui scaffali erano una gioia per gli occhi, un vero arcobaleno di colori, uno più bello dell'altro: nei grandi vasi di vetro con tappo smerigliato si andava dalle varie "terre" dalle più svariate tonalità di giallo e bruno, passando al blù di Prussia, al giallo di cromo, all'azzurro cobalto, al viola manganese, al verde di cromo, rosso cinabro... un vero tripudio di colori che comprendeva mezza Tavola Periodica...

Il rosso di cadmio fa parte della serie dei pigmenti a base di sali di questo tossico metallo (ancora per quanto in commercio? Quanti splendidi colori sono spariti dalla tavolozza...): nella serie si trovano colori che vanno dal giallo limone al rosso quasi fucsia e la composizione è sempre a base di solfuro di cadmio con varie aggiunte di altre sostanze.
Mi sono procurato proprio questa tonalità rosso profondo, che secondo le specifiche doveva contenere il "selenio".

E mò ti sistemo io, ho sadicamente pensato, il tuo destino non sarà diventare un quadro...

Il primo test è stato quello decisivo, che mi ha portato poi al prosieguo degli esperimenti: trattata una puntina di spatola di pigmento con HCl si è prontamente sviluppato acido solfidrico (H2S, come era ovvio che fosse), ma, colpo di scena, non solo H2S! Cautamente annusando il gas uscente dalla provetta facendo ala con la mano, si è sentita fin troppo CHIARA E FORTE la presenza del tremendo idrogeno seleniato (H2Se)!
La parola "tremendo" non rende appieno l'idea, dato che questo gas è di una potenza irritante (e tossica) veramente estrema; ne ho già parlato sul blog (post n.7), ma in quell'occasione fui fin troppo tollerante: averlo risentito è stato quasi traumatico, non tanto per l'odore nauseante ma per la fortissima e persistente irritazione al naso che provoca anche in quantità irrisorie.
Se qualcuno dovesse per caso replicare questa esperienza è messo in guardia nella maniera più seria che mi sento di esprimere: --> lavorare all'aperto e con grandissima prudenza. H2Se non è una sostanza con la quale si può scherzare.

                               ---oooOOOooo---

Allora, pesare 10 g di rosso di cadmio, metterli in una beuta da 150 ml su agitatore magnetico e aggiungere...

... per cosa aggiungere bisognerà aspettare la prossima volta!

 
 
 

Il selenio, le sue forme e qualche curiosità

Post n°103 pubblicato il 04 Maggio 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Perchè un post dedicato espressamente al selenio?
Perchè prossimamente descriverò l'estrazione di questo elemento da un prodotto commerciale (accettabilmente reperibile) con una bella e inedita procedura nella quale vedremo bene almeno un paio di forme allotropiche di questo elemento... ma non anticipiamo!

Due parole su questo elemento le dico, contravvenendo alla mia consueta regola di omettere quello che si può trovare in un attimo in rete.

Il selenio fu scoperto nel 1817 da quel gran chimico di Berzelius ed il suo nome deriva da una singolare analogia: nel 1782 M. von Reichstein aveva scoperto il tellurio, il quale fu poi studiato da M.H.Klaproth, che nel 1798 gli diede questo nome dal latino "tellus", terra.
Considerando l'analogia fra i due elementi, ragionò Berzelius, se il tellurio era la terra, il selenio sarà la luna! E così gli diede il nome che porta tutt'ora, prendendo spunto dal greco "Σελήνη", che vuol dire come tutti sanno, "luna".

Si presenta in vari stati allotropici.
Precipitandolo dalle sue soluzioni si presenta nells forma monoclina di selenio rosso. Fuso e raffreddato rapidamente si ottiene vetroso, fragile, nero, non conduttore; scaldato di trasforma, con sviluppo di calore, in selenio grigio o metallico, romboedrico, semiconduttore, che si ottiene anche lasciando raffreddare lentamente l'elemento fuso.

Il selenio rosso è solubile in solfuro di carbonio e dalle soluzioni può cristallizzare nelle due forme, alfa e beta.

FotocellulaIl selenio metallico al buio conduce poco la corrente elettrica, ma se illuminato la sua conducibilità aumenta di un migliaio di volte per effetto fotoelettrico; tale effetto è stato sfruttato fin nelle prime fotocellule che hanno permesso tra l'altro l'avvento del cinema sonoro.

 

 



Esposimetro

 

Gli appassionati di fotografia meno giovani (chiamiamoli così...) ricorderanno il balletto che si doveva fare prima di ogni scatto tra la macchina fotografica e quell'aggeggio chiamato esposimetro, che forniva, grazie al selenio, la giusta esposizione su cui regolare manualmente tempi e diaframmi...


Raddrizzatore SeCol selenio (o meglio con i raddrizzatori che vediamo in figura) ci giocavo parecchi anni fa: allora avere a disposizione un cosino così piccolo che raddrizzava la corrente alternata di rete senza dover ricorrere alle valvole, era un lusso, un oggetto di alta tecnologia!

 

Ora, di questi tempi, mi son messo a giocare addirittura col selenio come 34° elemento della Tavola Periodica: la prossima volta lo farò in concreto.

 
 
 

Commento al post precedente

Post n°102 pubblicato il 28 Aprile 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Leggendo tra le righe con spirito critico i risvolti esclusivamente tecnici del lavoro descritto nel post precedente, rilevo un particolare poco chiaro nelle righe dell'Ambrosioni; forse si sarà trattato di un'omissione o di una svista dell'Autore, oppure di qualcosa che mi sfugge.
Ecco di cosa si tratta:

-dal momento che il blù di Prussia è costituito da ferrocianuro ferrico Fe4[Fe(CN)6]3, ritrovo nell'arcaico procedimento settecentesco della sua preparazione delle giuste sostanze, ma me ne manca all'inizio una essenziale!

Mi spiego: nella composizione da far "arrostire" ci sono sostanze solfo-azotate (cheratina, ecc.), le quali combinandosi con il carbonato di potassio possono dar origine a solfuro e cianuro alcalino; nella seconda fase della procedura c'è poi la successiva aggiunta di vetriolo verde (FeSO4) e conseguente formazione del sale ferrico per lenta ossidazione all'aria durante quella ventina di giorni di lavaggio, eccetera.
Sembrerebbe tutto chiaro...

E' però evidente la mancanza "iniziale" del ferro, che se presente negli ingredienti di partenza avrebbe originato per calcinazione del solfuro di ferro, del cianuro di potassio, ed alla lunga per arroventamento della massa la formazione finale di prussiato giallo, cioè di ferrocianuro di potassio, il quale poi in presenza di sali ferrosi (e poi ferrici) avrebbe originato il nostro bellissimo blù.

Ripeto, non vedo nel procedimento dell'Ambrosioni il ferro "iniziale", quello che serve per formare il K4[Fe(CN)6], indispensabile per il doppio scambio successivo in fase liquida con il solfato ferroso (il quale naturalmente viene aggiunto solo quando il complesso ferrocianico col potassio doveva essersi formato).
E' vero che c'era un po' di emoglobina nella puzzolente miscela di partenza; oppure magari si potrebbe considerare la consunzione del materiale ferroso dei "crogiuoli", ma non mi sembrano certamente queste delle buone fonti di ferro, o comunque sufficienti alla bisogna.

Per dissipare i miei dubbi ho voluto dare un'occhiata al Molinari, che mi ha confermato che nelle materie prime di partenza per la fabbricazione del ferrocianuro di potassio si aggiungeva alla potassa e alle "ugne" anche tornitura di ferro... adesso sì che ci siamo ed i conti (stechiometrici...) tornano!

Ma la mia perplessità in questa preparazione sarà dovuta (credo) ad un peccato veniale di omissione del nostro bravo Farmacista di Pavia, che perdoniamo volentieri!

Se alle mie considerazioni qualcuno avesse delle altre idee da aggiungere per ulteriore completezza o per pura discussione, saranno benvenute.

 
 
 

Idrocianato di tritossido di ferro...

Post n°101 pubblicato il 26 Aprile 2011 da paoloalbert

Dopo le quattro puntate precedenti, non val la pena di rilassarsi un pochino leggendo un paio di paginette dell'Ambrosioni, come quando si va in bagno e si cerca qualche lettura di poco impegno?
(Chi non sapesse cos'è l'Ambrosioni, faccia finta di essere al vecchio gioco dell'oca, e faccia un salto indietro fino al post n.48...).

Aperto a caso il libro, è capitata la pagina dell'Azzurro di Berlino: è talmente bello questo profondissimo blù, che mi piace trascrivere integralmente tutto il breve paragrafo; per gli amanti della storia sarà una lettura amena che si presterà poi ad una riflessione:

per ora vai Felice Ambrosioni, rivivi per un attimo e parlaci con le tue parole dell'...

                                AZZURRO DI BERLINO

Ambrosioni blù

 

-L'azzurro di Berlino conosciuto in commercio altresì coi nomi di bleu, ossia azzurro Prusso, e dai Chimici Idrocianato di tritossido di ferro, trae il suo nome dalla città, ove per la prima volta è stato inventato, e fabbricato.
Dobbiamo ad uno speziale di quella capitale la sua scoperta nel 1704.
Il suo metodo di prepararlo restò occulto sino nel 1724 epoca per cui finì il suo mistero, perchè alcuni chimici incominciarono a parlare di questa sostanza, quindi vennero perfezionati i metodi, e diffusi in molte parti dell'Europa.
In Francia, ed altrove il modo di fabbricarlo in grande è il seguente.
Entro fornelli a riverbero, ed in grandi crogiuoli di ferro coperti di un cappello fatto a cono, ed aperto nella parte superiore si fanno abbruciare parti eguali di potassa, e di raschiatura di corna, o d'ugne d'animali; per l'ordinario si servono del sangue.
Allorachè dal condotto superiore non sorte più fumo, nè fiamma, spingono il fuoco al punto d'arroventire, e ridurre la massa in una specie di pasta.
Raffreddato il tutto estraggono la suddescritta massa, e la sciolgono in grandi tini con sufficiente quantità d'acqua.
Col riposo, e colla filtrazione rischiarano la soluzione che si pone in altri recipienti.
Separatamente poi sciolgono due, e sino a quattro parti di allume di rocca, ed una di vetriolo verde del commercio in conveniente quantità d'acqua, quindi la gettano a poco a poco nella prima soluzione sino a tanto che cessi d'intorbidarsi.
L'azzurro che si compone mediante quest'unione si deposita in fondo dei tini sotto forma d'un precipitato di colore oscuro nerastro.
L'acqua che sopranuota al deposito suddetto allorchè si è rischiarata si estrae lentamente, ed altrettanta se ne aggiunge limpida e pura, e così ripetutamente sino a tanto che l'azzurro sia passato dal colore scuro nerastro al fosco verde, quindi al turchiniccio, finalmente al blù pieno.
Questo passaggio di colori succede nel decorso di 20 a 24 giorni di lavature.
L'azzurro in allora si raccoglie sulle tele, si fa seccare, e si destina al commercio in pezzetti e frantumi irregolari d'un colore turchino più o meno carico.
D'esso non ha odore alcuno, nè sapore, ed il suo colore è più o men carico in dipendenza forse della quantità dell'allume che s'impiega nell'operazione, perchè quanto è minore la dose di questo sale, tanto più marcato è il suo colore.
L'azzurro viene dai Droghieri misto alcune volte colla polvere di tornasole; si scopre l'inganno con l'acido solforico, ossia olio di vetriolo allungato, il quale non altera il suo colore se è puro e lo fa passare al rosso ceruleo se è unito alla predetta sostanza.
Sono estesi gli usi del bleu di Prussia.
I fabbricanti di tappezzerie di carta ne consumano in quantità, i tintori danno il celeste raymon alle stoffe di seta, ed i pittori per dipingere ad olio; finalmente nei laboratorj chimici si prepara l'acido prussico.
                                           _______

La procedura descritta dall'Ambrosioni merita secondo me un approfondimento critico (dal punto di vista meramente chimico) che val la pena di esporre: è quello che farò la prossima volta.

 
 
 

I don't know how to love him

Post n°100 pubblicato il 23 Aprile 2011 da paoloalbert

I don't know how to love him... -Non so come amarlo- cantava la struggente Ivonne Elliman nel 1970 in uno dei più significativi momenti dell'opera pop Jesus Christ Superstar.

Ascoltiamoci anche la più moderna ma altrettanto deliziosa versione di Sarah Brightman, che con dolcissima voce interpreta in chiave moderna il tema della Passione.

 



B u o n a   P a s q u a !

 
 
 

Spettroscopio/colorimetro PA-mode (4° e ultima parte)

Post n°99 pubblicato il 19 Aprile 2011 da paoloalbert

Dopo essere stato preventivamente testato al banco mentre cresceva (ved. foto nel post precedente), ho slegato dal lettino il circuito "piccolo Frankestein" liberandolo dalla miriade di fili che lo alimentavano e l'ho piazzato  in una scatoletta che avevo, in modo che fosse indipendente e potesse cominciare a muoversi autonomamente facendo il lavoro che doveva fare.
Sul pannello frontale dell'apparecchio ci sono tutti i comandi di regolazione dell'accrocco, così si può smanettare a piacere senza fare acrobazie.
Oltre all'interruttore di accensione e al relativo LED, si vedono:

- il milliamperometro per le misure relative di assorbanza
- la regolazione della corrente del LED di illuminazione
- la regolazione dell'offset (azzeramento)
- la regolazione dell'amplificazione dei due stadi OP Amp
- l'uscita per l'alimentazione del LED di illuminazione
- l'entrata del segnale e di alimentazione del fototransistor
- l'attenuatore per lo strumento di uscita


Lo schema come detto è volutamente semplice (era il requisito fondamentale che mi ero imposto), quindi la difficoltà maggiore è stata come al solito la realizzazione meccanica ed il cablaggio del tutto, dato che occorre fare un lavoretto che sia anche esteticamente presentabile.

 

Colorimetro 2

 

Le foto, fatte in qualche modo di sera, rendono un'idea del marchingegno finito durante una misura sotto descritta.

Colorimetro 3

 

Prove di assorbimento

Il test iniziale è stato fatto (illuminando solo a infrarosso) diverse soluzioni di dicromato di potassio K2Cr2O7 e di cloruro di rame CuCl2.
Il dicromato (pur se intensamente arancio) porta a irrisorie variazioni di assorbimento in funzione della concentrazione; tutto l'opposto invece col cloruro di rame (impercettibilmente azzurrino) nelle medesime condizioni: 1 g/l di CuCl2 fornisce in uscita un notevolissimo assorbimento. (Ho voluto cercare il limite del sistema per questo catione a IR e ho visto che mi rivela con certezza meno di 20 mg/l di Cu++).

La prova nelle foto si riferisce al test di assorbimento sempre del K2Cr2O7, ma stavolta nel vicino ultravioletto (400 nm).
Cambiando la lunghezza d'onda stavolta il colpo di scena è notevole: mentre nell'IR l'indice non si muoveva nemmeno con una soluzione più arancio della Fanta, nell'UV è sufficiente 1 ppm (!) di dicromato per portare l'indice dello strumento dal fondo scala (50) al valore 10!
Inutile dire che a questa estrema diluizione la soluzione è perfettamente trasparente e incolora all'occhio umano.

Un'altra prova significativa e di grande soddisfazione è stato verificare l'assorbimento nel verde (530 nm) dello ione permanganato MnO4-
Questo anione ha un'elevatissimo potere colorante nel viola (le sue soluzioni diluite sono di un meraviglioso violetto) e quindi, secondo il Circolo di Ostwald dovrebbe assorbire nel verde... andiamo a verificare.
Ho dovuto diluire, diluire, e ancora diluire per raggiungere il limite di sensibilità del sistema: il mio aggeggio distingue chiaramente tra l'acqua e una sol. normal/centomillesima! di permanganato KMnO4, naturalmente del tutto incolora.

E così via... molto irregolarmente le prove sono ancora in corso; mi propongo di fare quelle dei sali ferrici tiocianato e ferrocianuro (rispettivamente nel blù e nel giallo), di alcune sostanze organiche, di altri cationi non ancora visti e di quant'altre la fantasia suggerirà nei ritagli di tempo.

La sensibilità potrebbe ovviamente aumentare avendo la possibilità di variare "in continuo" la lunghezza d'onda dell'illuminazione, poichè in genere l'assorbimento avviene per bande e per picchi, e non è detto che la frequenza del mio LED illuminatore cada proprio sul picco massimo... anzi è del tutto improbabile. Ma variare lambda in continuo vorrebbe dire usare un monocromatore, e allora l'apparecchio non sarebbe più il giocattolino che è.

Per concludere, voglio anche ringraziare il dott. Lorenzo M., che mi ha  fornito dei preziosi suggerimenti e preparato una bella tabella colorimetrica sperimentandola personalmente con apparecchi seri: tutto ciò mi è stato di notevole ausilio per indirizzarmi alla "luce" (è proprio il caso di dire...) con cui lavorare.

 
 
 

Spettroscopio/colorimetro PA-mode (3° parte)

Post n°98 pubblicato il 17 Aprile 2011 da paoloalbert

Dopo il lavoro di precisione abbastanza noioso ma indispensabile per la celletta, mi sono preso un po' più di soddisfazione con la progettazione e realizzazione del circuito.
Cercherò di essere il più comprensibile possibile sapendo che l'elettronica non è  il motore trainante di questo blog, ma dopotutto questi sono appunti personali, è come un diario...

Ho imbastito un banale amplificatore in corrente continua usando solo i due amplificatori operazionali contenuti in un circuito integrato LM358; il circuito è semplice perchè deve solo amplificare le debolissime variazioni di segnale che escono dal fototransistor rivelatore della celletta.

Sottolineo che occorre amplificare non il segnale, ma le "variazioni" del segnale stesso a seconda della concentrazione, e queste variazioni possono essere debolissime, anche se il segnale in assoluto è forte.
Occorre quindi amplificare molto
, e stabilizzare bene la tensione duale di alimentazione.

Con due soli operazionali ho amplificato circa 4000 volte in tensione (ciò vuol dire che pochi microvolt di variazione nella tensione del rivelatore, portano alla variazione di parecchi millivolt in uscita dall'amplificatore).
L'interno della celletta deve essere al buio perfetto perchè la sensibilità alla luce del fototransistor così amplificato è elevatissima ed una minima trafilatura di luce ambientale porta immediatamente la lettura a fondo scala.
Non si può amplificare troppo (con circuiti così semplici) altrimenti aumenta troppo il noise di fondo e la lettura diventa instabile. Ho cercato quindi un giusto compromesso.

Il segnale amplificato del photoTR è stato prima testato solo sull'oscilloscopio (assolutamente indispensabile per lavoretti come questo), successivamente ho adattato l'uscita su uno strumento analogico, prevedendo un adeguato fondo scala e gli azzeramenti indispensabili prima di ogni lettura.
E' stato previsto il controllo manuale del guadagno dell'amplificatore e della corrente di pilotaggio dei LED.

 

Colorimetro 1

 

Nella foto si vede l'accrocco mentre è ancora in fase di progettazione, i componenti disassemblati belli distesi e pieni di fili come Frankestein, che dà i primi segni di vita leggendo l'assorbimento di una soluzione di sali di rame.
L'alimentatore è quello grosso da lab, e se il circuitino fa i capricci, giù uno sculacc... pardon, uno scossone!

 

Colorimetro acqua   Colorimetro rame

 

 

 

 

 

 

Le prime prove all'oscilloscopio mostrano che l'apparecchio come principio funziona e sono quelle che mi danno la forza di continuare nella sperimentazione!

Una soluzione di 2 g/l di cloruro di rame (adestra) mi fa alzare la traccia di 5 cm a luce visibile rispetto all'acqua pura (a sinistra)! Vuol dire che quando saremo nell'infrarosso...

Faccio notare per chiarezza che questo "colorimetro" NON è sensibile ai "colori" come noi li vediamo, ma è sensibile all'assorbimento di certe lunghezze d'onda che attraversano una soluzione: quest'ultima potrebbe essere perfettamente incolora come l'acqua e mostrare invece un fortissimo assorbimento; viceversa, potrebbe essere colorata anche intensamente e mostrare un assorbimento irrisorio rispetto a quello che ci si aspetterebbe!

...ma di questo si parlerà la prossima volta.

 
 
 

Spettroscopio/colorimetro PA-mode (2° parte)

Post n°97 pubblicato il 14 Aprile 2011 da paoloalbert

Come dicevo nell'introduzione, tempo fa mi è venuta voglia di provare a fare un piccolo "spettroscopio/colorimetro" sperimentale, naturalmente senza alcun intendimento di costruire uno strumento di misura, ma con lo scopo di fare un "giocattolo", diciamo così, didattico che verificasse l'assorbanza relativa di uno ione (o di una molecola colorata) e anche per avere la scusa di sposare bene assieme i miei due hobbies principali (chimica ed elettronica).

Mi ero proposto tassativamente di:

1- usare solo componenti che possedevo; il costo della realizzazione doveva essere minimo;

2- usare come elementi ottici fototransistor e LED anzichè fotocellule, lampadine speciali e monocromatore;

3- amplificare il segnale ottico con amplificatori operazionali e componenti low cost;

4- costruire una semplicissima celletta a tenuta di luce in cui inserire una cuvetta per la sostanza in esame;

5- stabilizzare opportunamente le tensioni di alimentazione dell'amplificatore a guadagno variabile e la corrente del LED di illuminazione e predisporre dei comandi di guadagno e di offset (azzeramento)

6- l'uscita sarebbe stata su milliamperometro con scala di riferimento totalmente relativa.

Per quanto detto al punto 2-, mancando il monocromatore lo spazzolamento in frequenza è limitato solo a sei "colori" fissi, nel range che va dal vicino IR al limite dell'inizio dell'ultravioletto. Questo è il limite maggiore dell'apparecchio, e del resto questo limite non è risolubile senza questo dispositivo (ved. con Google che cos'è un monocromatore!).

A tal proposito ricordo sempre l'aneddoto di un mio vecchio professore che ci raccontava che la fabbrica dei monocromatori era (a quei tempi lontani!) costruita nel deserto, per essere immune da ogni minimissima vibrazione e poter eseguire la microrigatura la più perfetta possibile. Che deserto sarà mai stato quello del bravo prof. Zampieri? Arizona? New Mexico? Chi lo sa... Adesso si fanno i DVD, che sono quasi quasi dei monocromatori della domenica, a migliaia di tonnellate...

Ritornando al nostro apparecchietto, le sorgenti di luce discrete (tanto discrete... sono solo sei!) sono costituite da dei semplici LED, con le seguenti lunghezze d'onda abbastanza approssimate ma più che sufficienti per i miei scopi:

- 880 nm (IR)
- 630 nm (rosso)
- 590 nm (giallo)
- 530 nm (verde)
- 470 nm (blu)
- 400 nm (UV)

Ho perso quasi una giornata per fare la celletta in cui  inserire il contenitore per  il liquido  in  esame  ed il semplicissimo gruppo ottico trasmittente/ricevente. Il tutto ovviamente deve essere a tenuta di luce. Avevo previsto all'inizio un semplice contenitore in polietilene da mm 30x30x30 (come si vede nella foto), poi sostituito da una cuvetta specifica per analisi, a facce parallele e di dimensioni 12x12x45 (cammino ottico 10 mm).

 

Celletta 1

 

La cuvetta è quel piccolo contenitore parallelepipedo di cui è noto il cammino ottico ed il materiale è di buona trasparenza; ci sono cuvette in vetro, a facce perfettamente parallele e calibrate (molto costose), e cuvette economiche in plastica: indovinare quali ho usato io...

Le due protuberanze laterali in rame che si vedono in foto contengono uno l'elemento illuminatore e l'altro il ricevitore.
Quest'ultimo è un fototransistor opportunamente alimentato con un microjack a sinistra.

Questa per ora è la celletta casalinga di questo fantomatico Spett/Col-PA-mode; in futuro la migliorerò.

Nella prossima puntata dirò qualcosa dell'amplificatore e dell'hardware completo.

 

 
 
 

Spettroscopio/colorimetro PA-mode (1° parte)

Post n°96 pubblicato il 10 Aprile 2011 da paoloalbert

Cercando in rete l'argomento "spettroscopia UV-visibile" si trova tutto quello che io ometterò di dire in questa sede, la quale, come ormai ben si sa, è dedicata quasi categoricamente alla realizzazione pratica di quello che la teoria propone.

Solo due parole minime introduttive al mio esperimento (anche hardware!) che seguirà: la spettroscopia è una disciplina che riguarda quelle tecniche con le quali è possibile ottenere informazioni sulle proprietà strutturali dei corpi studiando l’interazione della materia con l’energia elettromagnetica, cioè la luce, visibile o meno.

Alcuni punti fissi:

- L'energia di un'onda elettromagnetica è direttamente proporzionale alla sua frequenza, quindi quanto maggiore è la lunghezza d’onda di una radiazione, tanto minore è l’energia ad essa associata.

- La luce visibile è quella parte dello spettro elettromagnetico a cui è sensibile l’occhio umano, caratterizzata da lunghezze d’onda che vanno da 380 nm a 780 nm.

- Le lunghezze d’onda della luce visibile sono in relazione con i colori che noi percepiamo; il rosso è caratterizzato da lunghezze d'onda più elevate, e viceversa per il viola, che avrà qundi una maggior energia.

- L’UV si estende al di sotto dei 380nm, l'IR al di sopra dei 780 nm.

- Quando una radiazione elettromagnetica interagisce con la materia si ha in genere trasferimento di energia dalla radiazione alla materia (assorbimento), cui segue la restituzione di energia sotto diverse forme (emissione).

- La radiazione incidente di intensità I0 viene in parte assorbita dal campione e la radiazione uscente I1 ha intensità minore.

- Una legge fondamentale di questa disciplina è la legge di Lambert-Beer:

A = ε l c

dove A è l’assorbanza di una soluzione, ε è un coefficiente che dipende dal tipo di sostanza, l è la lunghezza del cammino ottico e c è la concentrazione c della soluzione.

Qusta legge è di fondamentale importanza per l’analisi quantitativa, poiché evidenzia una dipendenza lineare (entro certi limiti) dell’assorbanza dalla concentrazione dell’analita, che può pertanto essere determinata.
Conoscendo l’assorbanza di soluzioni standard, si può risalire alla concentrazione del campione in esame.

Le tecniche spettrometriche basate sul fenomeno dell’assorbimento vengono realizzate con un dispositivo che comprende:

Una sorgente di radiazioni (luce, visibile o meno).

Un monocromatore (un dispositivo che permette di scegliere la radiazione della lunghezza d'onda voluta).

Un rivelatore (misura la radiazione che ha attraversato il campione rispetto a quella incidente).

Le transizioni energetiche indotte dalle radiazioni UV- visibili con la materia coinvolgono gli elettroni più esterni di legame della sostanza in esame e l’eccitazione degli elettroni di valenza richiede energie tanto più elevate quanto più è grande la separazione fra i livelli elettronici di partenza e di arrivo delle transizioni.
Il colore è una sensazione fisiologica prodotta dal nostro cervello quando elabora i segnali generati nell’occhio dalle radiazioni elettromagnetiche che lo colpiscono dopo l'interazione tra una sorgente luminosa e un oggetto.

Circolo cromaticoSe un raggio di luce policromatica illumina un oggetto che ne può assorbire una parte, la radiazione che giunge all’occhio contiene solo le lunghezze d’onda che non sono state assorbite, cioè le radiazioni complementari.

Ciò si può vedere bene col Circolo di Ostwald:

se l’oggetto, illuminato da luce policromatica, assorbe prevalentemente nella regione del giallo-rosso, vengono trasmesse le radiazioni nella regione del blu e quindi  l’oggetto è percepito come blu (per esempio i sali di rame idrati, che appaiono azzurri).

 

Dopo questa doverosa premessa ULTRA-semplificata, ho provato a costruire un aggeggio che facesse vagamente quanto sopra:

dandogli in pasto una soluzione diluitissima di una certa sostanza, dovrà applicare la legge di Lambert-Beer e tirar fuori dei risultati interpretabili, non dal punto di vista assoluto e numerico (per questo scopo  ci sono i veri spettroscopi UV-VIS-IR, per le corrispettive adeguate migliaia di euro) ma solo da quello di una misurazione relativa dell'assorbanza ad una certa lunghezza d'onda.

Vedremo pian piano come andrà a finire.

 
 
 

Intermezzo cristallino

Post n°95 pubblicato il 05 Aprile 2011 da paoloalbert

Nel blog ci vuole ogni tanto uno stacchetto, magari d'arte (una musica, un'immagine...).
La prossima volta metterò una musica, oggi... guardate che meraviglia questi cristalli!

Un paio di mesi fa, quando faceva particolarmente freddo e fare sintesi laboriose nel mio gelido lab sarebbe stato puro autolesionismo, avevo preparato senza tanto dispendio energetico un po' di propionato di rame, così, per pura curiosità verso un sale sicuramente abbastanza singolare.

Sono partito da acido propionico e carbonato basico di rame, sfruttando il semplice spostamento:

CuCO3 + 2 CH3-CH2-COOH --> (CH3-CH2-COO)2Cu + H2O + CO2

Visto che non avevo fretta, ho poi fatto cristallizzare molto lentamente la soluzione ottenuta, in poco meno di due mesi e ad una temperatura media bassa.

 

Rame propionato 1


Nelle giuste condizioni questo sale si accresce con buona soddisfazione ed è risultato molto bello anche nell'aspetto, con un verde profondissimo, praticamente nero, con dei riflessi verdi che si intravvedono dove i cristalli sono più sottili.

 

Rame propionato 2


Dato che noi ammiriamo l'arte e l'estetica anche nella chimica (eccome!), mi permetto di proporre queste immagini come fossero piccoli quadri, fatti dalla natura.

 

 
 
 

Esperimento con i Silani

Post n°94 pubblicato il 03 Aprile 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Ironia della sorte, una volta abitavo vicino ad una località che si chiamava proprio "Silani"... una specie di microscopica Silicon Valley ante litteram: ma quelle quattro case non avevano a che fare con i composti del silicio!

Si diceva qualche post fa che gli idrocarburi si dividono in tre gruppi fondamentali: alcani, alcheni, alchini.
Gli alcani sono gli idrocarburi diciamo più semplici, di formula CnH2n+2, il cui capostipite è il metano (CH4) e poi a seguire l'etano (C2H6), il propano (C3H8), il butano (C4H10) e così via.
Gli alcani sono caratterizzati da una grande stabilità ed inerzia chimica; è difficilissimo farli reagire senza opportune condizioni, a meno di non incendiarli, nel qual caso (una volta avviata la reazione!) la combinazione con l'ossigeno si autosostiene.

Nella tavola periodica degli elementi, al quarto gruppo e appena sotto il carbonio si trova il silicio; non dovrebbe questo avere caratteristiche simili al capogruppo carbonio, secondo la nota ricorrenza delle proprietà degli elementi per gruppi?
Se ciò fosse vero, sostituendo il silicio al carbonio nell'omologo del metano (cioè il silano SiH4), si dovrebbe intuitivamente ottenere un composto dalle caratteristiche vagamente simili al metano... andiamo a verificare se è vero!
(Secondo questo semplicistico ragionamento, sostituendo il silicio al carbonio dovremmo perfino trovare una ipotetica "biologia del silicio" con tutte le immaginabili implicazioni che ciò comporterebbe... ma le energie di legame e altro trasformano questa suggestiva ipotesi in fantascienza...).

Lo scopo di questo esperimento era la curiosità di osservare proprio la differenza tra la realtà e quanto sopra supposto secondo un ragionamento puramente intuitivo, verificando invece piacevolmente l'estrema reattività dei silani.
La preparazione sperimentale del SiH4 prevede la reazione tra un acido forte ed il siliciuro di magnesio Mg2Si, che abbiamo  preparato la volta scorsa per questo scopo specifico.

Il siliciuro di magnesio reagisce con gli acidi (in questo caso acido cloridrico) secondo la reazione:

Mg2Si + 4 HCl --> 2 MgCl2 + SiH4

e si viene a formare silano SiH4 - Il silano purissimo è abbastanza stabile, ma nel caso in esame, dove l'ambiente è contaminato da un po' di tutto, si formano anche tracce degli omologhi superiori (Si2H6, Si3H8), tutte sostanze estremamente piroforiche, che si infiammano istantaneamente all'aria con violenza esplosiva ed infiammano a sua volta il silano prevalente.
In questa esperienza la generazione di silani è in quantità assolutamente trascurabile, ma è più sufficiente a farsi vedere e sentire!

-In un becker porre qualche ml di HCl al 20% e aggiungere cautamente una punta di spatola del nostro Mg2Si: la reazione precedente si risolve in piccoli lampi sulla superficie dell'acido, accompagnati dal caratteristico crepitio secco delle minuscole microesplosioni di ogni bollicina di silano generato. L'esperienza è molto carina e fa rendere conto della reattività di questi composti rispetto all'inerzia degli alcani, come mi ero proposto di verificare.
Carbonio e silicio non sono proprio intercambiabili! Anche se permangono come ovvio alcune analogie dovute alla somiglianza nella struttura elettronica.

Purtroppo ho perso il video della reazione del siliciuro di magnesio con HCl, che rendeva bene l'idea di come si comporta il gas silano appena viene in contatto l'aria: un sostenuto crepitio di micro-scoppietti che dimostrano l'instabilità di questi composti.

 
 
 

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