Creato da: AngeloQuaranta il 10/02/2009
"fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza"
|
Contatta l'autore
Area personale- Login
MenuTagConsulenza ImmobiliareCerca in questo BlogQuando la musica ....Chi può scrivere sul blog
Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
Via CampaniaVia LucaniaVia FermiVia FermiI miei Blog Amici -
@Ascoltando il Mare@ - PAESAGGI DELLANIMA - il mare infinito - Un caffè dolce amaro - Angelo Quaranta - PICCOLO INFINITO - SPRINGFREESIA - ELFI DRAGHI STREGHE - Andando Per Via - ALCHIMIA - Rosa dei Costanti - Serendipity - Giuseppe Quaranta - filtr - il regno di arcadia - area di broca - Marie Elenoire - Caterina Saracino - VagheStelledellOrsa - dianavera - pensieri.femminili - ETICASA di Quaranta - Harmonia2 - Taranta |
Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo
Il Quarto Stato è un celebre dipinto realizzato dal pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1901. Opera simbolo del XX secolo, rappresenta lo sciopero dei lavoratori ed è stata eseguita secondo la tecnica divisionista. Non solo raffigura una scena di vita sociale, lo sciopero, ma costituisce un simbolo: il popolo, in cui trova spazio paritario anche una donna con il bambino in braccio, sta avanzando verso la luce, lasciandosi un tramonto alle spalle. Il dipinto è lo sviluppo completo di questo tema, già affrontato dall'artista in dipinti come Ambasciatori della fame, Fiumana e un bozzetto preparatorio del 1898, Il cammino dei lavoratori. La composizione del dipinto è bilanciata nelle forme e movimentata nelle luci, rendendo perfettamente l'idea di una massa in movimento. È conservato a Milano nel Museo dell'Ottocento della Villa Reale (o Villa Belgiojoso Bonaparte). La versione preliminare, invece, è esposta sempre a Milano presso la Pinacoteca di Brera. A rendere celebre il dipinto contribuì anche il film Novecento di Bernardo Bertolucci.
Post n°206 pubblicato il 18 Giugno 2010 da AngeloQuaranta
di Giampiero Mughini Quando lo sento mi viene la pelle d’oca. Mi acceca simbolicamente ed emotivamente per quello di cui è carico e di cui un secolo e mezzo di storia l’hanno caricato. Dico l’ “Inno degli Italiani”, di cui il ventenne genovese Goffredo Mameli scrisse le parole quando aveva vent’anni, due anni prima di morire a Roma per le conseguenze di una ferita da baionetta alla gamba che s’era infettata. Una ferita che Mameli s’era procurato combattendo contro i francesi, che stavano dalla parte del Papa, alla Villa del Vascello. L’Italia aveva “chiamato”, e lui aveva risposto all’appello e s’era scaraventato in prima fila e aveva girovagato (talvolta con la divisa dell’esercito di Giuseppe Garibaldi) dappertutto lungo lo Stivale purché l’Italia si chiamasse Italia, perché noi fossimo gli italiani e orgogliosi di dirci tali. Eccome se sono felice quando vedo che i nostri calciatori (com’è stato lunedì sera prima dello scontro con il Paraguay) lo cantano a voce spiegata, felici e orgogliosi di star cantandolo e a differenza di dieci o quindici anni fa, quando la più parte di loro teneva le labbra rigorosamente chiuse mentre continuava a masticare la gomma americana. Il caso ha voluto che quando sono venuto ad abitare a Roma, nel gennaio 1970, la casa che ho fittato sorgesse sullo spazio che era stato un tempo l’Ospizio della Trinità dei Pellegrini, un luogo di accoglienza e di riposo che la Chiesa cattolica aveva creato nella seconda metà del Seicento ad ospitare i pellegrini dell’Anno Santo. Durante i combattimenti della Repubblica Romana, quell’ospizio funzionò da ospedale da campo dove ricoverare i feriti italiani. Mameli ci arrivò il 3 giugno 1849. A tutta prima la ferita non sembrava grave. Lo divenne a causa di un’infezione che andò crescendo e devastando per tutto un mese, finché il 3 luglio a Mameli amputarono la gamba. Tre giorni dopo era morto. Il luogo dove sorgeva l’ospedale era ancora intatto nei primi anni Settanta e lo è tuttora. Ci avevano costruito sopra un palazzo, dove io abitavo al terzo piano. Lì dov’era l’ospedale avevano messo per un tempo dei tavoli per giocare a ping pong, uno sport che ho amato molto. Quando giocavo mi immaginavo dove stava il letto su cui Mameli consumò la sua lunga agonia nella rovente estate romana. A una serata del Maurizio Costanzo show dissi una volta quanto amassi l’Inno di Mameli e come mi umiliasse che i nostri giocatori non lo cantassero, e laddove i calciatori della nazionale francese (di cui la metà erano neri, e dunque provenienti dalle colonie) lo cantavano a tutto spiano. Avevo di fronte una soubrette televisiva che volle aprire la bocca a far rumore. Disse che l’inno francese, nato da una rivoluzione, quello sì che valeva la pena di essere cantato; non il nostro, che a una donna della sua levatura appariva miserevole e provinciale. Parlava, senza sapere di che cosa stesse parlando. Neppure le replicai, perché a tutto c’è un limite. Adesso succede che qualche comprimario della politica italiana ci tenga a scansare l’Inno di Mameli durante le manifestazioni ufficiali, o magari a preferirgli una qualche cantata del grandissimo Giuseppe Verdi, ma questo solo perché Verdi è “un lùmbard”. E perché non allora l’ “Evviva l’Italia” del mio amico Francesco De Gregori, che è una bellissima cantata moderna scritta nel gusto e nelle parole trainanti che sono divenute le nostre? Solo che non c’entra niente. Che con quelle parole di Mameli e con quella musica l’Italia è nata, quelle sono le parole che ci hanno unito. Tutto il resto è volgarità e menzogna.
https://blog.libero.it/quarantangelo/trackback.php?msg=8958631 I blog che hanno inviato un Trackback a questo messaggio: Nessun Trackback Commenti al Post:
Gli Ospiti sono gli utenti non iscritti alla Community di Libero. |