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La visita del primo gruppo di giornalisti stranieri a Lhasa, voluta e accuratamente programmata dalle autorità di Pechino con l’intento di mostrare alla comunità internazionale il ritorno alla normalità della capitale tibetana dopo l’insurrezione popolare della scorsa settimana, è stata caratterizzata da un imprevisto episodio. Nelle vicinanze del Jokhang, il principale tempio della città, una trentina di monaci si sono avvicinati ai giornalisti e, alternando la lingua tibetana a quella cinese per farsi meglio comprendere, hanno cercato di far conoscere la loro verità. “Le proteste della scorsa settimana non hanno nulla a che vedere con il Dalai Lama” - hanno gridato - .“Il Tibet non è libero, il Tibet non è libero!”, ha esclamato un giovane religioso prima di scoppiare in lacrime davanti alle telecamere. I monaci hanno fatto sapere di essere intervenuti dopo aver saputo che, all’interno dell’edificio, un gruppo di funzionari governativi, indossate le tonache monacali, si apprestava ad incontrare i rappresentanti della stampa. Hanno fatto sapere che, a partire dal 14 marzo, il tempio è strettamente sorvegliato dall’esercito. Questa notizia conferma quanto trapelato nei giorni scorsi circa lo stato di semi prigionia in cui sono tenuti e religiosi all’interno di tutti i monasteri, con conseguenti, serie difficoltà di approvvigionamento di acqua e viveri. “Siamo consapevoli che per questo nostro gesto rischiamo di essere arrestati” - hanno dichiarato i monaci - ma siamo pronti ad correre questo rischio”. Il corrispondente dell’agenzia Associated Press ha reso noto che ai giornalisti sono stati fatti visitare un ambulatorio medico e un emporio di abbigliamento dove, secondo le autorità cinesi, cinque ragazze han sono rimase intrappolate durante gli scontri e hanno trovato la morte tra le fiamme. Un inviato del Financial Times così descrive Lhasa: “I quartieri tibetani sembrano un teatro di guerra, con gli edifici incendiati, gli uffici chiusi e militari dappertutto. Dopo quasi due settimane l’odore del fumo permea ancora tutta la zona. La città è divisa in due parti: quella cinese, quasi normale, e quella tibetana, la città vecchia, che appare una città in rovina, sia dal pinto di vista materiale sia da quello psicologico”.
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