Monet: Angolo del giardino a Montgeron

La nuova alba

Il sole sorge dietro i monti dalle vette imbiancate da una strana e gelida neve primaverile e ricopre i campi umidi di brina con il suo delicato velo ambrato. Nelle campagne addormentate regna la quiete tra gli immobili alberi di pesco infiocchettati di fiorellini rosa pallido mentre uno stormo di uccelletti appollaiati tra i rami intona un canto melodioso al nuovo giorno. Un uomo imbacuccato e intirizzito dal freddo mattutino esce sul balcone, si guarda intorno mentre stringe nella sua mano la sua tazza fumante. Annusa l’aria fresca del mattino con una espressione di compiacimento; si appoggia alla balaustra del balconcino mentre ascolta il piccolo coro dei pennuti nascosti tra le fronde e distrattamente con la mano accarezza la piantina di geranio rosso, staccandone le foglie secche e accartocciate. Un altro sorso dalla tazza e un altro sguardo al di là della campagna solitaria, verso quelle montagne lontane e azzurrine. Il sole si alza nel cielo e la marea dei suoi raggi investe palazzi, terrazze, strade, ma tutto resta ancora innaturalmente silenzioso. E’ un altro giorno dormiente per il mondo, uno dei tanti di questo periodo; uno di quei giorni sempre uguali che si susseguono, consumati in casa, nelle cucine laboriose e fumanti o sprofondati nei morbidi letti o in comode poltrone mentre fuori la vita, diversa da quella che era, continua a scorrere nella maniera più naturale che esista. Le piogge continuano a lavare le strade deserte e a scorrere in piccoli rigagnoli verso le grate dove cadono in piccole cascate sonanti e gorgoglianti. Le insegne sono spente, i negozi abbandonati, nelle vetrine solo i manichini restano di guardia nella loro immobilità ferma nel tempo, come se qualcuno avesse messo in pausa la vita. I marciapiedi sono desolati e nella zona del mercato, sempre ingombra ed affollata di voci che si sovrappongono e di vita, ora c’è silenzio e si sente solo il rumore della brezza leggera che lascia ondeggiare qualche arbusto. Sul lungomare un tempo affollato dai turisti non si sente più il calpestio di mille suole, di voci o il tintinnare di bicchieri e posate dei ristoranti, ma solo il rumore delle onde che si infrangono contro gli scogli sommergendoli di spuma salmastra; anche le imbarcazioni e i pescherecci sono abbandonati come navi fantasma alla deriva in balia di Poseidone ritornato ad appropriarsi del suo regno. Le piante dei boschi fioriscono, spuntano le gemme e i fiori che emanano profumi intensi sotto un cielo più terso e silenzioso, incuranti del mondo che li circonda. I prati si accendono di un verde più intenso, i corsi d’acqua scorrono più limpidi e musicali e ogni animale, dal merlo corvino al più piccolo bruco, fa timidamente capolino dalla propria tana riconquistandosi quegli spazi naturali che gli erano stati sottratti dall’Uomo. A tutto questo pensa quell’uomo immerso nelle sue fantasticherie sul davanzale, mentre le ore del primo mattino scorrono placidamente e sul fondo della sua tazza resta solo la galleggiante posa raffreddata del tè. Quali mirabili cambiamenti e quanti ricchi e vivi dialoghi si consumano nell’assoluto silenzio della natura. E’ davvero cambiato il mondo? No, forse l’unica differenza è che ora l’Uomo fa meno rumore e ha più tempo per poterne ascoltare la voce.

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L’umanità ritrovata (?)

Mal sopporto e guardo con molta diffidenza questa presunta “umanità ritrovata” che ultimamente si sta sbandierando sui social.
Facciamo i flashmob di ogni tipo per dimostrare vicinanza e cordoglio; intoniamo l’inno italiano sventolando il tricolore, cantiamo, balliamo, facciamo baccano, tutto in nome di un “restare umani”, di un sentirsi popolo. Tutte ipocrisie dettate dal momento. Non esiste questa solidarietà umana, non c’è alcuna verginità ritrovata. Questo assembramento spirituale di facciata è la semplice risposta più banale alla paura. Non ce ne frega nulla dell’altra persona, abbiamo bisogno di sentirci vicini per placare la nostra paura, è solo un’altra manifestazione dell’egoismo umano. L’uomo fin dalla notte dei tempi si riunisce in società più per timore che per amore verso il prossimo. Ovviamente non sto certo dicendo che quanto detto vale nel 100% dei casi, in ogni contesto argomentativo ci sono le dovute eccezioni e nelle eccezioni c’è comunque un margine di relatività. Intendo dire che magari non tutti gli uomini che abitano sulla terra sono egoisti e tra quelli egoisti non tutti sono egoisti al 100%, alcuni lo saranno in percentuali diverse. Insomma, sia chiaro, non ho la presunzione di essere oggettivo (anche perché non conosco i quasi otto miliardi circa di abitanti del pianeta terra e me ne guarderei bene dal farlo). E’ più che naturale avere paura, è inutile perfino dirlo, ma il punto è come reagire alla paura. Il mezzo più facile è quello di creare una illusione confortante; la religione ci ha insegnato che se vuoi combattere la paura devi inventarti Dio e il meccanismo è più o meno quello. Ad oggi combattiamo la paura, una paura alla quale molti non erano abituati e non avevano mai sperimentato, con l’illusione di essere tutti uniti…almeno finché il pericolo resta vivo, perché dopo di ciò ognuno prenderà la sua strada, così come faceva prima. Siamo tutti uniti ma comunque in cuor nostro siamo “sollevati” che la catastrofe sia altrove, come eravamo spensierati quando era solo in Cina o quando la fame e l’ebola decimavano villaggi in Africa. Siamo uniti ma “meglio altrove che qui”, “meglio ad altri che a me” e il bello è che il ragionamento, seppur cinico, è giusto e assolve all’istinto di sopravvivenza. Ci dispiace, certo, ma “meglio a loro che a me”. Certo ho timore per me ma più che altro per la mia famiglia e in subordine per quelle persone che ad oggi combattono in prima linea questo male, ma non riesco a sentirmi più “unito” o più “italiano” di quanto fossi prima. Peso il prossimo con la stessa diffidenza e con la stessa distanza di prima, non mi interessa “abbracciare più forte” per trovare consolazione in un abbraccio momentaneo, non mi interessa cantare l’inno o mettere il tricolore alla finestra (non possiedo nemmeno il tricolore) perché non dimentico per paura cosa dovrebbe voler dire sentirsi popolo.
Si potrebbe dire che questa umanità sia genuina e non dettata in buona parte (notate sempre il mio essere relativo e mai assoluto) dalla paura, che l’Uomo ha capito. Beh, lasciatemi nutrire qualche dubbio e concedetemi una riflessione. Se domani questa epidemia cessasse e come per magia, come la manna dal cielo, calasse su di noi tanto benessere e ricchezza e salute e ogni dono possibile, gli uomini, immersi nella loro opulenza, si sbraccerebbero ancora per dimostrare a tutti i costi la loro “umanità” verso il prossimo?
A questa domanda non può darsi risposta certa e questa incertezza già mi basta come risposta e mi dimostra che il mio dubbio può essere legittimo

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La Passeggiata

Passeggiando lungo la strada acciottolata di via Vodickova, dove i palazzi in stile liberty si illuminano delle luci al neon verdi e dei colori delle insegne dei negozi e dove antico e moderno si fondono in una sola e unica creatura che è la città di Praga, perla adagiata sulle coste della Moldava, si incontra il Kino Svetozor. Sotto una pensilina che dà sul marciapiedi decorato con un mosaico dalle forme geometriche e gremito di passanti, campeggia l’insegna al neon sporca e annerita dal tempo “KINO SVETOZOR” in caratteri rossi e bianchi. Il Kino altro non è che una sala da cinema indipendente, una struttura che sembra essere rimasta ferma al periodo socialista degli anni settanta e ottanta. Entrando nella galleria inglobata all’interno di un imponente palazzone squadrato dal colore scuro ci sono una serie di negozietti, una mensa che un tempo era destinata ai lavoratori del settore industriale e che ora continua ad offrire cibo tipico come attività folcloristica per i turisti ed alcuni altri piccoli esercizi dove è possibile acquistare ogni tipo di stuzzicheria alimentare. Mentre cammino su quel pavimento di mattonelle bianche e usurate dal tempo mi perdo in mille fantasticherie mentre la mia immagine si riflette nelle teche di plexiglass dove sono esposte le locandine dei film in proiezione. Penso a quelle piccole salette cinematografiche pregne di fumo bluastro, alle poltroncine di tessuto bordeaux impregnate dell’odore del tabacco e con segni di bruciature. Sembra di vedere il fascio luminoso che proietta dall’alto le immagini sbiadite sullo schermo bianco; un mondo che oggi non ha nulla a che vedere con la modernità delle grandi sale da cinema ipertecnologiche e super accessoriate. Voglio pensare che questa sala sia rimasta ancora come un tempo, uno degli ultimi baluardi di antichità per i nostalgici avventori. E’ una tarda mattinata d’agosto non eccessivamente calda, la brezza tiepida accarezza le braccia nude e all’interno della galleria coperta si avverte da subito il fresco refrigerio. E’ l’ora in cui l’appetito inizia a farsi sentire, stimolato anche dalla lunga passeggiata mattutina. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, in ogni angolo c’è una tavola calda con la sua insegna al neon o il suo menù dai colori sgargianti che sembra chiamarti per offrirti le sue specialità; c’è un chiosco che offre specialità russe, un altro che offre piatti elaborati di cucina cinese, ma la mia attenzione è rivolta all’ Ovocny, un moderno e luminoso take away che offre spuntini semplici della cucina locale. Mi faccio strada nella ressa, tra i banconi bianchi lucenti e le vetrine stracolme di ogni tipo di pietanza, dal dolce al salato. E’ un tripudio di colori; il bruno della glassa caramellata sulle torte, il rosso acceso dei frutti di bosco e delle fragole che guarniscono invitanti pasticcini, il giallo vivo e caldo delle spremute di frutta e delle creme. Scegliere è una impresa ardua. Opto per i classici chlebicky assortiti e ritiro il mio pacchetto gentilmente preparato da una ragazza biondina e sorridente con un cappellino rosso e una maglietta a mezze maniche bianche. Le ricambio il sorriso come forma di ringraziamento e di saluto e mi incammino per la mia strada. Superata la galleria dalla volta vetrata che la fa somigliare più ad una specie di serra senza arbusti mi trovo in una piccola strettoia all’aperto, sulla mia destra un piccolo negozietto di capi d’abbigliamento alquanto kitsch. La vetrina mi sembra allestita in modo grossolano e confuso e all’interno tutto sembra tacere e i manichini stessi sembrano più inanimati del solito ed avvolti in una penombra di quieta sonnolenza. Ma ad un certo punto mi ritrovo dinanzi ad una grande porta in ferro battuto decorata da illustrazioni in bassorilievo, dinanzi a me si estende la valle dell’Eden, un giardino tranquillo, pieno di colori che luccicano ai raggi del sole caldo. Come attratto dai richiami delle ninfe che popolano quel piccolo polmone verde entro e in punta di piedi, delicatamente come per non disturbare la magia di quel luogo, inizio a passeggiare guardandomi intorno. La maestosa chiesa della Vergine della neve sovrasta l’antico giardino e lo osserva da secoli come un guardiano dalle sue alte ed imponenti finestre. Sembra di aver varcato il portale per un’altra dimensione dove il tempo non esiste più. Tutto intorno sembra risuonare la musica delle danze slave di Dvorak in quel tripudio di colori e sotto ai porticati grondanti rose rosse. Gli archi in ferro battuto laccato di bianco sono adornati di rampicanti e sembrano fantasie pittoriche di Mucha e tutto intorno è un dedalo di squadrate siepi di tasso. Perdersi in quell’isola verde è così sublime che la mente viaggia e immagina, al posto delle figure di uomini e donne adagiati pigramente sulle panchine, danzanti ballerini sui prati verdi e tra gli alberi da frutto o dietro le siepi di piante aromatiche che sprigionano afrori che si disperdono nell’aria come nuvole colorate che affrescano tele di pittori di altre e remote epoche. Uomini con cappelli a cilindro, bastoni da passeggio e folti baffi bianchi si accompagnano a dame dai vestiti pomposi e sgargianti dando loro il braccio e che diffondono un dolce e fresco profumo floreale. Sorridono gioviali e passano oltre. Una distesa di alberi come soldati schierati fianco a fianco coprono la vista dei palazzi circostanti come voler preservare quel luogo sacro dove vige il dominio della natura e delle sue creature dai molteplici colori. Attraverso gli alberi dai frutti rossi e maturi si imbocca il sentiero che conduce all’uscita. Altri pochi metri nel labirinto verde e ritorna la coscienza del tempo presente; un tram che sferraglia sulle rotaie, una macchina ferma in sosta, i soliti negozi dalle insegne al neon. Si ritorna ahimè alla vita.

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Epistole all’amata

                                                                                                                                                                                 Ducato di Napoli
                                                                                                                                                                                 A.D. X.III.MMXX

Mia diletta oltre frontiera, ti scrivo questa lettera poiché terribili ombre incombono sui nostri cuori in queste dannate ore. La nostra Illustrissima Signoria ha proclamato il suo editto, il mortifero morbo che da Oriente, sulla via della seta, si è insinuato nei nostri regni sta mettendo a dura prova i villaggi del nord e sta insediando le campagne del sud. Alcuni sono sgomenti e combattono il terrore di queste ore battendosi il petto e affidando l’anima al Padre Celeste, altri, incauti e sciagurati, per lo più progenie novella, girano pei borghi inebriandosi di vino e perdendosi nella lussuria e nel vizio. I più saggi e avveduti hanno scelto di confinarsi nelle proprie magioni e lì di attendere il passare di queste funeste ore dedicandosi alla lettura di antichi volumi o meditando a fondo. In queste ore disperate e di solitudine solo tu mia diletta mi sovvieni nel pensiero e ricordo quando io e te si andava per gli antichi borghi inebriandoci dei nostri baci e del nostro amore giammai perduto o dimentico. Ora quei baci sono svaniti e resta lo sbiadito ricordo delle tue labbra rosse come bacche di agrifoglio. Un invisibile muro separa le nostre contee nelle quali tutti sembrano subire anche l’altro morbo, quello della pazzia. E’ notizia recente che nottetempo alcuni villici del luogo muniti di torce hanno assaltato le botteghe della zona per depredarle dei generi alimentari. La paura della carestia, oltre che della presente pestilenza, si fa strada nelle loro piccole menti avvizzite e così sottraggono pane, farina, frutti e bestiame da macellare nelle loro capanne. Sono omuncoli che non sono consci del periglio che corrono spostandosi in spregio dell’editto proclamato e li vedi vagare come in preda alla confusione, dimentichi di se stessi, chiedere se botteghe sono aperte, se possono vagare di podere in podere, se possono spostarsi di contea in contea o se possono recarsi presso i luoghi in cui si amministra giustizia e altri mestieri. Scimmie, selvaggi, perdiana! Colpa di queste genti se il morbo si diffonde senza sosta e impegna dottori e stregoni fino allo stremo delle loro forze. Ma noi, mia dilettissima, dobbiamo affrancarci da questa bassa e stolta umanità, dobbiamo coltivare il nostro spirito più che mai. Non potremo vederci chissà per quanto ancora ma potremo nutrire il nostro sentimento attraverso le epistole, confortarci, tenderci una mano e confidarci in queste lunghe giornate avvolte nella nebbia. Non più intime passeggiate pei boschi e per botteghe, ma i libri saranno i nostri generi di conforto; cammineremo attraverso la Sennaja dandoci il braccio, giaceremo al caldo del camino in una rustica magione di Hemso, godremo dello spettacolo dei tetti di Parigi che si estendono dinanzi a noi a perdita d’occhio o passeggeremo sotto il fresco fogliame di un selvatico bosco sotto i raggi caldi di un bel sole primaverile, inebriati dai profumi dei fiori e ascoltando la musica delle api sciamanti.
Ci coccoleremo nel caldo abbraccio delle sinfonie che innalzeranno il nostro spirito e ci conforteranno nei momenti più disperati. Vivremo dei frutti dolci della nostra fantasia stimolata dall’arte, giacchè in questi tempi funesti l’unica cosa che possiamo fare è cercare la bellezza in ogni sua forma per non cadere negli oscuri abissi della disperazione; la bellezza fortificherà il nostro fisico e il nostro spirito, sarà l’ambrosia di cui ci nutriremo nel tempo a venire. Dobbiamo farci tanto coraggio mia amata e attendere che questo periodo di incertezze e di timori cessi per riportarci ad una nuova rinascita. Pensa quando tutto questo sarà passato e sarà solo un lontano e cupo ricordo, che immensa gioia. Saremo come affamati dinanzi ad una tavola imbandita, pensiamo a quel momento e priviamoci oggi per mangiare con più voluttà domani.
Potremo riabbracciarci ancora, scambiarci le più dolci effusioni amorose senza timore di morbi; le genti usciranno di casa con il cuore sollevato e non gravido di tenebra, sorrideranno, si recheranno ai loro affari con più spirito e tenacia di prima. Le locande si riempiranno e scorrerà vino in quantità e gli avventori si ubriacheranno felici e canteranno stornelli e melodie. Ci sarà fratellanza tra le genti, nuove amicizie nasceranno e quelle vecchie si consolideranno; le famiglie si riuniranno sotto lo stesso tetto e trionferà ovunque l’amore. Ah mia amatissima, immagino già le grandi feste che si celebreranno quando tutto sarà finito e la paura sarà svanita. Quelli che avranno scampato la pestilenza saranno grati di essere vivi e si sentiranno fortunati e innalzeranno lodi al cielo e non danneranno la propria esistenza o quella dei lor’ congiunti.
Dobbiamo riempire il cuore di queste visioni dolci e tener viva dentro di noi la fiammella flebile della speranza e pazientare ancora. Siamo messi alla prova in una epoca oscura di decadimento morale. Ora è il tempo del sacrificio ma ritorneremo a brillare e a ricostruire sulle macerie di un passato oramai vecchio, consunto e superato. Saremo l’alba di una nuova epoca.
Ti bacio le mani con ardore mia amata.
Tuo servo fedelissimo.