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"fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza"

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Giampiero Mughini e l'inno mazionale

Post n°206 pubblicato il 18 Giugno 2010 da AngeloQuaranta

di Giampiero Mughini
Quando lo sento mi viene la pelle d’oca. Mi acceca simbolicamente ed emotivamente per quello di cui è carico e di cui un secolo e mezzo di storia l’hanno caricato. Dico l’ “Inno degli Italiani”, di cui il ventenne genovese Goffredo Mameli scrisse le parole quando aveva vent’anni, due anni prima di morire a Roma per le conseguenze di una ferita da baionetta alla gamba che s’era infettata.
Una ferita che Mameli s’era procurato combattendo contro i francesi, che stavano dalla parte del Papa, alla Villa del Vascello. L’Italia aveva “chiamato”, e lui aveva risposto all’appello e s’era scaraventato in prima fila e aveva girovagato (talvolta con la divisa dell’esercito di Giuseppe Garibaldi) dappertutto lungo lo Stivale purché l’Italia si chiamasse Italia, perché noi fossimo gli italiani e orgogliosi di dirci tali.
Eccome se sono felice quando vedo che i nostri calciatori (com’è stato lunedì sera prima dello scontro con il Paraguay) lo cantano a voce spiegata, felici e orgogliosi di star cantandolo e a differenza di dieci o quindici anni fa, quando la più parte di loro teneva le labbra rigorosamente chiuse mentre continuava a masticare la gomma americana.
Il caso ha voluto che quando sono venuto ad abitare a Roma, nel gennaio 1970, la casa che ho fittato sorgesse sullo spazio che era stato un tempo l’Ospizio della Trinità dei Pellegrini, un luogo di accoglienza e di riposo che la Chiesa cattolica aveva creato nella seconda metà del Seicento ad ospitare i pellegrini dell’Anno Santo. Durante i combattimenti della Repubblica Romana, quell’ospizio funzionò da ospedale da campo dove ricoverare i feriti italiani.
Mameli ci arrivò il 3 giugno 1849. A tutta prima la ferita non sembrava grave. Lo divenne a causa di un’infezione che andò crescendo e devastando per tutto un mese, finché il 3 luglio a Mameli amputarono la gamba. Tre giorni dopo era morto. Il luogo dove sorgeva l’ospedale era ancora intatto nei primi anni Settanta e lo è tuttora.
Ci avevano costruito sopra un palazzo, dove io abitavo al terzo piano. Lì dov’era l’ospedale avevano messo per un tempo dei tavoli per giocare a ping pong, uno sport che ho amato molto. Quando giocavo mi immaginavo dove stava il letto su cui Mameli consumò la sua lunga agonia nella rovente estate romana.
A una serata del Maurizio Costanzo show dissi una volta quanto amassi l’Inno di Mameli e come mi umiliasse che i nostri giocatori non lo cantassero, e laddove i calciatori della nazionale francese (di cui la metà erano neri, e dunque provenienti dalle colonie) lo cantavano a tutto spiano. Avevo di fronte una soubrette televisiva che volle aprire la bocca a far rumore.
Disse che l’inno francese, nato da una rivoluzione, quello sì che valeva la pena di essere cantato; non il nostro, che a una donna della sua levatura appariva miserevole e provinciale. Parlava, senza sapere di che cosa stesse parlando. Neppure le replicai, perché a tutto c’è un limite.
Adesso succede che qualche comprimario della politica italiana ci tenga a scansare l’Inno di Mameli durante le manifestazioni ufficiali, o magari a preferirgli una qualche cantata del grandissimo Giuseppe Verdi, ma questo solo perché Verdi è “un lùmbard”. E perché non allora l’ “Evviva l’Italia” del mio amico Francesco De Gregori, che è una bellissima cantata moderna scritta nel gusto e nelle parole trainanti che sono divenute le nostre?
Solo che non c’entra niente. Che con quelle parole di Mameli e con quella musica l’Italia è nata, quelle sono le parole che ci hanno unito. Tutto il resto è volgarità e menzogna.
 
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