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Proposte contro gli sprechi e i privilegi delle caste

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NO AI PRIVILEGI DELLA CASTA DI DECIDERE IL PROPRIO STIPENDIO.

SI AL PRINCIPIO CHE TRA STIPENDIO PIU' BASSO E QUELLO PIU' ALTO

DEVE ESSERCI UN RAPPORTO FISSO.

STIPENDI DEI POLITICI IN MEDIA EUROPEA.

STIPENDIO DEL MANAGER NON SUPERIORE A 13 VOLTE

QUELLO MEDIO DELL'OPERAIO DELLA SUA AZIENDA.

NO ALLE STOCK OPTION

NO ALLA FINANZA CREATIVA, NO AI DERIVATI

 

 Questo sito non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicita'. Non puo' pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001 Alcune delle immagini contenute sono prese dal web. Per qualsiasi problema fatemi sapere e verranno rimosse.

 

Messaggi del 21/12/2006

Privatizzazione AUTOSTRADE

Post n°29 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da albert.z
 
Foto di albert.z

Quando nel 1997 il veicolo “Schema28“, con alla testa la famiglia Benetton, partecipò alla privatizzazione di Autostrade con un’Opa, fu aiutato da una pletora di istituzioni finanziarie internazionali, poco interessate ad intervenire in prima persona nella gestione della concessionaria, molto più ad alimentare lo sforzo finanziario, fatto da un gruppo di investitori (Benetton, Generali, Unicredito, Fondazione Crt) per acquisire un monopolio naturale, condito con meccanismi tariffari molto vantaggiosi.

L’errore è stato di credere che una convenzione basata su dei privilegi di questo genere potesse resistere all’infinito, mentre invece un giorno, tra un governo e l’altro, un certo Antonio Di Pietro ha deciso che così non si poteva andare avanti. Di sicuro il giudizio sulla propensione imprenditoriale di Schema28 e di Autostrade non può essere positivo. Nel 1997 Autostrade acquisisce la convenzione ed è la più importante concessionaria europea. Il suo fatturato è di 1.762 milioni di euro. Nel 2005 i suoi ricavi sono arrivati a 2.957 milioni di euro, esclusivamente grazie a quella concessione “milionaria“, un meccanismo di calcolo degli adeguamenti tariffari che non ha eguali in Europa. Detta in altro modo, la crescita di Autostrade si è materializzata mettendo all’incasso una serie di “cedole” derivanti dalla concessione.

Nello stesso periodo, Abertis si sviluppa in modo diverso. Dai 385 milioni di fatturato del 1997, passa a 2.973 milioni, grazie ad una crescita ottenuta con fusioni, investimenti ed acquisizioni. In somma, gli italiani hanno “incassato“, gli spagnoli hanno investito nella crescita.

Nel 2005, Autostrade ha avuto la possibilità di fare il grande balzo, potendo acquisire le “Autoroutes Paris Rhin-Rhone“, ma a questa opportunità comunque rischiosa, il gruppo italiano ha preferito la più sicura strada della fusione con Abertis. Tuttavia non è nel giudizio sui comportamenti imprenditoriali dei soci di Schema 28 che vanno individuati i principali problemi.

La convenzione stipulata all’atto della privatizzazione di Autostrade, prevedeva una scaletta di investimenti da effettuare nel tempo. Investimenti in infrastrutture, miglioramenti della rete in concessione ecc. Tutte cose delle quali, oltre alla stessa società, avrebbero beneficiato soprattutto gli utilizzatori, gli utenti, gli automobilisti ed i camionisti insomma, in ultima analisi, il paese. Un paese già penalizzato pesantemente dal ritardo sulla quantità e la qualità delle proprie infrastrutture.

Se il programma di investimenti fosse stato rispettato, ad oggi Autostrade avrebbe dovuto investire circa 6,5 miliardi ma ne ha realizzati meno della metà, 3 miliardi. In compenso ha distribuito ai soci nel periodo, circa 2 miliardi di dividenti ordinari e, soprattutto, avrebbe dovuto distribuirne ulteriori 2 miliardi sotto forma di un dividendo straordinario all’atto della fusione.

La domanda che si è posto il Ministro Di Pietro è stata: perché lo Stato, titolare attraverso l’Anas dei diritti derivanti dal suo status di concedente, deve guardare senza intervenire se una società incassa gli aumenti tariffari a spese dell’utenza, non effettua gli investimenti previsti dal contratto di concessione, usa questi soldi per distribuire 2 miliardi ai soci e poi cede il controllo ad un gruppo straniero? A nostro avviso il suo ragionamento e la decisione di mettersi di traverso, liberalismo o meno, ci sembra impeccabile nell’interesse e nella tutela dei cittadini di questo paese.

Il risultato di opposte politiche imprenditoriali, si vede nelle quotazioni di borsa. Nel quinquennio 2001-2006 il valore di borsa di Abertis è passato da 4,5 miliardi a 25,7 attuali, quello di Autostrade da 10,4 a 21,3. Sia sul piano economico che giuridico, Autostrade si è rivelata perdente.

D’altra parte queste cose possono succedere a chi come i Benetton, dopo avere scritto la storia imprenditoriale italiana, fatta di coraggio, creatività e rischio, passa al nemico, investendo in settori protetti, come la gestione in monopolio naturale delle reti stradali e le telecomunicazioni.

 
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Una politica per il bene dei cittadini

Post n°28 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da albert.z
 
Foto di albert.z

''Sono qui a parlarvi di alcuni risultati del ministero delle Infrastrutture''. Antonio Di Pietro affida a YouTube, il sito leader mondiale nella diffusione di firmati via internet, un videomessaggio per spiegare ''perche' il ministro ha fatto tutto questo polverone'' sulla fusione tra Autostrade e Abertis. Di Pietro parla in piedi di fronte alla telecamera, presumibilmente davanti alle bandiere italiana ed europea del suo studio, per un filmato amatoriale dal titolo ''Autostrade - Abertis'' della durata di poco piu' di quattro minuti che si puo' vedere tramite un link dal suo sito internet personale. Rilancia cosi' l'appello alle concessionarie autostradali ad aderire ad ''un patto, un patto per il Paese che noi chiediamo - spiega - a coloro che tutte le mattine sono autorizzati a prendere i vostri soldi per riempire le saccocce''. Il ministro, che ricorda la riforma delle concessioni varata con la Finanziaria, si riferisce ai pedaggi autostradali, indica che e' ''giusto'' che ci sia un utile per le aziende, si rivolge direttamente alle concessionarie e chiede: ''Tutto quello che guadagnate reinvestitelo in infrastrutture, nel nostro Paese, perche' e' il cittadino che tutte le mattine contribuisce a creare tutta questa massa di denaro che sparisce''. Il Paese, dice il ministro, ''ha bisogno di infrastrutture, di denaro liquido per poter realizzare nuovi investimenti, e quindi creare nuova occupazione e pensare ai giovani. Liberta' di mercato si', ma non prendere dai cittadini tutte le mattine e poi andarlo a mettere in qualche cassetta delle isole vergini, nei paradisi fiscali, nel realizzare solo extraprofitti personali''. Il ministro stima i ricavi delle societa' del settore in ''sei miliardi l'anno. Di questi - dice - almeno 4 miliardi di euro l'anno potrebbero essere reinvestiti. Ad oggi la maggior parte di questi soldi servono per fare dividendi, utili, che non vengono reinvestiti nelle infrastrutture, e cosi' i soldi per realizzarle non ci sono mai. Se calcoliamo che le concessioni durano decine e decine di anni, calcoliamo circa 250 miliardi di euro che potrebbero essere reinvestiti: fino ad oggi non e' avvenuto cosi', noi vogliamo che avvenga cosi' perche' questi sono i soldi dei cittadini''.

 
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Pensieri di un ammiratore di Berlusconi

Post n°27 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da albert.z
 

Tutti pregano per te. Anche il patetico Mortadella prega perché tu rientri presto in Italia in buona salute. Senza di te questi scoppiano! Se, invece, tu torni prima delle feste, beh, questi gentiluomini hanno qualcosa da odiare in comune e così passeranno un bel Santo Natale pieno di invidia e di acredine. Allora perché non fai finta di assentarti per un po'? Spargi la voce - ovviamente falsa - che te ne starai in vacanza per qualche mese... inventati magari che sono i medici ad obbligartelo; oppure, toccandoti adeguatamente, fa' dichiarare da qualcuno che le tue condizioni sono preoccupanti e che starai lontano dalle scene per un po'. Ne vedremmo delle belle! Senza di te, di cosa scriverebbero i giornali? di cosa parlerebbero i "politici", di cosa disquisirebbero gli intellettuali? di cosa girotonderebbero i girotondini?? Evviva Silvio. Io ci scherzo sù perché sono certo che stai benissimo, però che film sarebbe!! Un Augurio stratosferico da tutta la mia famiglia. Ettore Guzzini

 
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Prodi e i suoi processi dal riassunto di Vincenzo Neri

Post n°26 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da albert.z
 
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PRODI e la TAV

 

Tratto dal libro del Giudice F. Imposimato "Corruzione ad alta velocità" .. Il 25 nov. 1996, al termine di un'inchiesta serrata che si basa anche su una perizia contabile di ben 13 mila pagine svolta dal prof. Renato Castaldo, la procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per il reato di abuso d'ufficio dell'ex presidente dell'Iri Romano Prodi - nel frattempo diventato presidente del consiglio - e di altri cinque componenti del consiglio di amministrazione dell'ente: M. Draghi, P. Ferro Luzzi, G. Glisenti, A. Patroni Griffi e R. Poli. Richiesta di rinvio a giudizio anche per C.S. Lamiranda, in quanto legale rappresentante della Fisvi. Le accuse del pm Geremia sono molto circostanziate: Prodi e gli altri membri del consiglio di amministrazione dell'Iri avevano intenzionalmente avvantaggiato la Fisvi di Lamiranda. Prodi, in particolare, fin dal 1990 aveva rivestito la carica di advisory director della Unilever Nv (Rotterdam) e della Unilever Pie (Londra), gruppo che secondo le indagini aveva gestito la trattativa attraverso la Fisvi. Stando all'accusa, Prodi aveva consentito alla Fisvi di acquistare la Cirio-Bertolli-De Rica senza che la stessa avesse i mezzi per realizzare l'operazione. Lo scopo era quello di far avere alla Unilever il ramo olio (Bertelli) dell'azienda per 253 miliardi. Così facendo Prodi aveva permesso che venisse a conclusione un'operazione molto complicata: la Unilever, di cui lo stesso era advisory director, poteva accaparrarsi il ramo olio, settore strategico del gruppo, senza sopportare gli obblighi di natura finanziaria derivanti dalla stipula del contratto di acquisto direttamente dall'lri. Lo stesso Prodi, in questo modo, evitava il conflitto di interessi. Inoltre Tiri aveva venduto la CBD violando le direttive del Cipe che prescrivevano il conseguimento del miglior prezzo. Ma non è finita. L'Iri, così facendo, aveva ripetutamente consentito la modifica delle condizioni dello schema di contratto in modo del tutto favorevole all'acquirente senza alcun vantaggio, anzi con danno, per Tiri. La cessione delle azioni della CBD era inoltre avvenuta sulla base della valutazione di una società, la Parfin, che non aveva valutato la reale consistenza patrimoniale della Fisvi e la sua capacità di reddito, fidandosi soltanto dei dati di bilancio. Come se non bastasse, Prodi e i suoi amministratori in seno all'Ili, anziché valutare la possibilità di vendere separatamente i comparti alimentari della CBD, li cedevano tutti alla Fisvi. E questo anche se la Fisvi non solo non aveva indicato i mezzi finanziari per far fronte al pagamento del pacchetto azionario, ma era riuscita ad ottenere perfino una modifica delle condizioni contrattuali. II lavoro investigativo della dottoressa Geremia non si svolge con serenità. L'inchiesta Iri-CBD è appena cominciata e quella del consulente Castaldo è in corso, ed ecco che il pubblico ministero comincia a subire una serie di atti intimidatorii insulti telefonici, telefonate silenziose, avvertimenti, minacce. Siamo nell'ottobre-novembre 1996. È la prima volta che in un processo per corruzione arrivano intimidazioni così pesanti. Geremia non si scoraggia e va avanti. Nessuno fino a quel momento sa di quelle minacce che raggiungono la giovane inquirente anche a casa, nella sua abitazione romana, dove vive con l'anziana madre.

 

È in quello stesso periodo che la Geremia dissotterra un altro cadavere giudiziario: il processo sull'Alta velocità, con dentro l'affare Nomisma, che - secondo i pm di La Spezia e di Perugia - era stato insabbiato nella capitale da Giorgio Castellucci. Le minacce e gli insulti si intensificano. L'origine è ignota, ma il movente sembra celarsi in quell'inchiesta scottante sulla vendita della CBD. La Geremia comincia a preoccuparsi. A distanza di anni, ad Imposimato ha confidato: «La cosa strana è che il numero del mio telefono di casa era riservato e soltanto poche persone lo conoscevano. Come abbiano fatto a trovarlo per me resta un mistero». La Geremia decide allora di denunciare la tortura psicologica cui è sottoposta, ormai a ritmi incessanti, al commissariato di polizia presso la Procura di Roma, a piazzale Clodio. Lo fa il 7 novembre 1996, 18 giorni prima di chiudere l'inchiesta Iri-CBD. Informa anche dell'accaduto il procuratore capo di Roma, Michele Coiro che quel processo tanto delicato le aveva affidato. Nel frattempo una tempesta si sta addensando proprio sulla testa di Coirò. Il Csm lo accusa di avere rapporti di frequentazione con il capo dei Gip Renato Squillante, arrestato per corruzione. Come se i rapporti tra un procuratore capo e il responsabile dell'ufficio del giudice per le indagini preliminari, suo referente istituzionale, fossero da ritenersi disdicevoli. Sta di fatto che pochi giorni dopo aver raccolto Io sfogo della Geremia, Coirò è costretto a lasciare la Procura di Roma per assumere la guida della direzione generale degli uffici di detenzione e pena del ministero della Giustizia, refugium pecatorum dei magistrati in disgrazia. A Coirò viene fatto capire che se non lascia volontariamente la Procura di Roma, sarà sottoposto ad inchiesta disciplinare. Titolare dell'azione disciplinare è il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, amico di Prodi. «Michele Coirò era un magistrato di valore e un grande amico - ha spiegato la Geremia ad Imposimato - la sua morte è stata un duro colpo per me. Mi ha sempre lasciato piena libertà nell'inchiesta sulla Cirio. Non glielo hanno perdonato. Lo hanno costretto a lasciare la procura di Roma sette mesi prima di andare in pensione.» Nonostante i segnali si facciano sempre più evidenti, Geremia continua nella sua indagine che di giorno in giorno si arricchisce di nuovi tasselli. La sua percezione è ormai quella di avere toccato interessi forti, di quel governo invisibile che agisce con tutti i mezzi pur di raggiungere i suoi obiettivi. II 25 novembre 1996 un uragano si abbatte sul palazzo di Giustizia di Roma. Come abbiamo visto Geremia chiede il rinvio a giudizio di Prodi & company per l'affare Cirio. Anche il procuratore aggiunto Giuseppe Volpari, che con le funzioni di reggente sostituisce Coirò, appone la sua firma in calce al provvedimento. All'udienza preliminare del 15 gennaio 1997 il Gip Eduardo Landi decide di non decidere e rinvia la richiesta della Geremia all'udienza del 28 febbraio. E intanto la Geremia continua a ricevere minacce. Una sera, rincasando, nella cassetta della posta trova una busta contenente una sua fotografia, ritagliata da un giornale, e un coltellino. Questa volta il segnale è ancora più serio. Inequivocabile. I misteriosi personaggi che la perseguitano sembrano decisi a tutto. Informa dell'accaduto il responsabile della Procura di Roma. Denuncia l'episodio al commissariato Vescovio. L'Italia sta per entrare in Europa. Man mano che l'inchiesta Iri-Cirio si avvia al suo luogo naturale, il processo, i pericoli per lei aumentano.

Il giudice Landi, nell'udienza preliminare del 28 febbraio, decide che la perizia Castaldo non è sufficiente. Affida quindi ad un collegio di cinque esperti tutta una serie di quesiti legati alle accuse formulate dalla Geremia. A Milano, in casi del genere, non sono mai state disposte perizie. Tra l'altro Landi chiede ai periti una valutazione sul prezzo del gruppo agroalimentare Cirio-Bertolli-De Rica. Strano, perché la Geremia non ha mai fatto questione di prezzo, sollevando invece la questione del vantaggio per la Fisvi ai danni dell'Iri. L'indagine tecnica è molto accurata e si risolve in una perizia di 612 pagine. Il 22 dicembre 1997 il Gip Landi conclude l'udienza preliminare, assolvendo gli imputati con formula piena: il fatto non sussiste. E qui comincia un'altra singolarità. La sentenza Landi sarebbe dovuta essere depositata entro il 23 gennaio 1998. Così però non è. Geremia l'attende per poter proporre impugnazione alla Corte d'Appello. La sua è un'attesa vana. La sentenza giunge sul suo tavolo nel pomeriggio del 9 febbraio: due giorni prima Giuseppa Geremia era stata trasferita alla Procura generale di Cagliari. Nessuno proporrà impugnazione contro la sentenza di assoluzione di Prodi & company. Nella sentenza di 47 pagine il giudice Landi si sofferma a lungo sul capo di imputazione, il reato di abuso in atti di ufficio, la cui formulazione è stata sostituita dal parlamento con una legge del 16 luglio 1997, una legge nuova, intervenuta proprio mentre l'udienza preliminare che vede sul banco degli imputati Romano Prodi è ancora in corso. Landi osserva correttamente che la nuova ipotesi di abuso - voluta fortemente dall'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e varata con il pieno appoggio dell'allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, grande amico (inutile ricordarlo) dello stesso Prodi - è «più favorevole all'imputato». E questo non solo «avuto riguardo al più mite trattamento sanzionatorio - pena da sei mesi a due anni in luogo della precedente da due a cinque anni - bensì per la trasformazione del delitto da reato di pura condotta o di pericolo, sorretto dal dolo specifico, in reato di evento, in cui il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto devono essere cagionati intenzionalmente». Leggendo la sentenza di Landi si ha la sensazione che questa modifica della legge, votata da maggioranza e opposizione, abbia avuto un peso determinante nell'assoluzione di Prodi. Landi non si chiede - e non ne aveva l'obbligo - se Prodi e soci sarebbero stati condannati secondo la vecchia legge. Molti imputati di tangentopoli, giudicati tempestivamente, in base alla vecchia legge per fatti anche meno gravi di quelli attribuiti al prof. Prodi sono stati duramente condannati a pene severe e sono finiti in galera. Qualcuno è arrivato persino a suicidarsi, prima ancora del processo. Ne siamo lieti per Prodi, assolto con formula piena. Ma sarebbe interessante conoscere per intero la verità storica di questa vicenda che continua a rimanere oscura ed inquietante. .. .. Lo salvò dal tintinnare delle manette di dipetresca "origine" solo la sua appartenza alla sx dc, che fu l'unica a non essere toccata da tangentopoli fra i componenti dell'allora pentapartito. Se poi vogliamo parlare di Nomisma, della Tav e di quei torbidi interessi su 140mila miliardi di lire che fecero gola la prof e ai suoi degni compari.. ti accontento subito!

                                                                      Neri Vincenzo

 
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Lettera al papa

Post n°25 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da albert.z
 
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A Sua Santità
Benedetto XVI
Città del Vaticano
Apprendiamo che a ridosso delle elezioni politiche italiane del 9 e 10 aprile 2006, Lei riceverà in visita ufficiale il presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, nell’ambito di una visita del Partito Popolare Europeo (Ppe). Molti dicono che questo incontro sia stato pensato e programmato dallo stesso interessato che vuole questa visita come una sorta di «consacratio ad limina», a ridosso delle imminenti elezioni politiche e dopo mesi di estenuante campagna elettorale mediatica senza esclusioni di colpi. L’ospite che giunge in Vaticano, dopo essersi paragonato a Napoleone, il 12 febbraio 2006, ad Ancona, durante un infinito comizio ai suoi sostenitori, ha superato il segno della normalità psicologica e della decenza morale, affermando testualmente: «Io, il Gesù della politica, una vittima paziente, mi sacrifico per tutti». Nelle precedenti politiche del 1993, ebbe a presentarsi come il «Messia», inviando i suoi sostenitori come «missionari e apostoli». Mai uomo politico intelligente o sprovveduto era mai arrivato a tanto.
Nulla da eccepire se l’udienza capitasse in tempi normali o non sospetti. In queste circostanze e condizioni, la visita è programmata da parte italiana con fini strumentali: essa serve al capo del governo per potersi accreditare come «consono» alla Chiesa cattolica a differenza del suo rivale, Romano Prodi, che da cattolico serio e «adulto» non usa la religione come strumento populista di infima propaganda. Egli, infatti, si è incontrato con il card. Vicario, Camillo Ruini, nel più assoluto riserbo.
Se Lei dovesse ricevere Berlusconi in udienza, di fatto, anche senza volerlo, si schiererebbe con una parte, e il gesto più eloquente di ogni parola contraddirebbe quanto Lei afferma nella sua prima enciclica: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile» (28/a).
Con questa visita, anche contro la Sua volontà, il Papa rischia di accreditare un uomo che ha diviso la nazione invece di unirla, come richiedeva la sua funzione. Il presidente del consiglio italiano si definisce cattolico, ma non esita a distruggere lo stato sociale, impoverendo ancora di più i poveri e favorendo i ricchi. Al contrario, egli ha triplicato il suo patrimonio facendosi approvare leggi su misura contro ogni legittimità giuridica. Interi settori della popolazione che fino a ieri vivevano una vita dignitosa, oggi vengono nelle parrocchie a chiedere aiuto per arrivare alla fine del mese. Questo stato di cose incide e condiziona non solo la qualità, ma anche l’esistenza stessa della famiglia che Berlusconi ben conosce, giacché, da «buon cattolico» usufruendo del divorzio, ha fatto una duplice esperienza familiare. Ci risulta, a proposito, che da alcuni giornali specializzati in «gossip» si è fatto fotografare mentre fa la Comunione, contravvenendo così ad una chiara norma della Chiesa sull’accesso dei divorziati ai sacramenti e lasciando nello sconcerto la massa di cattolici, spesso divorziati senza colpa, che sono indotti a pensare che il Sig. Berlusconi abbia avuto uno sconto dalla Chiesa in quanto ricco e potente.
Il presidente del consiglio dei ministri dovrebbe essere un modello per l’intera nazione e, invece, assistiamo ad una sistematica denigrazione della giustizia e delle istituzioni pur di salvarsi dai processi per accuse gravissime come la corruzione di giudici, divulgando tra la popolazione non solo il senso dell’illegalità, ma anche la convinzione che le leggi siano lacci per i polli che i furbi sanno evitare. Anche il Papa si sarà chiesto come mai un uomo prudente e saggio come il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, si sia rifiutato di firmare in prima istanza, a norma della Costituzione, tutte le leggi qualificanti l’azione di questo governo, dichiarate «palesemente incostituzionali».
La vittoria delle elezioni si giocherà sul filo del rasoio perché il capo del governo ha voluto e ha fatto approvare una legge elettorale su sua misura. In subordine, in caso di sconfitta, che gli istituti demoscopici non escludono, egli vuole rendere l’Italia ingovernabile, in base al principio del «muoia Sansone con tutti i Filistei» (Gdc 16,30). Da vero statista. Al Papa non può sfuggire il particolare che il Sig. Berlusconi sia proprietario di tre reti tv e disponga delle altre tre pubbliche, avendo così dalla sua l’intera flotta mediatica, supportata da giornali di proprietà o compiacenti e asserviti mediante il meccanismo perverso della distribuzione delle quote pubblicitarie.
In un momento così grave e delicato per l’Italia, molti cattolici chiedono al Papa di non prestarsi anche involontariamente a questo gioco che a molti appare demagogico, populista e dissacratore, perché appare basato sul principio machiavelliano, immorale per l’etica cattolica, che il fine giustifichi i mezzi. Chiediamo al Papa che «almeno» per opportunità politica non riceva il capo di una fazione politica, nel momento in cui la legge italiana impone una reale par condicio che il capo del governo ha eluso e aggirato a piene mani e anche ostentatamente. In subordine chiediamo che riceva insieme i due capi dei poli opposti e faccia loro una autentica lezione di comportamento etico anche in campagna elettorale, senza dimenticare di ricordare i principi fondamentali della «Dottrina sociale della Chiesa» che ha come fulcro il «bene comune» dell’intera Nazione.
Desideriamo informare il Papa che molti, moltissimi fedeli sono impressionati per il silenzio della gerarchia cattolica italiana di fronte ad eventi e scelte governative che gridano vendetta al cospetto di Dio, giacché ritengono e pensano che essere cristiani sia incompatibile con il modello di governo che questi cinque anni ci hanno riservato. Una «contradditio in terminis». Molti di noi non sanno spiegarsi i motivi per cui partiti che dicono d’ispirarsi ai principi cristiani, abbiano potuto essere alleati succubi di questo esorbitante e folcloristico potere che ha tenuto in scacco tutte le Istituzioni, a cominciare dalla Suprema Carta Costituzionale di cui è stato fatto scempio pur di saziare gli appetiti delle singole fazioni che compongono la maggioranza attuale.
I partiti che fanno riferimento ai principi etici del cattolicesimo hanno firmato una legge sull’immigrazione che nega i principi fondamentali della fede cristiana, per sua natura universale e quindi aperta, con le necessarie regole, all’accoglienza di disperati e affamati; i quali bussano alla porta dell’occidente opulento che pure legge ogni domenica Mt 25, 31-46, là dove il Signore si identifica con gli affamati, gli assetati, i carcerati, i forestieri. L’ospite che arriva in Vaticano ha appena approvato e fatta varare dal parlamento una legge immorale che concede a tutti i cittadini la licenza di uccidere e di essere uccisi in nome di una malin-tesa sicurezza la cui custodia è affidata alle pistole di una pericolosa giustizia «fai da te».
Al Papa chiediamo che non presti il fianco a dividere ancora di più i cattolici che già sono frammentati in partiti e porzioni di partiti. Infine, chiediamo che il Papa preghi per tutti gli Italiani perché possano scegliere con scienza e coscienza, lasciandosi guidare non da interessi particolari, ma unicamente dal bene comune della loro Nazione, all’interno del quale si realizza e si compie anche il bene personale.
Lei stesso nella sua prima enciclica /Deus Caritas est/, citando Sant’Agostino, ha scritto: «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giu-stizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?» (De Civitate Dei, IV,4). Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l’autonomia delle realtà temporali (Gaudium et Spes, 36)».
Dio non voglia che il Papa permetta questa commistione diabolica e preservi la Sede di Pietro da ogni calcolo di interesse e da basse strategie di strumentalizzazione partitica e faziosa. È una questione etica. È un imperativo di decenza.
Con cordialità.

Paolo Farinella, prete - Genova

 
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