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La Caduta eterna

Ritorno dopo mesi di assenza a scrivere un post su questo blog. Un post dei soliti miei che interesseranno al massimo una o due persone, non di più, perchè io sono abile nel fare cose che interessano sempre pochissime persone, “talento sprecato numero 100”.
Però non potevo far a meno di scrivere qualcosa riguardo l’ultima lettura da me fatta. Oramai era qualche tempo che avevo il “blocco del lettore”, una serie di vicissitudini mi rendevano difficile la concentrazione su ciò che stavo leggendo, ero fuori da quel mondo di inchiostro che mi ha cullato per tanti anni. Dovevo riprendere la mia vita in mano e quindi mi sono gettato a capofitto su “La Caduta” di Albert Camus.
Libro impegnativo ma non così lungo; un monologo, una confessione dell’ex avvocato parigino Jean-Baptiste Clamence (che fa rima con “clemence”, clemenza. Sarà un caso?) divenuto giudice-penitente sullo sfondo di una claustrofobica Amsterdam dalle tinte invernali.
Cosa ha di così interessante questo libro? in primis è uno scritto di Camus, quindi per definizione è interessante, se interessano le questioni che pone la filosofia esistenzialista, in secundis, è un volumetto che ho trovato di una attualità disarmante, pur essendo stato scritto oltre sessanta anni fa (per l’esattezza, nel 1956). Forse è proprio l’attualità, il suo riuscirsi ad adattare ad una realtà mutata (in parte) in modo così brillante e “reale” ad avermi colpito come un pugno nello stomaco. Una finestra spalancata sul mondo dalla quale osservare le formichine brulicanti e affaccendate, sempre di corsa che altro non sono che l’Umanità. Ma chi è Jean-Baptiste Clamence se non una sorta di “superuomo”, un uomo che ha acquisito una consapevolezza, “l’uomo assurdo” camusiano, come lo era, con caratteri però diversi, Mersault. La consapevolezza acquisita da Jean-Baptiste Clamence riguarda la duplicità dell’essere umano, non a caso tra le pagine afferma nella sua delirante e spasmodica confessione che il simbolo che lo rappresenta appieno è quello del “dio Giano” definendosi anche un “attore”. E forse ruota tutto proprio attorno a questi due simboli che rappresentano quella ipocrisia che viene descritta da Camus in queste poco più che novanta pagine. L’Uomo con due facce come il Dio Giano, l’Uomo – attore, che recita quotidianamente una farsa, come la farsa recitata con una certa convinzione iniziale dallo stesso protagonista del libro. Un uomo che incarna tutte le possibili e venerate virtù umane; caritatevole, dedito alla giustizia, abile conversatore, in poche parole un perfetto filantropo inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista. Ma proprio sotto questa patina dorata, sotto questo “Velo di Maya” si nasconde il lato più “bestiale” ed essenziale dell’essere Umano; l’egoismo.
Clamence si accorge ad un certo punto della sua vita, poco prima della svolta e di mollare la professione e Parigi per trasferirsi ad Amsterdam e diventare un profeta da locanda di infimo ordine, che ogni suo gesto virtuoso nei confronti del prossimo era un modo per alimentare la propria bestia vanesia: “Quando mi interessavo agli altri era per pura condiscendenza, in totale libertà, e il merito andava tutto a me: salivo di un gradino nell’amore che avevo di me stesso”. Questo è il principio cardine di quelli che fanno beneficenza sbandierandola ai quattro venti. A chi fanno beneficenza? al povero mendicante, ai bambini che muoiono di dissenteria in Africa o a loro stessi, o meglio, al loro ego?. D’altra parte il nostro ex avvocato lo afferma con una tale chiarezza in un semplice esempio: quando aiuti un non vedente ad attraversare la strada, alla fine della traversata gli fai un cenno levandoti il cappello; quel cenno per chi è se non per il “pubblico”?. In due righe spiega esattamente il concetto che ha un che di vero anche dopo più di mezzo secolo, “così è l’Uomo, caro signore, duplice, non può amare senza amarsi”.
Ma una sera sul lungo Senna, una di quelle sere perfette, quando l’animo è pieno, soddisfatto ed appagato, ad un certo punto una risata. Questa risata sconosciuta, proveniente chissà da dove, da un soggetto non identificato rappresenta evidentemente un segno. Camus e il suo antieroe di carta non si dilungano su questo elemento che probabilmente rappresenta il punto di svolta. Sì, perchè questa risata è capace di provocare quella presa di coscienza di cui parlavamo. Cos’era? una risata di derisione da parte di una entità superiore e osservatrice che aveva capito già tutta la magagna e scherniva la duplicità dell’essere Umano? Perchè quella risata, che viene precisato non essere una risata sinistra ma cordiale, turba così tanto l’animo di Clamence che si sente quasi perseguitato? In ogni caso sembra che da quella sera, da quella risata nella notte umida parigina, la vita di Clamence inizia a cambiare: “mi sembrava di cominciare a disimparare quello che non avevo mai imparato e che pure sapevo così bene, cioè vivere.”
Da questo momento il protagonista riesce a vedere questa duplicità di cui si parlava, scorge allo specchio un “sorriso doppio” che rappresenta proprio le due facce (Giano) di Clamence che altri non è che il simbolo dell’intera Umanità. Giunto a quel punto allora decide di togliersi la maschera e gettarsi a capofitto in questa sorta di “vita estetica”, spogliandosi delle virtù e abbracciando la sua vera natura. Feste, alcol e piaceri della carne che però creano una spirale di ulteriori bisogni da soddisfare che non portano mai ad un punto di arrivo se non l’insoddisfazione: “correvo, sempre appagato e mai soddisfatto.” La spirale di bisogni preconfezionati e serviti è ciò che probabilmente rende l’Uomo l’essere insoddisfatto per eccellenza e su questo tema la letteratura e la spiritualità hanno battuto molto, dal Budda a Leopardi, passando per la filosofia di Schopenhauer, e così il consumismo dei giorni d’oggi, la dottrina che ha capito al meglio come sfruttare l’eterna ricerca di bisogni e desideri dell’Uomo per scopi di lucro. Un culto materialista, un “feticismo delle merci” che accorcia sempre più quella catena che stringe il collo, una genialata, uno strumento atto a creare schiavi; d’altra parte “non si può fare a meno di dominare o di essere serviti, ogni uomo ha bisogno di schiavi come l’aria”.
Ma l’ipocrisia si manifesta anche e soprattutto in quei rapporti umani che dovrebbero essere di puro affetto e qui scendiamo in una analisi lucida, critica ed attualissima, in una epoca come questa in cui i rapporti umani si sono deteriorati sempre più fino a perdere di significato e a svuotarsi del tutto. Parole come “amicizia” e “amore” oramai sono ultra-inflazionate. Chiamiamo “amici” dei contatti virtuali su un social e “amore” quel qualcuno che poi siamo pronti ad abbandonare il giorno dopo, proprio come i rapporti del nostro Clamence con le donne. Fugaci incontri passionali, tanto erotici quanto superficiali e senza valore. Fagocitiamo il prossimo in un atto di sensuale “cannibalismo” perchè è facile, perchè ci rende “liberi” e non impegna, perchè non siamo disposti a dare parte della nostra libertà, del nostro tempo e delle nostre forze per creare qualcosa che abbia delle basi solide. “Amori” (virgoletto per non abusare del termine anche io…) che durano il tempo di una vacanza al mare e che si spengono con la velocità in cui sono nati per stanchezza, per noia o per paura di dover fare dei sacrifici per tenerlo vivo e Dio non voglia che qualcuno debba sacrificarsi, o il fenomeno del “ghosting”, sparire pur di non costruire nulla e rimanere in una dimensione di superficialità. Vite superficiali che generano livore, rabbia, insoddisfazione, infelicità pur passando “di festa in festa” come fa il nostro profeta contemporaneo. E l’amicizia? “ho imparato ad accontentarmi della simpatia. E’ più facile da trovare e poi non impegna. L’amicizia invece è qualcosa di più complesso. E’ lunga e difficile da ottenere.” Anche in questo caso si sceglie la via della “facilità” con uno sguardo anche più diffidente nei confronti del prossimo che è pur sempre anche lui un animale egoista, “non si illuda che gli amici le telefonino tutte le sere, come dovrebbero, per sapere se non è proprio quella la sera in cui ha deciso di suicidarsi, o più semplicemente se ha bisogno di compagnia, se ha voglia di uscire.” Già, perchè anche in questo tipo di rapporto prevale l’egoismo ancora una volta, “l’amico” è colui il quale ti chiama la sera in cui “la vita è bella”, non nel cosiddetto momento del bisogno, chi vorrebbe sorreggere un simile gravoso fardello? Quindi le persone ideali sono i morti, gli amici morti, meglio se morti suicidi. D’altra parte Clamence è chiaro sul punto, “sa perchè siamo sempre più giusti e più generosi con i morti? Il motivo è semplice! con loro non ci sono obblighi”. Con i morti è facile, si indossa la maschera del pietismo, della contrizione, “negli amici vogliamo bene al morto recente, al morto doloroso, alla nostra emozione, a noi stessi”, anche in questo caso nutriamo il nostro ego con la carogna del prossimo ancora fresca. D’altra parte basti vedere come il mondo intero, ancor di più con l’avvento dei social, mostra la propria viva emozione e commozione dinanzi ad un cadavere ancora caldo. Che sia un VIP trapassato o un bambino nell’atto di attraversare il Mediterraneo, l’atteggiamento di dolore è sempre quello ed è sempre ben spiattellato sulle bacheche virtuali, per poi ritornare a parlare della prossima partita di calcio o di questo o quel reality. Perdiamo interesse con una facilità disarmante e forse è proprio la “fugacità” il tratto che unisce tutti questi temi trattati fin ora. Amori brevi, amicizie brevi e interessate, cordoglio breve; siamo la generazione dei sentimenti “fast food”, ci rimpinziamo di entusiasmi per poi vomitarli mal digeriti e preparare gli stomaci alla seconda abbuffata e così ancora senza sosta e senza trarne un reale nutrimento per l’anima.
Siamo il popolo dei “movimenti lampo”, che siano sardine, no vax, ambientalisti ecc., tutti temi da sfruttare, da fagocitare ed espellere con rapidità, passando al tema successivo, all’argomento del giorno da trattare con viva passione su Facebook per dimenticarcene il giorno dopo,
“Guerra, suicidio, amore, miseria, vi prestavo attenzione, certo, quando le circostanze me lo imponevano, ma in una maniera educata e distratta. A volte mostravo di appassionarmi a una causa avulsa dalla mia vita quotidiana. Dentro di me, però, non mi sentivo partecipe, tranne ovviamente quando in gioco era la mia liberta. Come posso dirle? Tutto scivolava via. Sì, tutto mi scivolava addosso”, tutto ci scivola addosso e non ci rimane nulla, sempre più vuoti, lasciati in una totale insensatezza dove tutto è vano, vita compresa. Da questo momento inizia la confessione dei “peccati”, dopo aver fatto un quadro delle proprie virtù, l’avvocato Clamence inizia a raccontare della sua discesa nel vizio e nella dissolutezza. La dissolutezza diviene la chiave per raggiungere l’immortalità e un uomo narcisista e vanesio non può che tendere all’immortalità, a preservare in eterno l’oggetto del proprio amore, cioè se stesso e sceglie la dissolutezza perchè non impegna e non crea obblighi. Ancora una volta la parola d’ordine è “non impegno”, quindi alcol, prostitute, tutto ciò che non ti chiede nulla in cambio, nessun obbligo e queste sono di fatto le “droghe” che ancora oggi vengono consumate da chi non vuole responsabilità da chi vuole restare in una dimensione di eterna adolescenza senza badare al futuro, nell’illusione che non pensandoci questo non arrivi mai, mentre invece gli anni passano, la gioventù anche e cosa resta se non si è dedicato del tempo e degli sforzi nella semina?
Ma qual è allora il senso di questa lunga confessione, a tratti amara, imbarazzante e senza speranza? un tentativo del nostro “eroe” di redimersi? No, non c’è redenzione, la penitenza della confessione dei propri peccati fatta agli avventori del Mexico-City ha il solo scopo di poter indossare la toga del giudice e giudicare tutti gli altri. Giudicare se stessi per poter estendere il giudizio sull’intera umanità, ponendosi su uno scranno più alto dato dalla consapevolezza delle proprie colpe. Clamence non fa altro che recitare una parte con la sua confessione (dice lui stesso nelle prime battute di essere un attore), una parte per spingere l’interlocutore a confessare gli stessi peccati o peccati peggiori al fine di dividere il peso delle proprie colpe con tutta l’Umanità. Un “falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne”; che non vi sia alcuna forma di reale pentimento o di ricerca di redenzione è chiaro,  “non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e ad usare gli altri. Ammettendo le mie colpe però posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura e poi di un pentimento squisito.”
Nella storia dell’Uomo quindi non c’è via di uscita, tutti chi più o chi meno sono condannati ad essere dei Clamence ed in una società composta da un esercito di Clamence preferisco essere “lo straniero”.

La Caduta eternaultima modifica: 2020-10-12T14:48:57+02:00da Dr.Prometheus