Post N° 43

Post n°43 pubblicato il 22 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Erano le sei, avevo un buona anticipo sui miei impegni di lavoro.
Mi fermai a bere un caffè nel solito bar.
Sarebbe stato come tornare in un bordello al mattino presto per un ombrello scordato, e scoprire dietro la prostituta che ci ha appagato nella notte una donna in ciabatte, assonnata, e senza nessuna attrattiva.
Fu sorpresa di vedermi.
Se ne stava lì trasecolata e sorridente nel vano della porta e nemmeno mi diceva di entrare.
"Come mai a quest'ora?"
"Così."
Mi prese una mano e mi tirò dentro: "Vieni."
Aveva smesso di temermi.
Era bastato un piatto di spaghetti.
Mi aveva già assorbito nella sua intima normalità, come la scimmia del poster, come il cane cieco.
Le finestre erano spalancate, il giorno penetrava nella stanza.
Le sedie erano capovolte sul tavolo e il pavimento a tratti brillava d'acqua.
Italia aveva già rigovernato.
Aveva addosso l'orgoglio di quel lavoro compiuto, e nello sguardo lo stesso lucore del pavimento.
Io, invece, ero scontento, sfibrato.
"Spengo il ferro."
E si diresse verso un'asse da stiro aperta in un angolo dalla quale pendeva uno spicchio di cotone celeste, forse un grembiule.
Era già vestita per uscire, ma non si era ancora truccata il viso.
I suoi occhi slavati mi carezzarono.
Dalla barba lunga, dalla giacca sgualcita, le venne facile capire che non avevo dormito in un letto.
"Vuoi farti una doccia?"
"No."
"Vuoi un caffè?"
"L'ho già preso al bar."
Sprofondai sul solito divano.
Lei prese a tirare giù le sedie intorno al tavolo.
I capelli legati in una coda breve e sfilacciata le spogliava la fronte bombata.
Provai a ricercare nella mente l'unica immagine che volevo conservare di lei, quel corpo confuso, sottomesso.
Ma la donna che avevo davanti era troppo distante da quell'immagine.
Struccata, Italia aveva la pelle di un biancore polveroso, che si arrossava sotto gli occhi, sul naso.
Ed era più bassa del solito, calzava un paio di scarpe da ginnastica nere, di stoffa.
Venne a sedersi davanti a me.
Forse si vergognava che l'avessi sorpresa disadorna, nella sua normalità casalinga.
Le sue mani erano arrossate, cercava di nasconderle, stringendole l'una dentro l'altra.
Pensai che era molto più attraente così, molto più pericolosa.
Era senza età, come una suora.
E anche la casa ora mi ricordava una di quelle chiese che s'incontrano nelle località di mare.
Chiese moderne, senza affreschi, con un Gesù di gesso e fiori fasulli in un vaso senz'acqua.
"E' tua la casa?"
"Era di mio nonno, ma prima di morire se l'è venduta. Io sono salita per dargli una mano, si era rotto il femore, poi sono rimasta, ma devo andarmene."
"Di dove sei?"
"Di giù, del Cilento."
Il cane attraversò la stanza e venne ad accucciarsi ai piedi di Italia.
Lei si curvò.
La sua mano percorse il pelo della testa.
"E' stato male stanotte. Forse ha mangiato un topo..."
Mi avvicinai alla bestia.
Si lasciò palpare senza fatica, stendendosi sul dorso e allargando le zampe.
Mugolò appena, quando affondai le dita in una zona più dolente.
"Non è niente, basta un disinfettante."
"Sei un dottore'"
"Un chirurgo."
Le sue gambe erano lì, a pochi centimetri da me.
Faticai a divaricarle.
Baciai le cosce bianchissime, quasi azzurre.
Mi spinsi con la testa nello spazio tra l'una e l'altra, erano fredde anche se sudavano.
Italia si piegò su di me con il suo respiro.
Sentivo la mia nuca che si bagnava della sua bocca...
Mi sollevai di scatto urtando contro il suo volto.
Tornai a sedermi sul divano.
Avvicinai le mani, le strindi forte l'una all'altra.
Fissai gli occhi su quelle dita annodate.
"Io sono sposato."
Non la guardavo, la intuivo, in una zona fuori fuoco, nella fascia estrema dello sguardo.
"Non verrò più, sono tornato per dirtelo..."
Aveva il capo chino e una mano ferma sul naso, forse l'avevo colpita malamente.
"...Per scusarmi."
"Non ti preoccupare."
"Io non sono uno che va in giro a tradire sua moglie."
"Non ti preoccupare."
Dal naso le colava un rivolo di sangue.
Mi avvicinai a lei e le sostenni il mento: "Tieni indietro la testa."
"Non ti preoccupare, perchè ti preoccupi tanto?"
Un sorriso inespressivo le ingentiliva il volto.
Dietro tanta clemenza adesso mi sembrava di raccogliere una sconfitta.
Le spingevo quel mento in aria, volevo vincere, volevo vincerla.
"Scopi spesso con la gente che non conosci?"
Non si scompose, ma aveva ricevuto un colpo.
Spostò la mira davanti a sè, e non so in quale orto rotolarono i suoi pensieri.
Il suo sguardo era colla, come quello del suo cane.
No, non avevo alcun diritto di offenderla, aprii le mani e mi nascosi lì dentro.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 42

Post n°42 pubblicato il 22 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

La sazietà era un benessere che avevo scordato.
Forchettata dopo forchettata, sentivo che quel cibo mi faceva bene.
Mi allungai per prendere la bottiglia di birra che era rimasta lontana da me, anche lei mosse il braccio, forse per aiutarmi.
Oltre il vetro freddo di frigorifero tastai, inaspettata, una porzione della sua mano, calda, vibrante.
Mi versai la birra malamente senza badare a quello che facevo, schiumò fuori dal bicchiere.
Avevo faticato a staccarmi.
Mi sarebbe piaciuto restare, ben oltre le sue dita.
Per una frazione si secondo mi era corso dentro il desiderio di posare nel palmo di quella mano la fronte, affinchè lei sorreggesse il carico della mia testa.
Italia allora guardò la piccola pozza di schiuma allargarsi sotto il bicchiere.
C'era una luce speciale nei suoi occhi che scivolava sotto la pelle del viso, imprigionato da un alone fragile, intimissimo.
Mi sembrò che fosse diventata di colpo triste.
Seguii quella tristezza nel sentiero nero del collo in ombra, fino a raggiungere le costole dove si staccavano i seni.
Lei se ne accorse, afferrò la spugna dell'accappatoio e si serrò il petto.
Ora lei era in luce.
In quella poca luce di candela, mi guardava mangiare.
A braccia conserte come un amore nella notte.
Mi ero fermato lì, su quello spiazzo d'asfalto spruzzato di sabbia, oltre un filare di oleandri.
Guardavo il cancello accostato e, tra le sue grate, la casa.
Il tetto di ardesia e le mura bianchissime, impregnate di fosforescenza nel nitore di quella luce appena nata.
Non ero entrato in casa, ero rimasto in macchina a intirizzirmi di umido.
C'era stato un salto nel tempo, non so quanto lungo, in cui forse mi ero assopito.
L'utilitaria di Elsa era parcheggiata sotto la tettoia di canne.
Il suo corpo era fermo sul letto, ignaro di me.
Spiavo le cose che l'alba svelava, il filo da stenditura vuoto, le nostre biciclette addossate al muro.
Ora nel cielo, insieme ai primi bagliori di sole, avanzava un celeste intenso.
in quella pulitezza tutto era estremamente visibile.
Se la notte mi aveva protetto, la luce, restituendomi alle cose, mi restituiva a me stesso.
Allungai il collo nel piccolo rettangolo di specchio e ritrovai la mia faccia.
La barba era cresciuta senza che io me ne accorgessi.
Scesi dalla macchina, costeggiai la recinzione, m'infilai nel canneto, e sbucai sulla spiaggia.
Non c'era nessuno, solo il mare.
Camminai fino all'arenile e mi sedetti a pochi passi dall'acqua sull'ultimo lembo di sabbia asciutta.
La casa era dietro di me, se Elsa avesse spalancato la finestra della camera da letto avrebbe visto il puntino della mia schiena sulla spiaggia.
Invece dormiva.
Forse in quel sonno più leggero cercava un destino diverso e ci s'immergeva con la stessa precisione con cui si tuffava nel mare, quando senza uno schizzo scompariva nella sua buca.
Il corpo può amare ciò che la mente disprezza, Angela?
Facevo questo pensiero, tornando verso la città.
Una volta, costretto dalla cortesia, assaggiai, nella cantina di un contadino, uno speciale formaggio di fossa, dalla scorza annerita di muffe e dall'odore cadaverico, e dentro scopersi, con mia grande sorpresa, un gusto violento e gentile insieme.
Mi rimase nella bocca il sapore di un pozzo, di una profondità, che portava in sè la nostalgia e insieme il disgusto di quel formaggio, del suo feto
re.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 41

Post n°41 pubblicato il 18 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

C'erano alcune nespole posate sul tavolo, ne presi una.
Era di una pasta dolce, ne presi un'altra.
"Hai fame?" disse.
La sua voce era fioca, proveniva dal silenzio.
Anche Italia doveva aver pensato qualcosa di strampalato.
Quando la mia mano aveva smesso di stringere la sua, lei aveva chiuso le dita e il denaro era caduto in terra.
Ora me la porgeva vuota quella mano:
"Dammi", e le diedi i noccioli.
"Ti faccio un piatto di spaghetti?"
"Come?" sussurrai, stupito da quella proposta.
"Con il sugo, o come vuoi tu."
Aveva frainteso la mia domanda.
Mi scrutava con una faccia nuova, all'improvviso vivace, gli occhi vibravano dentro le loro orbite come teste appena spuntate da un guscio.
Non avevo intenzione di fermarmi.
Ma c'era quella piccola speranza appesa al suo viso.
Una speranza così lontana dalla mia.
Perchè anch'io speravo, Angela.
In qualcosa che non era in quella stanza, nè altrove, che forse marciva insieme alle ossa di mio padre.
Qualcosa di cui non sapevo nulla, davvero inutile da cercare.
"Lo fai buono il sugo?"
Rise, s'infiammo di gioia, e per un attimo pensai che forse anche la mia speranza era modesta e facile come la sua.
S'incamminò sbieca verso la camera da letto, tentando di coprirsi con quella maglietta troppo corta.
Mi tornò davanti svelta con un paio di pantaloni da tuta addosso e i suoi sandali multicolori slacciati:
"Esco un attimo."
La spiai dalla finestra, mentre riappariva alle spalle della casa, dove, mi accorsi, cresceva un piccolo orto.
I tacchi affondati nella terra, con una torcia in mano, frugava in un filare di piante sorrette da canne.
Riapparve con un fardello nella maglietta e s'infilò in cucina.
Dalla porta vedevo la sua figura che si affacciava, ora intera, ora solo con un braccio, con un ciuffo di capelli.
Si allungava verso un pensile e tirava fuori una pentola, un piatto.
Aveva lavato i pomodori con cura, uno alla volta, e adesso, china su un tagliere, faceva correre in fretta un grosso coltello sminuzzando gli odori.
La lama attaccata alle dita, senza incertezze.
E scoprivo stupito che Italia era una cuoca pulita e precisa, padrona dei suoi gesti, della sua cucina.
Aspettavo seduto, composto e un pò irrigidito come un ospite ossequioso.
"E' quasi pronto."
Lasciò la cucina e si chiuse in bagno, sentii che apriva l'acqua della doccia.
Sprimacciai i cuscini  intorno a me sul divano.
Un buon odore di sugo fresco aveva invaso la stanza, e la mia fame.
Incontrai sul muro lo scimpazè abbracciato al suo biberon.
Era identico a Manlio.
Gli sorrisi come si sorride a un amico più stupido.
In bagno l'acqua scrosciava violenta, poi si fermò.
Pochi rumori e lei era già fuori.
Bagnati i suoi capelli gialli sembravano legno.
Aveva un accapatoio beige addosso.
Si strinse la cinta di spugna e sospirò confortata.
"Butto la pasta."
Tornò in cucina.
Passandomi accanto mi lasciò nel naso un aroma di talco, dolce come vaniglia, l'aroma di una bambola.
"Vuoi una birra?"
Mi portò la birra, poi scomparve e riapparve con l'occorrente per apparecchiare.
Mi alzai per darle una mano.
"Non ti muovere" disse, "ti prego."
La sua voce era premurosa come le sue mani.
Rimasi a guardarla mentre approntava la tavola.
Andava e viniva dalla cucina, con una vitalità sorprendente a quell'ora di notte.
Mi sembrava di vederla per la prima volta, come se quel corpo sotto l'accappatoio non fosse mai stato mio.
Sapeva apparecchiare, disponeva le posate e i tovaglioli con accuratezza.
Mise una candela al centro del tavolo.
Si fermò davanti a me, aggrottò un sopracciglio, arricciò il naso, e sporse i denti superiori come un piccolo roditore.
"Al dente?" squittì
"Al dente".
Arricciai anch'io il naso per rifarle il verso, e mi accorsi di quanto fosse meno mobile del suo.
Rise, ridemmo.
Non era solo allegra, era qualcosa di più, era felice.
"Eccoci", e uscì con una zuppiera tra le mani.
La posò.
Sulla pasta, al centro, c'era un ciuffo di basilico sistemato come un fiore.
Mi servì, poi si sedette davanti a me, posò le braccia sul tavolo.
"E tu non mangi?"
"Dopo."
Affondai la forchetta nel piatto, avevo fame, da molto tempo non ricordavo di aver avuto una fame così.
"Ti piace?"
"Si."


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 40

Post n°40 pubblicato il 14 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Non è una domanda del cazzo, Manlio, te ne accorgi in ritardo, mentre guardi una turista che passa abbracciata a un gigante in bermuda.
Adesso hai una faccia amara.
Più tardi gli dico che non è vero, che non vado a puttane.
Lui si irrita ma continua a ridere, gli si arrossa il viso, dice che sono un stronzo, "il solito stronzo" dice.
Però intanto la noia se n'è andata, la serata ha fatto un salto, si è infilata dentro le stanze più intime, dove balugina qualcosa che sembra la verità, e forse lo è, e Manlio mentre cammina verso la macchina assomiglia a un uomo sincero.
Disperato.
Ci salutiamo rapidamente, due colpi battuti sulla spalla, pochi passi nel buio, e siamo già distanti, ognuno lungo il proprio marciapiede.
Dell'altro nessun residuo.
La nostra è un'amicizia igienica.
Potrei dirti, Angela, che le ombre dei lampioni sembravano cadermi addosso come uccelli morti, e in quella caduta sul parabrezza io vedevo scrosciare tutto ciò che non avevo. e potrei dirti che mentre guidavo forte, e le ombre piombavano più veloci, montava in me il desiderio di colmare questa mancanza con una zeppa qualunque.
Potrei dirti molte cose che ora sembrerebbero vere, ma che forse non lo sono state.
La verità non la so, non la ricordo.
So solo che guidavo verso di lei senza nessun pensiero preciso.
Italia non era nulla.
Era il nero stoppino di un lume a petrolio, il fuoco era oltre di lei, il quella luce oleosa che avvolge i miei bisogni e tutto ciò che mi mancava.
Cominciava il lungo viale alberato dove si stagliavano figure mercenarie.
I fari della mia auto battevano contro i corpi fluttuanti come meduse nella notte.
Li folgoravano di luce prima di restituirli all'oscurità.
Rallentai accanto a uno degli alberi:
La ragazza che venne verso la mia auto aveva gambe di rete nera e una faccia perfetta per la sua mercatura, aspra e infantile, torbida e malinconica: la faccia di una puttana.
Gracchiò qualcosa, forse un insulto. mentre la lasciavo scomparire nello specchietto retrovisore.
C'era.
Quella notte, c'era.
La porta si aprì dolcemente, il cane si affacciò sul terrapieno, venne a odorarmi, a scodinzolare tra le mie gambe e sembrò riconoscermi.
Italia era lì, davanti a me, la mano bianchissima ferma sulla porta.
La spinsi dentro con il mio corpo.
Forse stava già dormendo perchè la sua bocca era più forte del solito.
Mi piacque.
Le catturai i capelli, la costrinsi a piegare il collo, ad abbassarsi.
Mi strofinai il suo viso contro lo stomaco.
Lì, dove il pensiero di lei mi faceva male.
Curami, curami...
Mi chinai e le passai la bocca su tutto il viso.
Le spinsi la lingua nei buchi del naso, nel sale degli occhi.
Più tardi era seduta sul divano, con una mano si tirava giù un lembo della maglietta per coprirsi il sesso.
Mi aspettava così mentre uscivo dal bagno.
Mi ero lavato sul bordo della vasca accanto a quella tenda muffita che cadeva dall'alto.
Mi avvicinai, le presi un ciuffo di capelli, le scossi la testa, intanto le infilavo i soldi nella mano.
Indugiai su quella mano priva di forza, gliela strinsi sotto  la mia per costringerla.
Lei accettò, come si accetta il dolore.
Dovevo andarmene, non potevo riacchiappare me stesso davanti a lei.
Sarebbe stato sconveniente, come guardare indietro i propri escrementi.
Anche tu vuoi restare sola, ormai ho imparato a conoscerti.
Fai quello che voglio, poi scompari, come una zanzara quando viene giorno, ti metti dentro i fiori del tuo divano e speri solo che io non mi accorga di te.
Sai di valere solo nella foia, sai che quando mi stringo il nodo della cravatta prima di andarmene ho già schifo di tutto.
Non hai il coraggio di  muoverti finchè ci sono io, non hai il coraggio di farti vedere il culo mentre vai in bagno.
Forse hai paura di finire uccisa, hai paura che io ti scaraventi nell'argilla di quel fiume secco, come quella macchina nera che è venuta giù dal viadotto.
Non sai che la mia rabbia finisce quando ti muio dentro, e che dopo sono un leone sleonato.
Cosa fai quando me ne vado?
Cosa ti lascio?
Questo camino spento, questa stanza divelta da me, che ti ha offesa nel cuore della notte senza nemmeno amarti.
Il cane ti verrà vicino, avrai bisogno di quel pelo, lo carezzerai con gli occhi fissi altrove.
Tanto, lui è cieco.
Ti verranno su cose della tua storia passata, chiodi.
Poi, tornerà la confidenza con ciò che c'è, ti alzerai, metterai in ordine qualcosa, una sedia capovolta.
E non hai bisogno di tenerti giù la maglietta, mentre ti chini senti il taglio nudo delle natiche e non ci fai caso.
Il tuo corpo senza i miei occhi in giro vale quello che vale, vale come una sedia, come una fatica.
Ma rialzandoti sentirai un filo del mio seme scivolare lungo una tua gamba e allora non lo so, ma vorrei saperlo.
Vorrei sapere se provi schifo, oppure...
No, lavati in fretta, puttanella, infilati sotto la tua tenda muffita, a colpi di spugna levati di dosso la merda e i fantasmi di questo balordo.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 39

Post n°39 pubblicato il 14 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

M'incrociai nello specchio di fronte: gli occhi folgorati salla luce in un lampo maligno.
Ero in un loculo di vecchie piastrelle.
Aprii il rubinetto.
Mentre mi piegavo con viso sul lavandino, vidi dentro un bicchiere appeso a una una bocca di ferro uno spazzolino da denti troppo usato.
Insieme al disgusto verso quelle setole slabbrate mi aggredì il disgusto di me stesso.
Appeso al bordo di una piccola vasca da bagno a semicupio c'era un tappeto di gomma.
La tenda plastificata della doccia pencolava ammuffita sul fondo, avvolta in alto sull'asta che la sorreggeva.
La saponetta era perfettamente in ordine nel suo contenitore.
Sulla mensola sotto lo specchio c'era solo una crema per le mani, e il barattolo di vetro opaco dove s'intravedeva la pasta del fondotinta che Italia si stendeva sul viso.
In terra c'era un cesto di vimini, sollevai il leggero coperchio, dentro vidi un mucchietto di panni sporchi.
Mi fissai su un paio di mutande gualcite.
E sentii dentro di me una voce greve che m'implorava di cacciarmele in fretta nella tasca e di portarle via con me.
Rialzai lo sguardo nello specchio e chiesi ai miei occhi di lupo che razza di uomo fossi mai diventato.
Spensi la luce, e tornai di là.
Passando accanto al divano, nel buio, mi chinai per aggiustare la fodera fiorata.
Il cane guaì, gli avevo pestato una zampa.
Chiusi la porta e spinsi la chiave nel suo nascondiglio, ma la gomma aveva perso elasticità.
Cercai di ammorbidirla con le dita, non mi andava proprio di farlo con la saliva.
Sentii un rumore, un ticchettio lontano.
Tacchi contro gradini metallici.
Infilai la gomma in bocca e masticai con forza.
La chiave mi cadde dalle mani, mi chinai a cercarla.
Il ticchettio era finito, affondato nella terra.
Avevo trovato la chiave, spinsi con forza il pollice e riuscii a farla aderire nella fessura tra i mattoni.
Frusciai in basso, tra l'erba, e mi nascoso dietro il muro della casa, accanto allo scheletro della macchina bruciata.
Lei apparve quasi subito.
Due gambe nere, senza fretta, abituate al buio.
E in mezzo la solita borsa.
Sembrava stanca, aveva la schiena più incurvata del solito.
Allungò il braccio nel vano della porta, ma la chiave le cadde addosso, tra i capelli.
Mi schiacciai contro il muro, mentre lei si frugava la testa.
Con un solo occhio vidi le sue dita che sfioravano la superficie della chiave, e il suo volto intanto cambiava, lo vedevo a malapena, ma intuivo che si stava riempiendo di un sentimento preciso.
Staccò la gomma e rimase a soppesarla tra le dita: si era accorta che era bagnata.
Guardò intorno nel buio, poi i suoi occhi si piantarono nella mia direzione.
Ora mi scoprirà, ora verrà a sputarmi in faccia.
Fece due passi, poi si fermò.
La luce lunare la schiariva appena.
Mi ero abbassato dietro lo scheletro di quella macchina bruciata.
Lei guardava il buio dove io mi rintanavo e forse riusciva a vedermi.
Il suo sguardo era versato nel vuoto, ma era come se sapesse che ero lì, il pensiero di me le stava passando sul viso.
Non andò oltre.
Si voltò, infilò la chiave nella toppa e si richiuse la porta alle spalle.
La sera dopo cenavo con Manlio in una di quelle trattorie del centro con i tavolini all'aperto che traballavano sul selciato e devi chinarti a sistemare la zeppa sotto la gamba giusta, poi ti rialzi e ti accorgi che traballa da un altro verso, esattamente come la vita.
Manlio scherzava, gonfiava il corpo dentro la giacca, ma non era allegro.
Aveva avuto un guaio in sala parto, farfugliava qualche frase d'effetto, si commiserava, e naturalmente mentiva.
Era suo malgrado insincero, non si era mai scrutinato, e non aveva nessuna intenzione di farlo.
Lui seguiva i moti degli altri e finiva per assecondarli.
Così, quella sera, con ardore da vero amico, tentava d'insinuarsi nella tana profonda dove io viaggiavo inappetente.
Era già un pò che durava.
Io zitto, distratto, avevo aggredito l'antipasto con una forchettata violenta, ma poi lo avevo lasciato lì, senza ordinare più nulla.
Manlio cercava di venirmi dietro, prendeva in prestito il mio umore, e intanto spilluzzicava in giro nei vari piattini, peperoni, ricotta fritta, broccoletti ripassati.
"Tu ci vai a puttane?"
Non se l'aspettava una domanda così, non da me.
Sorride, si versa da bere, fa schioccare la lingua.
"Ci vai o no?"
"E tu?"
"Si, io ci vado."
"Ma và?"
Sta correndo cissà dove, forse sta pensando a Elsa.
Non gli sembra verosimile che con una moglie così io vada a pagare.
Però il cambio di registro non gli dispiace, scivola bene nel corpo appresso al vino.
"Anch'io, ogni tanto...",  e adesso sembrava un bambino.
"Sempre la stessa o cambi?"
"Come capita."
"E dove le porti?"
"In macchina."
"Perchè ci vai?"
"Per pregare. Che domanda del cazzo" ride, e i suoi occhi spariscono.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 38

Post n°38 pubblicato il 14 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Ed era come metterle addosso un mantello, circoscriverla in un luogo, nella stanza chiusa del suo nome, lei e nessun'altra.
"Italia", e adesso carezzavo il legno della porta.
Arrivò un guaito, una zampa che raspava, e riconobbi il cane.
Aveva preso a ringhiare, quella bestia cieca, misera come la sua padrona.
Un ringhio soffocato, subito stanco, da cane vecchio.
Sorrisi.
Tornerà, se ha lasciato il cane vuol dire che tornerà, e io l'aspetterò.
Farò i fatti miei nel suo corpo per l'ultima volta.
Una macchina passò sul viadotto, la luce dei fari bagnò le mura della casa.
Tra i mattoni sopra la mia testa, qualcosa brillò nel buio.
Allora mi ricordai della chiave.
Allungai un braccio e la trovai tra i mattoni sconnessi, nel suo pezzo di gomma americana masticata.
Strinsi la mano.
Ed era proprio come se agguantassi lei.
Non dovevo farlo, ma intanto già cercavo nel legno la fessura dove infilare quella chiave appiccicosa.
Dentro, il buio totale, e il solito odore, solo più fermo.
Ero nella sua casa, e lei non c'era, e quell'abuso mi eccitava...e adesso mi piaceva pensare che quella chiave appiccicata nel vano della porta non era un caso, ma l'aveva lasciata lì per me.
Tastai il nuro intorno.
Trovai l'interrutore, dentro un pomo di ceramica sbreccata.
Una lampadina economica si accese in mezzo alla stanza.
Il cane cieco era davanti a me con i suoi occhi bianchi, un'orecchietta dritta, l'altra floscia.
Davvero un misero guardiano.
Spensi.
No, nessuna luce, l'avrei aspettata al buio.
Il buio mi nascondeva da me stesso.
Feci qualche passo a tentoni e sprofondai nel divano.
La casa era imbevuta di silenzio.
C'erano solo i piccoli rumori del mio corpo di invasore, e il respiro del cane, che si era infilato al suo posto sotto il divano.
Cominciavo ad abituarmi all'oscurità e ora distinguevo le sagome del mobilio, i gruppi neri dei soprammobili, e il rilievo del caminetto contro il muro.
Sembrava un altare smesso.
Perchè nel buio la casa aveva una sua sacralità, e un suo abbandono.
Lei c'era, nell'assenza, c'era ancora di più.
L'ultima volta l'avevo trascinata sul divano.
Non c'eravamo guardati mai.
Mi chinai per cercare dove, tra il bracciolo e la spalliera, lei aveva inabissato i suoi sussulti.
Ginocchi in terra, struscai il viso nell'oscurità.
Italia era stata così, braccata in quell'angolo.
Frugavo con le narici, con la bocca...cercavo quello che lei doveva aver sentito mentre la prendevo.
Volevo essere lei per sentire l'effetto che io provocavo nella sua carne.
Nemmeno tentai di resistere.
Corsi in fretta verso il precipizio senza quasi accorgermene.
Il piacere si allargò nella pancia tiepido e profondo, entrò nelle spalle, nella gola.
Proprio come il piacere di una donna.
Ma tornai presto uomo, Angela, e non mi rimase nessuna dolcezza.
Solo l'odore del mio fiato mentre gli ultimi sussulti morivano dentro quel divano.
E il disagio, e un'improvvisa tristezza, che in quel buio violato era ancora più triste.
Avevo le gambe anchilosate ed ero sporco come un adolescente.
Accanto ai miei ginocchi c'era quel cane che non si era perso uno spasimo della mia foia.
Mi tirai su e urtando contro le cose cercai il bagno.
Trovai una porta e un filo elettrico sul muro, lo seguii fino all'interrutore.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 37

Post n°37 pubblicato il 09 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Un boato sordo e distante entrò dalla finestra e attraversò il silenzio.
Forse il tempo stava cambiando.
La sera prima avevo lasciato una sedia sul terrazzo.
M'infilai l'accapatoio e uscii per prenderla.
Un uccello sfuggito alla migrazione si era infilato nel cortile e adesso volteggiava spaventato in basso tra le piante del giardino condominiale cercando una via d'uscita.
Lo osservai mentre si fermava in stallo, quasi lottava contro il peso di quell'aria afosa che si era fatta di colpo scura.
Tra poco sarebbe venuto a piovere.
Rimasi all'aperto in attesa di quella frescura che forse si avvicinava.
La sedia, nonostante l'imbottitura non era affatto confortevole.
Un nero battito di ali mi passò sulla testa, l'uccello finalmente era riuscito a spiccare il suo volo verso il cielo.
Nel cortile, l'aria era tornata immobile e pesante.
l temporale sarebbe rimasto lontano.
Tornai dentro e mi lavai i denti.
Che posso farci, sposa mia, questa sera ho voglia di infilarmi nel corpo di una donnetta, di strofinarmi addosso la sua testa rafia.
Ho voglia di un fiato caldo, di un cane che mi lecca la mano nel buio.
E' l'ultima volta, te lo giuro mentre dormi.
Stavo per tradirla ancora, non mi andava di guastarmi la serata.
A mano a mano, mentre abbandonavo la città e m'infilavo dentro quella bidonville, diventavo sempre più euforico, perchè era come andare in un altro mondo, in una città di palafitte, al di là dell'acqua, una piccola Saigon.
E tutta quella bruttura che si appressava, quelle luci tremolanti, mi saltavano incontro come un luna park rimasto aperto solo per me.
Era la prima volta che andavo di notte da lei.
E mi piaceva riconosere le cose, tastarle nel buio, come un ladro.
Risucchiavo l'aroma malsano di quei luoghi come un balsamo, insieme a quella parte di me che temevo e invocavo nel buio.
I gradini incerti, la sporcizia sotto le mie scarpe, le lunghe ombre dei piani, tutto taceva, tranne il mio cuore di lupo.
La scala di ferro all'esterno era inghiottita dalla notte, precipitai nel suo tunnel, in un avvinghiamento sempre più allettante.
L'ultima tappa, il terrapieno sotto il viadotto.
Fermo come un mare finito.
Poi gli ultimi passi verso la sua palafitta, verso la piccola maitresse della mia Saigon.
Dalla finestra oltre il ballatoio non arrivava nessuna luce.
Chiusi la mano e bussai contro la porta verde.
Ero inciampato sui gradini, mi faceva male una caviglia.
Misi il pugno di traverso e bussai con più insistenza, a martello.
Dov'era a quell'ora?
Fuori con i suoi amici, perchè non doveva avere una compagnia di amici?
In uno di quei locali notturni che sembrano capannoni industriali con un faro puntato verso il cielo.
Stava ballando tra la calca, con gli occhi chiusi, come la prima volta che l'avevo vista appesa al juke-box.
Perchè non avrebbe dovuto ballare?
Magari aveva un uomo, un pezzente come lei, che ora la stava stringendo e io non esistevo nei suoi pensieri.
Forse era una prostituta, d'altronde accettava i miei soldi senza sdegnarsi.
In questo momento le sue gambe scheletriche solcavano un marciapiede buio, chissà dove, in un viale sperduto della città.
Il braccio appeso al finestrino di una macchina, contrattava il prezzo di se stessa, con quella faccia patita, quegli occhi fondi, sudici di trucco.
Forse dentro quella macchina c'era Manlio.
Lui ogni tanto si divertiva a dragare qualche creatura notturna.
Allora perchè non lei?
No, lei no.
Avevo smesso di bussare, il braccio estenuato mi tremava.
Lei non era bella, era scialba, deprimente.
La sua pochezza mi sembrava una tutela, nessuno poteva immaginarla quando diventava un'altra e il suo corpo spento si accendeva di vita.
Ma forse era così con tutti.
Chi ero io per meritarmi qualcosa di più?
Alzai il braccio dolorante e bussai ancora.
Non era in casa.
La puttana non era in casa.
Sconfitto, voltai le spalle contro la porta e guardai la notte.
Il viadotto deserto, e più giù le baracche dove frusciavano lievi sentori di vite ancora sveglie.
Forse è lì che va, dagli zingari, si ubriaca nelle loro roulotte, si fa indovinare il suo destino di stracci.
Sentii in piccolo gemito e qualcosa che frusciava dall'altra parte della porta.
Pensai al suo corpo, alle sue mani, e ancora una volta mi sorpresi a non ricordarla con nitore, come avrei voluto.
"Italia" sussurrai, "Italia..."

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 36

Post n°36 pubblicato il 09 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

E' da poco che abbiamo cominciato ad annusarci io e te, da quando hai cominciato a battibeccare con tua madre.
Sai, aspettavo quel momento, sono stato a braccia conserte tanti anni.
Hai incontrato il mio sorriso fuori dalla porta del bagno, perchè è sempre lì che vi azzuffate, in mutande, con gli ombretti rovesciati nel lavandino.
Ti ho sorriso.
Anche tu mi hai sorriso.
Tua madre si è indispettita.
"Finalmente avete la stessa età" ha detto.
Lei non voleva che ti comprassimo il motorino, anch'io non volevo, ma non volevo dirti di no.
Avevi menato quella solfa per tanto tempo, metodica, senza mai stancarti.
Allora ho detto: "Comunque salirà su quello degli altri, salirà senza casco, salirà dietro qualcuno che magari guida troppo forte".
Tua madre ha detto: "Non se ne parla nemmeno".
Io sono rimasto in silenzio, e lei è uscita senza salutarmi quel giorno.
Ma la verità è che volevo veder brillare i tuoi occhi, volevo quel tuffo intorno al collo: "Grazie, papo...", volevo come un ragazzino.
E alla fine il più emozionato ero io.
Ma la mamma lo sapeva, eravamo già sconfitti.
Non sappiamo dirti di no.
Non sappiamo dirlo a noi stessi.
Lei si è sgretolata più in fretta di quanto credessi.
Poi sono venute le raccomandazioni, i giuramenti.
Piegato sul bancone del negozio, io riempivo l'assegno.
Abbiamo scelto il casco più costoso.
Tua madre ci ha battuto le nocche contro per saggiarne la durezza, un inutile ultimo gesto di difesa.
Poi ha infilato la mano nell'imbottitura che avrebbe protetto la tua testa.
La sua testa.
"Tiene anche caldo" ha detto, e ha fatto un sorriso triste.
Tu eri dietro in motorino, seguivi la nostra auto che andava pianissimo.
Nello specchietto vedevo il tuo casco rosso.
Mi ricordo d'aver detto: "Non possiamo vivere di paure, dobbiamo lasciarla crescere".
E avevo paura di pensare: dobbiamo lasciarla morire.
Buttai la chiave sul mobile all'ingresso e mi tolsi subito le scarpe.
Avevo visitato tutto il pomeriggio nel mio studio.
L'ultimo paziente era stata una donna visibilmente benestante.
Gli occhi plastificati in un'unica espressione simili ai bottoni del suo tailleur.
Le iniziali dello stilista impresse su quei bottoni erano rimaste a galleggiarmi negli occhi, ultimo dispetto della giornata.
Camminando verso il bagno già mi spogliavo.
Entrai nella doccia, il telefono squillò.
"Ti sei fatto un pò di spesa?"
Tua madre era puntuale come sempre.
"Certo."
Naturalmente mentivo.
Quell'estate campavo di arancini, palle di riso bianco fritte e gustose.
Mi fermavo a mangiarli in una gastronomia che oggi ha chiuso.
C'era un bancone di marmo, e un uomo allampanato che mi serviva in silenzio la mia dose.
Tre arancini, dentro un piatto pesante da osteria.
Sai, figlietta, la vita è una carta adesiva piuttosto ingannevole, la colla sembra resistente, sembra che debbano resistere molte cose.
Poi la srotoli, e ti accorgi che manca un sacco di roba, restano giusto quattro stronzate.
Ecco, tra quelle quattro stronzate, per me, c'è un piatto da osteria con tre arancini dentro.
Mi mancavano in città le cene di tua madre.
Ma il sapore di quella mancanza mi piaceva, nudo in piedi, dentro la mia piccola pozzanghera.
Era il sapore della solitudine, di una mano in mezzo ai coglioni.
E camminando da una stanza all'altra scoprivo che la nostalgia è un sentimento molto elastico, dentro il quale puoi far transitare tutto quello che ti va.
Una di quelle muffe del cuore che saziano di buona compagnia.
Accesi il televisore.
C'era un programma così estivo che il presentatore fluttuava dentro una piscina su un'isola di polistirolo accanto a una sirena negra.
Tolsi il volume e lasciai che quel celeste fasullo riverberasse intorno.
Andai in camera, presi dal comodino il libro che stavo leggendo, tornai in soggiorno e sprofondai sudo sul divano.
Come da ragazzo, quando i miei partivano per le vacanze e io restavo a studiare.
Aiutavo mio padre a caricare l'ultima borsa nell'impraticabile bagagliaio della Lancia coupè.
Trascorrevo i giorno disordinando la casa.
Spargevo libri, mutande, avanzi, ovunque, a tappeto.
Mi piaceva violare quei luoghi modesti che mia madre conservava lindi durante l'inverno.
E quando alla fine ogni cosa tornava in ordine riuscivo a sopravvivere meglio tra quelle mura perchè conservavo memoria del mio affronto estivo.
Credo che fosse lo stesso identico piacere che prova un sudicio cameriere quando sputa di nascosto nel piatto di un cliente troppo pretenzioso.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 35

Post n°35 pubblicato il 29 Settembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

"Lo sai che non ci credo..."
"In cosa non credi?"
"Non credo nel mondo."
Cosa stai dicendo?
Che mi frega del mondo, di tutta quella carne anonima.
Sto parlando di noi.
Del mio piccolo uccello, della tua piccola cosa.
Sto parlando di un puntino.
Di una lucciola nel buio.
"Non me la sento di mettere un figlio in questo mondo..."
Ti stringi le gambe, ti fai piccola e vorresti essere uno scarafaggio per andartene via lungo il muro.
E dove ti vuoi arrampicare?
Non vuoi un figlio perchè il mondo è violento, inquinato, triviale?
Torna qui, torna in basso da me.
Sono nudo sul letto che aspetto.
Dammi una risposta migliore.
"Poi non credo che sarei capace di tenere un neonato in mano, avrei paura."
O hai paura di rinunciare a quella donna che stringi?
Che ti piace?
Lo so, amore mio, non c'è niente di male, l'egoismo ci consola, ci fa compagnia.
E sei già stanca di sentirti scrutata, e forse adesso hai freddo.
Ti muovi, ti tormenti.
Hai paura di non bastarmi più.
"E tu perchè vuoi un figlio?"
Potrei dirti che mi serve un filo per rammendare i pensieri strampalati che faccio, per tenerli insieme.
Perchè perdo pezzi.
E vorrei un piccolo pezzo nuovo davanti a me.
Perchè sono un orfano, potrei dirti.
"Perchè voglio veder volare un aquilone" dico, e non so cosa ho detto.
Finalmente la tensione si allenta, è stato un gioco, uno scherzo.
Tua madre torna a guardarmi senza sospetto.
"Cretino" ride.
E butta giù un sorso di cocacola.
"Stiamo bene anche così, ti pare?"
Ma io sto pensando a un filo che vibra nel vento, a un piccolo polso che mi tenga attaccato alla terra.
Sono io, Elsa, quell'aquilone, sono io che volo.
Un trapezio di stoffa stracciata nel cielo e in basso la sua grande ombra che insegue il mio pulcino, il mio pezzo mancante.
Perchè non ti ho accompagnato a scuola in macchina?
Pioveva, ti accompagno spesso quando piove.
Avevo il primo intervento alle nove, ma potevo farcela, ti lasciavo un pò prima, saresti rimasta sotto i portici a parlare con i tuoi amici in attesa della campanella.
Ti piace arrivare a scuola in anticipo, e a me piace averti accanto in macchina mentre fuori piove.
Il vetro si appanna del nostro respiro, ti allunghi e ci passi la mano sopra.
Non sei mai insonnolita, sei sempre così vigile la mattina.
Controlli tutto quello che si muove intorno.
Parliamo poco, io guardo la punta della tue dita fuori dalle maniche troppo lunghe, che ti tiri giù di continuo.
Indossi queste magliette strane, corte in vita ma con maniche lunghissime.
Ma non hai freddo alla pancia, Angela?
No, hai freddo alle mani, non è trendy avere freddo alla pancia.
T'insacchi nel tuo giaccone, ma sotto sei davvero troppo svestita, estate e inverno per voi è la stessa cosa, non fate più il cambio di stagione, non si usa più.
"A scuola come va?"
"Bene"
Dici sempre che va bene.
Tua madre dice che non brilli, è lei che viene a parlare con i professori.
Studi con la radio accesa, anch'io studiavo con la radio accesa, non te l'ho mai detto.
Sei nella norma, è un problema di tutti i ragazzi di oggi, non sapete concentrarvi.
Ma tua madre dice che sono troppo indulgente con te.
E' vero, ho lasciato a lei il compito di educarti.
Ti fa tirare su il letto, ti fa riordinare il bagno dopo la doccia.
Io invece accarezzo il tuo disordine senza rimproverarti.
C'era un tuo assorbente abbandonato sulla lavatrice stamattina, l'ho buttato io.
"Ciao, papo."
Mi piace quando mi chiami così.
Sei buona, hai un afaccia buffa, piena di ironia.
Ti guardo mentre scendi dalla macchina, e corri sotto la pioggia.
Forse ti bocceranno, chi se ne frega.
Sei il mio artiglio nel mondo, Angelina, in questo mondo che avanza senza cambi di stagione.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 34

Post n°34 pubblicato il 29 Settembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Farfugliai una cifra.
Più tardi a casa, mentre pisciavo, mentre mi reggevo l'uccello, piangevo.
Avevo di colpo capito che ervamo diventati vecchi.
Invece adesso, stretto alla staccionata di quel giardino infernale, ridevo, ridevo solo come un folle.
In basso, nascosta dietro uno scoglio, la piccola Martine pascolava beata, ubriaca.
In mezzo alla notte sono sveglio, guardo nel vano spalancato della finestra, lì dove la palma fruscia le sue foglie scure.
Tua madre dorme, il suo vestito cremisi è sulla sedia.
Una morsa di tensione mi afferra il braccio, e penetra in basso nel cuore delle spalle.
Infilo un gomito sotto il cuscino per sollevarmi un pò, scalcio.
Lei si volta nel buio.
"Cos'hai?"
La sua voce è un fiato stanco, ma clemente.
Non mi sento più il braccio.
Ho paura che mi venga un infarto.
Le cerco una mano, la stringo.
Indossa la canottiera di seta dalle bratelle luccicanti come piccoli nastri.
E' di fianco a me, i seni addossati con morbidezza l'uno sull'altro, mi avvicino.
Mi seppellisco dentro il suo profumo.
Lentamente le allontano il lenzuolo dal corpo.
Una striscia di luce corre lungo le sue gambe.
"Non hai sonno?"
Non le rispondo, le mie labbra sono già sulle sue gambe.
Lei non dice più nulla, m'infila una mano nei capelli e mi carezza.
Ha capito, mi conosce, sa come faccio l'amore.
Non sa che lo faccio quando ho paura.
So di non poterla stupire, ma non mi sembra così terribile.
L'assenza di stupore ci rassicura, andiamo incontro a un benessere equamente distribuito.
E' un adagio il nostro, preciso come il ticchettio della sveglia sulla cassettiera.
I corpi sono caldi, i sessi pulsano miti, muscoli bene educati.
Ma in questa partitura, amore mio, c'è qualcosa di stecchito, lo penso mentre i tuoi capelli mi entrano in bocca, e ti stringo forte perchè stanotte ho paura.
Raggiungiamo il piacere a occhi serrati, raccolti dentro i nostri sessi come bambini in punizione.
Dopo, tua madre si alza perchè ha sete.
Attraversa il buio della stanza, sento che scende in cucina.
Penso al suo corpo nudo appena illuminato dalla lucetta del frigorifero, e mi chiedo se mi ama ancora.
Poi torna con una cocacola in mano.
"Ne vuoi un goccio?"
Si arrampica sul davanzale della finestra e va a bere lì mentre guarda fuori.
Ora c'è lei al di qua delle foglie scure della palma, lei con la schiena appoggiata al muro e le gambe leggermente piegate.
Il suo corpo nudo contro la notte, contro i miei fantasmi.
E' più in alto di me, è ferma e lucente come una statua di bronzo.
E quel pensiero mi raggiunge come l'unico che esista.
"Facciamo un figlio."
L'ho colta di sorpresa.
Sorride, sbuffa dal naso, alza le sopracciglia, si gratta una gamba, una sequenza di piccole manifestazioni di disagio.
"Fatti togliere la spirale."
"Stai scherzando?"
"No."
E sento che vorrebbe non aver capito.
Siamo marito e moglie da dodici anni, e non abbiamo mai sentito il bisogno di qualcosa che si aggiungesse a noi.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 33

Post n°33 pubblicato il 15 Settembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

La musica mi entrava dentro e ci rimaneva, cupa come il suono del mare dentro una di quelle conchiglie dall'esterno lucido come smalto.
Ne avevo vista una proprio così di recente.
Dove?
Ma si, era lì, accanto a un elefantino di giada, sul mobiletto dalla laccatura scrostata in casa di quella donna.
Me l'ero trovata più volte davanti, nel sudore degli occhi che solo a tratti aprivo, quella conchiglia pacchiana...il ricciolo dell'imboccatura, rosa e liscio come il sesso di una donna.
Ora oscillavo con più tenecia, mi piegavo in avanti, molto in avanti, poi tornavo su, buttavo la testa all'indietro.
In alto il cielo traboccava di stelle, un buio pieno di luce scordata come dopo uno spettacolo pirotecnico.
Il bicchiere mi era caduto di mano, sentivo il vetro sotto le scarpe.
Mi sbilanciai e quasi precipitai nelle braccia di Raffaella.
"Stai attento, Timo, che io ti dico di si!" e rise, fino alle orecchie, e risero anche Livia e Manlio, che ora mi zompettava alle spalle cercando la complicità di una bassetta con la faccia spiritata.
Cinsi la larga vita di Raffella e me la trasciani dietro in un duetto traballante.
Lei inciampava nel caffettano troppo lungo, il suo ventre grasso gorgogliava contro il mio mentre la catapultavo tra la folla.
Balliamo, Raffaella.
Balliamo.
Tra pochi anni il tuo ventre sarà sotto le mie mani, un pezzo di carne isolato tra i teli, e dal cuscino col marchio azzurro dell'unità sanitaria mi dirai: "Peccato, ero finalmente dimagrita..." e scoppierai a piangere.
Ma adesso ridi, e balla, e dacci dentro!
E ballo anch'io, Angela, nella samba dei ricordi.
Anch'io ignaro come tutti.
Come tua madre.
Si era tolta le scarpe, ballava tenendole in mano.
Le piante si inarcavano, le dita indemoniate acciaccavano l'impatto come mosto.
La musica era sotto i suoi piedi.
"Attenta, ho rotto un bicchiere."
E scivolai dalla pedana dei danzanti.
Il giardino, sospeso su un'ampia terrazza, era gremito di piante esotiche dall'aspetto temibile: alcune, altissime, presentavano nel gambo abnormi escrescenze, e un fogliame aguzzo e rigido, altre erano costellate di aghi culminanti in una infiorescenza polverosa.
La luna scolorava il loro anemico pigmento con un'ulteriore folata biancastra.
Attraversavo il giardino e mi sembrava di passeggiare dentro una colonia di fantasmi.
Mi affaccia alla staccionata.
L'acqua era calmissima, di un azzurro profondo.
Guardai oltre, in fondo all'orizzonte, lo sgomento del mare nel buio.
Mio padre era morto, portato via per sempre.
Era caduto per strada, un infarto.
E io non ero più un figlio.
Il completo di lino chiaro, la faccia nel buio.
Addesso anch'io ero un fantasma.
Tornai a voltarmi verso la festa.
Spiavo, oltre il sipario di quello spettrale giardino, i miei amici.
Ci conoscevamo dai tempi fragili degli ideali, delle barbette da stambecchi.
Che cosa era cambiato?
Lo spazio intorno a noi, quel vento che ci sbatteva ovunque, quando abitavamo zone aperte.
Un mattino avevamo chiuso le finestre, la primavera finiva, il corpo di una rondine galleggiava nella gronda.
Di botto ritirati in noi stessi.
La rasatura nello specchio e sotto la lama la faccia dei nostri padri, la faccia di chi avevamo deriso.
Eravamo cravatte nel mondo, onorari, commercialisti, e discorsi che virano.
Fino a quella sera, l'inverno passato, sul divano della nuova casa di Manlio, un bel divano lungo da design.
Avevo cominciato misurando quello, e avevo scoperto che la sua casa era il doppio della nostra, o era stata Elsa a farmelo notare?
Partecipavo alle conversazioni, buttavo giù un goccio, Martine mi passava gli stuzzichini, parlavo, e con la coda dell'occhio includevo Elsa.
Seduta sul bracciolo, le gambe accavallate, mia moglie guardava fuori.
Non il cielo, no.
Misurava i metri quadrati del terrazzo affacciato sul fiume.
Senza accorgermene avevo lazato troppo il tono della voce, ero diventato aggressivo.
Manlio mi guardavo stupito, la cravatta rossa di cachemire gli pencolava nel bicchiere di cristallo.
Di ritorno, in macchina, tua madre, con gli occhi sulle strade dove aveva appena piovuto, diceva: "Scusa, quanto può guadagnare uno come Manlio?"

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 32

Post n°32 pubblicato il 15 Settembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Manlio parlava con Elsa, e solo ogni tanto lanciava un breve sguardo alla moglie svizzera.
Martine muoveva a scatti, seguendo il moto degli occhi troppo sporgenti e troppo sgranati.
Minuscola, magra, rugosa: una tartaruga con un collier di brillanti.
Beveva.
Non adesso, perchè Manlio era lì a sorvegliarla.
Bevava sola, mentre lui operava.
Parti, raschiamenti, impianto ed espianto di ovuli, prolassi uterini, preferibilmente in cliniche private.
Manlio le era affezionato, se la portava appresso da vent'anni come un pupazzetto a molla.
Sembrava proprio che l'avesse comprata in un negozio di giocattoli.
Il coro degli amici diceva: "Che ci troverà?"
Io non trovavo niente di speciale in lui.
Martine era un'ottima padrona di casa, cucinava indifferentemente gigot d'agneau o amatriciana, e non aveva opinioni.
Ti abbuffavi e ti scordavi di ringraziarla, non si ringrazia un pupazzo a molla.
Naturalmente Manlio la tradiva; "naturalmente" diceva Elsa, "un uomo così brillante, sanguigno, con quell'anoressica alcolista".
Li guardavo, facendomi largo tra le figure che avevo davanti, e ora pensavo che l'avrebbe tradita volentieri con mia moglie.
Naturalmente.
Elsa era così desiderabile, piena di capelli, di carne turgida, con quel sorriso leggermente impreciso, quei capezzoli appesi addosso come un invito.
Era troppo spiritosa con Manlio, stasera.
Era il suo ginecologo, le faceva il Pap-test, le aveva messo la spirale.
Se l'era scordato?
Lui senz'altro non l'aveva scordato.
Il sigaro infilato tra i denti, gli occhi infiammati come tizzoni.
E il pupazzetto lì in mezzo che tirava su il fumo dalla sigaretta al mentolo.
Andai a prendermi un altro bicchiere di vino, sfiorai il raso rosso di Elsa.
Manlio sollevò il suo bicchiere in aria, con un gesto che voleva essere d'intesa.
Vai dove devi andare, Manlio.
Dritto nel magnanimo culo degli insulti.
Hai le camicie di sartoria, con le cifre stampate sul taschino, ma hai la pancia, dai tempi dell'università hai messo su una bella riserva.
E che vuoi?
Vuoi scoparti mia moglie, panzone?
Manlio era il mio migliore amico.
Lo era stato e lo sarebbe rimasto, lo sai.
Un vitalizio affettivo che il cuore mi ha imposto senza nessuna ragione precisa.
Raffaella si era scatenata, muoveva le grosse anche nel caffettano turchese colmo di ricami, accanto a Lodolo, il padrone di casa: sguardo spinellato, camicia stropicciata, come un ospite povero.
Livia, completamente andata, i capelli buttati sul viso, le bracci ain alto, shakerava i suoi monili etnici, tutta protesa verso Adele, stretto in un tubino aragosta, che si dimenava colo con le spalle e la testa come una liceale al primo ballo.
I mariti le ignoravano, leggermente discosti, affossati dentro una delle loro formidabili discussioni politiche.
Giuliano, quello lungo e precocemente incanutito di Livia, era incurvato su Rodolfo, quello di Adele, il brillante civilista che nei tempi morti recitava in una compagnia amatoriale e che in un'altra estate ancora a venire avrebbe divorziato dalla povera Adele, chiudendole con accanimento forense i rubinetti dei privilegi da un giorno all'altro, senza pietà e senza vergogna.
Ma la vita è soffice perchè si dipana nel tempo, e ci lasciail tempo per tutto.
Adele quella sera, lontana dal suo futuro, scuoteva la testa e mostrava, ora l'uno, ora l'altro, gli orecchini a cuspide che le guarnivano i lobi.
"Vieni, chirurgo!" mi gridò.
Scavalcai con lo sgurado il muro di teste che avevo davanti e incontrai per un attimo gli occhi di tua madre.
Anche lei doveva essere almeno un bicchiere oltre la soglia, gli occhi le luccicavano miopi.
In ritardo si portò una mano sulla bocca per catturare un piccolo sbadiglio.
Difficilmente ballo, quasi semrpe mi tengo ben discosto dall'aggressione della musica a tutto volume.
Ma se proprio capita, mi piazzo nel mio metro quadrato e non mi sposto di lì.
Chiusi gli occhi e cominciai a oscillare, le braccia inanimate lungo i fianchi.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 31

Post n°31 pubblicato il 15 Settembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Le carezzavo le gambe e non la sentivo fremere.
Non mi restava che la scia dolciastra del suo doposole.
La amavo, ma non ero più in grado di attirare la sua attenzione.
La amavo, e deviavo quella periferia, dentro le ossa di quell'altra donna.
Lei non mi deludeva, non aveva ricordi posati sulla carne.
Scopavo con nessuno.
In quelle soste euforiche e patetiche, diventavo il ragazzo temerario che avrei voluto essere e che non ero stato.
Scendevo a giocare in cortile a dispetto di mia madre, delle sue pallide mani ferme sul pianoforte.
Squarciavo le rane.
Sputavo nel piatto.
Dopo ero solo, esattamente come prima.
Però il profumo del crimine rimaneva, risaliva dal buio e mi faceva compagnia adesso, mentre un ciuffo di canne a lato del giardino si muovevano assecondando il verso leggero del vento.
"Ti ricordi quell'uomo al funerale di mio padre?"
Elsa era appoggiata sui gomiti, inclinò leggermente la testa verso di me.
"Quale?"
"Quello che lesse."
"Si, vagamente..."
"Ti sembrava sincero?"
"C'è gente che s'infila nei funerali degli altri, poveracci che non hanno di meglio da fare."
"Non credo che fosse uno così, conosceva il soprannome di papà, e poi piangeva."
"Tutti hanno molte ragioni per piangere, i funerali sono solo una buona occasione."
"Tu per cosa piangevi?"
"Per tuo padre."
"Lo conoscevi appena."
"Piangevo per te."
"Ma io non ero triste."
"Appunto."
Mi sfilò le gambe da sotto le mani e scelse di ridere.
"Vado a farmi la doccia, che è tardi."
Ma si, fatti la doccia!
io resto ancora un pò.
Mi guardo il sole che cala nel mare dalle frange porpora di questo cielo così bello che ti fa credere in Dio, in un mondo dove i tuoi morti ti aspettano per dirti che nulla andrà perduto.
Mi brucia la punta dell'uccello, intanto che penso a mio padre.
Ci penso da solo come è giusto che sia, sotto questo cielo cardinalizio.
E forse mi prendo una birra dal frigo, oppure m'incazzo se sono rimaste sotto il tavolo.
C'era una foresta di gente a casa di Gabry e Lodolo, dentro un accerchiamento di torce che si allungavano nel vento
Facce abbronzate mi venivano incontro, denti bianchi nel buio.
Indossavo il mio completo di lino chiaro, senza cravatta, i capelli ancora umidi sulla nuca mi regalavano un brivido di frescura che s'infilava sotto la camicia.
La barba lasciata libera di crescere come ogni fine settimana.
Con un calice in mano, salutavo quello e quell'altro.
Docile come un apostolo.
Accanto al tavolo degli aperitivi, Elsa parlava con Manlio e sua moglie, muoveva le mani e i capelli, sorrideva.
Le labbra sontuose si schiudevano a ripetizione sull'anello della dentatura superiore, leggermente prominente, consapevoli del potere racchiuso in quel piccolo difetto.
L'abito di raso, cremisi come il rossetto, carezzava i sussulti del suo seno solido, mentre rideva.
Alle feste ci separavamo sempre, ci piaceva farlo.
Ogni tanto ci sfioravamo per qualche commento sussurrato, ma quasi semrpe rimandavamo a dopo, a casa, quando lei scendeva dai tacchi e ritrovava le sue espadrillas.
I nostri amici ci facevano ridere, più erano tragici più ci facevano ridere.
Ne parlavamo malissimo, ma con molto affetto, e questo bastava ad assolverci.
Elsa catturava con disinvoltura il gheriglio di ogni legame, scansava la buccia e affondava nella fragilità della polpa.
Aveva fatto l'autopsia a tutti i matrimoni che ci circondavano.
Grazie a lei, sapevo che tutti i nostri amici erano infelici.
Ora sembravano molto contenti.
Mangiavano, bevevano, guardavano le donne degli altri.
Evidentemente la loro infelicità era sufficientemente agile da svaporare nei bicchieri di prosecco e scivolare lontano, oltre il giardino pensile, sul mare in basso, oltre il motoscafo di Lodolo con i parabordi candidi nell'acqua notturna.
No, non mi sentivo attorniato da anime in pena.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 30

Post n°30 pubblicato il 30 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Nei suoi occhi non c'era più nulla.
C'era quell'assenza che avevo già visto, come se si stesse svuotando di ogni volontà.
Nel palmo delle mani sentii il sudore dei palmi di lei rimasto sui manici delle borse.
Scendemmo per le scale di ruggine, approdammo sul terrapieno.
Lei aprì la porta, e io la richiuse alle nostre spalle.
Tutto era avvolto dalla stessa immutata desolazione, il telo fiorato sul divanetto, il poster della scimmia con il biberon tra le zampe, lo stesso odore di varichina e di veleno.
Sentii uno smottamento, una pasta morbida e calda che s'insinuava sotto la mia crosta lentamente.
L'impulso sessuale non aveva fretta, ero molle, balordo.
Posai le borse per terra.
Una lattina di birra rotolò sotto il tavolo.
Lei non si chinò a raccoglierla.
Era appoggiata al muro, guardava verso la finestra, tra le lame delle persiane accostate.
Mi allentai il nodo della cravatta mentre mi avvicinavo.
I testicoli mi pesavano tra le gambe, mi facevano male.
M'impensierivano i suoi occhi, in fin dei conti era una faccenda mia.
Volevo godermi quella sfilza di costole, quella nuca.
Forse le graffiai la schiena, ma non riuscii a evitarlo.
Dopo, cercai nella tasca dei pantaloni il portafoglio.
Le lasciai il denaro sopra il tavolo.
"Per i surgelati..."
Non rispose, Angela.
Forse ero riuscito a offenderla.
Tua madre era in giardino con Raffella, che d'estate prendeva in affitto un cottage sulla spiaggia non lontano da noi.
Ridevano.
Mi abbassai e sfiorai la guancia di Elsa con un bacio.
Era stesa su una sedia a sdraio, mi passò una fiacca mano in mezzo ai capelli.
Mi ritrassi subito.
Temevo che si accorgesse di un altro odore.
Raffaella si alzò.
"Vado, ho promesso a Gabry che le avrei portato la mia mousse."
Passava buona parte della giornata in acqua, con un cappello di spugna in testa.
Galleggiava a pochi metri dalla riva in attesa che qualcuno sulla spiaggia si decidesse a farsi un bagno.
Poche bracciate, e te la ritrovavi davanti come una boa.
Adorava chiacchierare a mollo e aveva molte storie da raccontare perchè viaggiava di continuo.
Elsa si faceva viola al suo fianco.
Raffaella invece non pativa il freddo, il suo costume era perennemente bagnato anche dopo il tramonto.
Fissai gli occhi sulle cosce robuste, senza motivo.
Sconfisse il mio sguardo con la solita ironia.
Rise.
"Cosa vuoi" disse, indicando Elsa, "le magre hanno sempre un'amica del cuore grassa."
Raccolse il suo pareo.
"Sei pallido, Timo, perchè non prendi un pò di sole?"
E' morta tre anni fà, lo sai.
L'ho operata due volte.
La prima al seno, la seconda ho inciso e richiuso l'addome nel giro di mezz'ora.
L'ho fatto perchè si trattava di un'amica, ma sapevo che non c'era speranza.
Dopo la prima operazione non era mai tornata per un controllo, era andata in Uzbekistan.
Aveva lasciato al sarcoma la possibilità di metastatizzare indisturbato.
Era una donna tollerante, Raffaella, lasciava vivere chiunque.
A quell'epoca naturalmente non aveva il cancro.
Aveva un paio di zoccoli che a contatto con il mattonato producevano un rumore insopportabile.
Rimasi in attesa finchè quel fastidioso scalpiccio non sprofondò nel silenzio della sabbia.
Le caviglie di Elsa e i suoi piedi sporgevano oltre la sdraio.
Mi sedetti lì in basso e cominciai a carezzarla.
Le mie mani correvano fino ai suoi ginocchi, la sua pelle era liscia, profumata di doposole.
Ogni volta che arrivavo da lei al mare, ogni volta che pensavo a quell'arrivo, ero contento.
Adesso ero lì, accucciato in fondo alla sua sdraio, senza allegria.
Mi ero accorto di uno scompenso.
Quello che avevo aspettato non c'era.
Trascurabili disattenzioni: niente di fresco in frigorifero, il mio costume rimasto a scolorire in un angolo assolato dall'ultimo bagno, la mia camicia preferita ancora da stirare.
E sopratutto Elsa, la sua faccia senza stupore.
Non mi sentivo atteso, non mi sentivo amato.
Ingiustamente.
Elsa mi amava, con la ragionevolezza a cui io per prima l'avevo piegata, perchè lei senza dubbio era stata più appassionata di me.
Per amore si era adattata ai miei cingoli frenati.
Mentre io, morto mio padre, regredivo.
Sentivo incertezze, sommosse interiori schivate durante l'adolescenza affiorare intatte.
E mi aspettavo che lei, che era tutta la mia famiglia, si accorgesse di me.
Ma tua madre, Angela, non ha mai amato le persone deboli, e io purtroppo lo sapevo, l'avevo scelta per questo.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 29

Post n°29 pubblicato il 29 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Era magra magra, in controluce.
Sembrava uno di quei piccoli invertebrati dall'esoscheletro anemico che emergono dalla terra in primavera.
Così lei sembrava affiorare da una fatica.
Andava verso la sua casa in un giorno qualunque della sua misera vita, senza stupore.
Che carattere aveva?
Perchè si truccava così tanto?
La borsa di patchwork a tracolla le sbatteva tra le gambe.
Dovevo andarmene.
Si era fermata dentro un cono d'ombra.
Posò una borsa per terra e si toccò la nuca accaldata, si sansò i capelli albini.
Rimasi per catturare quel gesto, l'alito di quella nuca appiccicata.
Non avevo bevuto, lo stomaco era in ordine, la testa lucida...e proprio in quella lucidità, in quello stomaco digiuno, io la desideravo.
Non mi fidavo più di me stesso, perchè mentre la guardavo già le stavo mancando di rispetto.
Non era vero niente, non l'avevo attesa per scusarmi, mi ero appostato come un falco per atterrarle addosso, per farle di nuovo la festa.
Mi aveva quasi raggiunto.
Sarebbe passata senza notarmi.
L'avrei lasciata sparire nello specchietto e sarei andato via.
Senza tornare mai più.
Abbassai la testa, e mi guardai le mani ferme sulle gambe per ricordare a me stesso che ero un uomo per bene.
La sua pancia si fermò davanti alla portiera.
Si chinò per guardare dentro.
Alzai gli occhi, e dove credevo di trovare due fori di spavento trovai uno sguardo appena un pò spaesato.
Uscii fuori dalla mia tana solo in parte, rimasi appoggiato allo sportello con un piede ancora dentro.
"Come va?"
"Bene, e lei?"
"Dammi del tu."
"Come mai da queste parti?"
"Ho dimenticato di pagare il meccanico."
"Me l'aveva detto, mi aveva anche detto se la conoscevo..."
"Dammi del tu."
"Si."
"Cosa gli hai detto?"
"Che non ti conoscevo."
Non sembrava arrabbiata, non sembrava niente.
Forse è abituata, pensai, è una che va con chi le capita.
E ora la guardavo senza temere più nulla.
Un'ombratura scura circondava gli occhi, affondandoli ancora di più nel cranio magro.
Vene bluaste attraversavano il collo, morivano nella camicia gialla e nera a schacchi, di un tessuto elastico hce brillava sotto al sole, roba da due lire, cucita a macchina da qualche minorenne asiatico.
Non mi guardava più.
Si portò una mano sulla frangia e cominciò a tirarsela, a stenderla in piccole ciocche per camuffare quella fronte troppo grande dove ora si era posato il mio sguardo.
La luce spalancata lambiva le imperfezioni del suo volto, e lei lo sentiva.
Doveva essere ben oltre i trent'anni, ai bordi esterni degli occhi aveva già una ragnatela esile di rughe.
Era un volto patito in ogni scaglia di pelle.
Ma negli spiragli, negli occhi, nelle narici, nel filo tra labbro e labbro, ovunque affiorasse il respiro interno di lei, frusciava un richiamo sommesso, indefinibile, come un vento carico incuneato nel folto di un bosco.
"Come ti chiami?"
"Italia."
Accettai quel nome improbabile con un sorriso.
"Senti Italia" dissi, "mi dispiace per..." spinsi la mano nella stoffa interna della tasca.
"Volevo chiederti scusa, ero ubriaco."
"Vado, sennò i surgelati si squagliano."
E reclinò lo sguardo dentro una delle due borse che non aveva mai posato.
"Ti aiuto."
E già mi ero chinato a toglierle le borse dalle mani.
Ma lei trattenne con decisione.
"No, non pesano..."
"Per favore" sussurrai, "per favore."

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 20 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

La donna davanti a me rallentava, e rallentavo anch'io.
Mi lasciavo portare, mansueto come un neonato dentro una carrozzina.
Il prato a lato della strada era sporco.
Più o meno da quelle parti la mia macchina si era fermata poche settimane indietro.
L'uscio verde era sbarrato.
Bussai più d'una volta, senza risposta.
Sul cavalcavia le macchine sfrecciavano, chissà quante colte ero pasato lì sopra per andare al mare, ignaro di questa vita sottostante.
Altre abitazioni sorgevano oltre i pilastri, baracche di ruggine, roulotte.
La carcassa di un'auto bruciata spuntava ferale dall'erba, forse era caduta dal viadotto e nessuno si era mai preoccupato di rimuoverla.
Accanto, in mezzo a un letto di argilla spaccata dal sole, stava passando un serpente.
La sua scorza nera luccicava mentre di nuovo scompariva nell'erba.
Lei non c'era.
Mentre mi allontanavo, l'ombra della sua casa si allungava su quel paesaggio sconfortato, e mi seppelliva.
Salii in macchina, infilai la chiave d'accensione, ma non la girai.
Mossi la manopola della radio per cercare una frequenza musicale.
Appoggiai la testa sul sedile.
Ero nell'ombra, fuori c'era quella gran calura che non smetteva di ronzare, e il solito deserto.
Ogni tanto un grido isolato rotolava in basso da chissà quale buco.
Spensi la radio.
Allungai le gambe oltre i pedali, socchiusi gli occhi, e la vidi.
Tra le palpebre, in quela fessura da cinemascope.
Attraversava il basamento sorretto da colonne di cemento del grande condominio incompiuto.
Non mi ero sbagliato ad aspettarla lì.
Di nuovo aveva scelto quella strada per ripararsi dal sole.
Nelle zone di luce pareva affrettarsi, per poi rallentare quando entrava nelle lunghe ombre delle colonne dove diventava quasi nera.
Aveva temuto di non riconoscerla, invece la riconobbi subito, appena la vidi.
Lontana, minuscola, rabbuiata dall'ombra.
La sua testa di spaventapasseri, le sue gambe sottili, storte.
Ritrovavo quel passo disorientato, forse da un vizio alle anche.
Camminava senza saperlo verso di me, come uno di quei randagi sfiduciati che filano via di traverso.
Due grosse borse della spesa che affaticavano le braccia tese.
Pesi che non davano stabilità al suo procedere, anzi la sbilanciavano.
Ora casca, pensai, ora casca.
E avevo agguantato la maniglia per uscire, per andarle incontro.
Ma non cadde, si oscurò in un'altra ombra.
Lascia la maniglia e rimasi dov'ero.
La sua fronte ampia riaffiorò alla luce e con essa la sensazione che non era lei che io stavo spiando, ma me stesso.
Mentre avanzava, in quella griglia di luci e ombre, tornavo a impossessarmi fotogramma dopo fotogramma del tempo osceno che avevo trascorso con lei.
Ero scivolato in basso nel sedile, sudavo immobile in un'apmìnea sessuale.
Perchè di colpo ricordavo...il suo corpo spento come quel caminetto senza fuoco, il collo bianco, reclinato, quello sguardo triste, enigmatico.
No, non avevo fatto tutto da solo.
Lei aveva voluto, quanto me.
Più di me.
E il muro, e la sedia che cadeva alle nostre spalle, e i polsi imprigionati in alto contro la carta lucida di quel poster, mi rinvenivano negli occhi.
Il ricordo era nel buio del mio stomaco.
Dove persino l'odore di noi due insieme tornava vivo.
L'odore del delirio che cancella l'odore della cenere.
Era stato un amplesso disperato.
E la disperazione era tutta sua, incollata a quelle gambe scheletriche che ora camminavano verso di me.
Lei faceva l'amore così, non io.
Mi aveva tirato dalla sua parte.
Camminava con le sue borse della spesa.
E cosa aveva lì dentro?
Cos'hai comprato?
Cos'è che mangi?
Butta quelle borse in terra, lasciale alla polvere e vieni da me, cane.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 27

Post n°27 pubblicato il 20 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

C'era stato un'imprevisto quell'anno, Angela, la notte di Pasqua avevo perso mio padre.
Senza dolore, non lo vedevo quasi mai.
Dopo la morte di mia madre i nostri incontri si erano molto diradati.
Sapevo che viveva in un residence, ma non conoscevo nemmeno il suo indirizzo.
Mi dava appuntamento in un bar di legno galleggiante sul fiume, accanto a un campo da tennis.
Sempre al tramonto, nell'ora più morbida.
A lui piacevano gli aperitivi, lo zucchero intorno al bicchiere, il piattino con le olive.
Teneva in dentro la pancia, si sedeva dalla parte del suo profilo migliore.
Gli piaceva sentirsi ragazzo.
Di quei rari incontri ricordo solo il rumore della palla da tennis che rimbalzava schiacciata dalle racchette nel campo di polvere rossa.
Il giorno del funerale avevo assistito all'omelia del prete in piedi.
Elsa era accanto a me, un velo nero, ricamato, le spioveva sulla fronte, piangeva.
Non so bene per cosa.
Soltanto perchè le sembrava giusto farlo.
un uomo atticciato con i capelli bianchi sbucò da una colonna e mi passò accanto.
La cravatta di rasone nero scucita, con l'etichetta interna che fuoriusciva sulla camicia.
S'accostò al microfono e lesse una paginetta scritta di suo pugno.
Parole retoriche, inutili, che sarebbero piaciute a mio padre.
Doveva essere un suo grande amico, leggeva con una voce zuppa di dolore autentico, un fazzoletto lercio di muco stretto in una mano.
Aveva un'aria stravagante, bonaria e laida insieme, tutta la sua figura, dai capelli agli abiti, era ingiallita dalla nicotina.
Sul sagrato fumava.
Mi strinse la mano, cercando un abbraccio al quale mi sottrassi.
Nessuno di famiglia sembrava conoscerlo.
Si allontanò, saltellando con il suo corpiciattolo strizzato nella giacca cangiante lungo la scalinata.
In quell'uomo sconosciuto, dall'impronta promiscua, mi parve di riconoscere l'unica eredità di mio padre.
E a lui pensavo, guidando verso il mare, verso tua madre.
Questa morte senza dolore, a sorpresa, nei mesi successivi mi aveva tormentato più del previsto.
Di notte mi ero svegliato, scoprendomi orfano in cucina, tra il frigorifero e il tavolo, non di lui, ma del desiderio di un padre, di una remota possibilità che forse lui conservava e che io per orgoglio avevo sempre ignorato.
Il rimpianto si era cristallizzato dentro di me, cupo e silenzioso.
Era estate e ancora vegliavo in quello strano sconforto.
Forse il freddo mi avrebbe rimesso in moto.
Guidavo verso il mare e adesso pensavo di andarmene in Norvegia con Elsa per le vacanze di ferragosto.
Avevo voglia di camminare sul ciglio di immense fosse tettoniche, di risalire i fiordi, attraversare il Vestfjord e raggiungere le isole Lofoten.
E poi star lì con la pelle arrossata dal vento a pescare merluzzi più grandi di me nel mare cobalto.
Una donna di mezza età guidava l'auto davanti alla mia, già da un pezzo le ero dietro.
Potevo mettere la freccia, dare un colpo di clacson, e svincolare via sulla sinistra accelerando.
Invece, appeso al volante, temporeggiavo.
I capelli corti lasciavano scoperta la nuca pensierosa di una donna ferma su un crinale.
Una donna che resiste con la sua schiena da ragazza, però ha perso il senso dell'orientamento.
Basta, ora spingo il clacson, lo faccio stridere dentro le ossa della sua schiena.
Ma già penso a mia madre.
Aveva preso la patente tardi lei, si era fatta quel regalo.
Saliva sulla sua piccola utilitaira che odorava di cera da mobili e andava, chissà dove.
Il cappotto a spina di pesce piegato bene sul sedile accanto.
Giudava proprio così, come questa donna che sta davanti, troppo attaccata al volante, con il timore che qualcuno le pugnalasse la schiena con un colpo di clacson.
Angela, perchè la vita si riduce a così poco?
E dov'è la clemenza?
Dov'è il rumore del cuore di mia madre?
Dov'è il rumore di tutti i cuori che ho amato?
Dammi un cesto, figlia mia, il cestino con cui andavi all'asilo.
Voglio metterci dentro, come lucciole nel buio, i bagliori che hanno attraversato la mia vita.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 26

Post n°26 pubblicato il 20 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Aveva modi indecenti, dirò, mi ha tratto in inganno, mi ha drogato con un caffè...
Si, forse in quel caffè c'era qualcosa di strano.
C'è puzza di veleno in quella stamberga, commissario, fate un sopralluogo.
Cistico.
Filo.
Forse ci sono dei corpi sotterrati in quel giadino di polvere.
Le auto passano sul viadotto, auto che fanno tremare i vetri, il loro rumore cancella le grida delle povere vittime.
Sono vivo per miracolo!
Arrestate quella strega.
Tubo di drenaggio.
Disgraziata, come ti sei permessa?
Come hai creduto di potermi rovinare?
Come hai sperato che qualcuno ti credesse?
E adesso le davo uno schiaffo in pieno viso, la sua testa di rafia ondeggiava.
Crederanno a me, certo.
I poliziotti mi chiederanno scusa, lascerò loro un biglietto da visita.
Un chirurgo fa sempre comodo.
Tamponi.
L'uomo dalle labbra scure ha la faccia di uno che soffre di fegato.
Sarò magnanimo.
Alzerò la cornetta, digiterò l'interno di un paio di colleghi per un check-up completo, saltando la trafila delle liste d'attesa, come faccio solo con gli amici più stretti.
Mi ringrazierà, si inchinerà per ringraziarmi.
Mi manderà una bottiglia di liquore, e un calendario dell'Arma che regalerò a un'infermiera.
Ricontrollare l'emostasi.
Tu invece uscirai in manette, spintonata.
Troia, abusiva, come il quartiere dove vivi.
Manderò una ruspa a cancellare la tua casa.
Contare le pezze laparotomiche.
La mia parola contro la tua.
Portaghi.
E vedremo chi avrà la meglio!
Nylon per la cute.
L'intervento era finito.
Ed ero tornato a sollevare lo sguardo: dentro c'era il colore della sfida, del disprezzo.
Accanto al mio secondo assistente, un giovane praticante in un camice troppo grande mi guardava imbambolato.
Non mi ero accorto che ci fosse, si era avvicinato solo adesso.
Aveva gli occhi di chi ha esercitato una volontà troppo dura su se stesso.
Forse aveva soltanto cercato di rimanere in piedi.
Forse aveva paura del sangue.
Idiota.
Ho buttato i guanti, sono uscito dalla sala operatoria, e sono entrato nello spogliatoio.
Mi sono seduto sulla panca.
Dalla finestra si affacciava la solita veduta del padiglione accanto, i vetri bassi sulle scale interne, dove passano i piedi di chi sale, di chi scende.
Si vedono solo i gradini, solo le gambe, le facce sono coperte dal muro.
Sono passati prima un paio di pantaloni da uomo, e poi le gambe bianche di un'infermiera.
Ricordo d'aver pensato che niente può salvarci da noi stessi, e che l'indulgenza è un frutto che cade a terra già cariato.
Avevo tolto la briglia a tutti quei pensieri indecenti, e adesso ero inutile come un cecchino morto.
La camera operatoria era spalancata e in disordine, nel corridoio un uomo in vestaglia camminava verso i bagni con un rotolo di carta igienica in mano.
Mi sono abbassato appena nella finestra a ghigliottina per salutare le infermiere, gli assistenti.
Scendevo in ascensore e in me c'era solo uello contro cui avevo lottato.
A piano terra, accanto a quella stanza non c'era più nessuno, e dentro c'era una stanza come tutte le altre, una sala d'attesa per pazienti in dialisi.
Due donne con la faccia gialla aspettavano sedute il loro turno.
No, Angela, lei non era mai entrata in quella stanza, nè in nessun'altra.
Era rimasta contro il muro sotto il poster della scimmia.
Non aveva mai alzato il viso.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 25

Post n°25 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Sfuggii chiunque con gli occhi mentre facevo il consueto giro tra i letti di chi avevo operato nei giorni precedenti.
Occhi professionali dietro lenti bifocali, bassi sulle cartelle cliniche, bassi sul pennino d'oro montblanc con cui aggiusto le dose dei sedativi.
Poi la sala operatoria, e nel tragitto le spalle tremano come ali.
Entro con il solito calcio ai battenti, a mani sterili, in alto verso la ferrista che m'infila i guanti.
Mani in alto come un criminale, penso, e troverei ancora la forza di sorridere.
Poi la pace, la mia pace lavorativa.
Soluzione iodata, bisturi freddo, sangue.
Ho le mani calme, precise come sempre, più di sempre.
Solo che non sono le mie mani, sono quelle di un uomo che sto guardando, un professionista ineccepibile, che non ammiro più.
Mi guardo come un entomologo guarda un insetto.
Si, adesso sono io l'insetto e non lei, lei è solo una povera donna trascinata dal caso, che ho violato, ho succhiato, ho appinzato.
Le mani di gomma lì in basso, non mie, eppure così mie, uncini candidi nel mondo dove mi destreggio da benefattore.
Bisturi elettrico.
Cauterizzare i vasi.
Sono ancora lì fuori, mi stanno aspettando.
Mi fermeranno vestito da chirurgo, ridicolo modo di farsi arrestare.
Pinza di Kocher.
Tamponi.
Mi lasciano il tempo del rimorso, ecco perchè non mi hanno preso prima, per lasciarmi questo tempo nero.
Per crudeltà.
Si, era lì in quella stanza, mi ha visto passare e ha fatto un cenno d'assenso.
Poi si è chinata su una sedia, come una canna rotta, le hanno portato un bicchiere d'acqua: non ti preoccupare, quel figlio di puttana non ci scapperà, lui e il suo lurido uccello.
Non ho guardato oltre la porta passando.
Non ne ho avuto il coraggio, peccato.
Mi sforzavo ma non riuscivo a ricordare la destinazione di quella stanza.
La porta prima è quella dalla quale si accede alla sale dei prelievi, ma quelle due ante aperte accanto al dorso grigio dei poliziotti...
Precipitavo col pensiero in quello spazio vuoto, ignoto, dove forse si celava quella donna che non ricordavo più.
E mi sembrava, Angela, che quell'amnesia bastasse a cancellare la mia azione.
Perchè non sono tornato indietro a farle una carezza, a convincerla che non era successo nulla?
Quando voglio so come piegare un animo fragile.
potevo chiederle scusa, offrirle del denaro.
Potevo ucciderla.
Perchè non l'avevo uccisa?
Perchè non sono un assassino.
Gli assassini uccidono.
I chirurghi stuprano.
Pinze vascolari.
Aspiratore.
Mi ha denunciato, ha raccolto la sua borsa patchwork ed è andata al commissariato di zona.
Mi sembrava di vederla, mentre per farsi coraggio si tormentava le unghie, in una di quelle stanze che odorano di timbri.
Le gambe pallide strette sulla sedia, descriveva l'uomo dall'aspetto distinto che aveva abusato di lei, mentre qualcuno alle sue spalle batteva a macchina.
Chissà cosa aveva raccontato...
Cosa le sarà rimasto di me, mi piacerebbe sapere che traccia ho lasciato nel suo corpo poco allettante.
Ero cieco di alcol, di caldo, di una foia snaturante.
Lei invece era sobria, mi ha guardato, mi ha subito.
Chi subisce ricorda.
Divaricatore autostatico.
Forse l'hanno sottoposta ad un controllo ginecologico, ha girato il viso da una parte sul lettino bianco e si è sottomessa a quella umiliazione.
E lì, gambe divaricate, guardando il vuoto, ha deciso di rovinarmi per sempre.
Kelly.
Forse hanno prelevo i resti del mio liquido seminale.
Ancora Kelly.
No, non è possibile che mi abbia raggiunto, non sa nulla di me, non conosce il mio indirizzo, il mio mestiere.
Ma forse si.
Quando sono andato nella stanza a telefonare, ha frugato nella mia borsa rimasta sul divano.
Stracciona, maledetta stracciona.
Non ti crederanno.
Tamponi.
Mi difenderò.
Dirò che è stata lei, a trascinarmi con una scusa a casa sua, per derurbarmi, per uccidermi magari.
Non ho forse avuto paura mentre la seguivo dentro le mura buie e fetide di quel palazzo occupato?
E' stata la paura ad alterarmi così, per difendermi da quella paura l'ho aggredita.
Isolare il coledoco.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Post N° 24

Post n°24 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Sai, tesoro, non entro per pudore.
Perchè se te ne andrai non voglio aver sorvegliato gli ultimi colpi della tua vita in circostanze indecenti.
Voglio ricordarti come un padre, voglio non aver veduto il tuo cervello pulsante nudo, voglio ricordare i tuoi capelli.
Quei capelli che ho carezzato di notte chinato sul tuo piccolo viso stretto nel broncio del sonno, mentre nascevano tanti pensieri per te.
Uno era il giorno del tuo matrimonio, ho immaginato il tuo braccio chiaro sulla mia manica scura, quella passeggiata in fondo alla quale ti avrei consegnato a un altro.
Sono ridicolo, lo so.
Ma la verità degli uomini è spesso ridicola.
Qui fuori c'è silenzio, c'è silenzio su queste sedie vuote davanti a me, c'è silenzio sul pavimento.
Qui fuori potrei pregare, potrei chiedere a Dio di entrare nelle mani di Alfredo e di salvarti.
Solo una volta l'ho pregato, molto tempo fa, quando ho capito che non ce l'avrei fatta e non potevo arrendermi.
Ho alzato le mani imbrattate verso il cielo, e ho intimato a Dio di aiutarmi perchè se la creatura che avevo sotto i ferri moriva, con lei sarebbero morti gli alberi, i cani, i fiumi, e persino gli angeli.
E tutto quello che di creato c'è.
Li ho visti in ritardo, quando già non potevo sottrarmi.
Li ho visti quando ho avuto paura.
A metà del corridoio, poco prima della radiologia.
Due poliziotti accanto a una porta, braccia grigie sulla divisa, pistole nel cuoio.
Ascoltano un terzo, vestito in borghese, che parla a bassa voce, muovendo appena le labbra, scure come se avesse succhiato liquirizia.
Sposta le pupille verso di me, quasi prendendo la mira, due sfere di materia vitrea che mi saltano addosso nel vuoto estivo dell'ospedale.
L'uomo mi guarda, e anche uno dei poloziotti adesso si volta verso di me.
L'ascensore è oltre le loro spalle, un pò più giù, sull'altro lato.
I miei passi continuano, svuotati come quelli di una marionetta.
E' passata una settimana dalla nefandezza di quel pomeriggio, da quell'alcol bevuto digiuno.
Non conservo memoria certa dei fatti, tutto si era svolto attraverso una parete di colla.
Ma lei no, lei non doveva aver dimenticato.
L'avevo lasciata contro quel muro, un nodo di membra sconfitte nell'ombra.
Usata e lasciata come un preservativo.
Forse era al di là di quella porta celata dal dorso dei poloziotti.
Se l'erano portata dietro per il riconoscimento.
Adesso, che ero quasi accanto a quel disgustoso individuo olivastro, lei sarebbe uscita allo scoperto.
Senza viso, bassa, con la sua cesta di rafia in testa, avrebbe allungato il braccio verso di me: è lui, prendetelo.
La sua zampa di blatta aveva attraversato la periferia, risalito i quartieri buoni, e mi aveva raggiunto.
Mi avrebbero fermato, come si fa nei luoghi pubblici per non creare panico, con una stretta salda sul braccio, e la voce calma.
La prego di seguirci.
Invece, Angela, nessuno mi sfiorò.
Il dito sul pulsante rosso, aspettavo che si aprisse l'ascensore.
Loro erano ancora lì, immobili, non li guardavo ma li vedevo, tre sagome scure nella sezione laterale di un occhio.
Entravo in ascensore e non ero più io.
La camicia incollata alla schiena, sorrisi a una donna e a un bambino che salivano insieme a me: "Prego" come un animale scimunito.
Non ho fatto niente io, signora, vede?
Sono un uomo gentile, glielo dica lei a quei brutti tipi lì sotto.
Intanto i piani andavano intorno a quella scatola di latta argentata.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

Ultime visite al Blog

errebertapestifero83gregia8880alexx45can8acedicon10mgdan_mat_1322olly911ferrari.eleonora87laggettomariaalede1986zoda_melaniamostocotto.ltiamossigenoMarty7949
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963