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La Caduta eterna

Ritorno dopo mesi di assenza a scrivere un post su questo blog. Un post dei soliti miei che interesseranno al massimo una o due persone, non di più, perchè io sono abile nel fare cose che interessano sempre pochissime persone, “talento sprecato numero 100”.
Però non potevo far a meno di scrivere qualcosa riguardo l’ultima lettura da me fatta. Oramai era qualche tempo che avevo il “blocco del lettore”, una serie di vicissitudini mi rendevano difficile la concentrazione su ciò che stavo leggendo, ero fuori da quel mondo di inchiostro che mi ha cullato per tanti anni. Dovevo riprendere la mia vita in mano e quindi mi sono gettato a capofitto su “La Caduta” di Albert Camus.
Libro impegnativo ma non così lungo; un monologo, una confessione dell’ex avvocato parigino Jean-Baptiste Clamence (che fa rima con “clemence”, clemenza. Sarà un caso?) divenuto giudice-penitente sullo sfondo di una claustrofobica Amsterdam dalle tinte invernali.
Cosa ha di così interessante questo libro? in primis è uno scritto di Camus, quindi per definizione è interessante, se interessano le questioni che pone la filosofia esistenzialista, in secundis, è un volumetto che ho trovato di una attualità disarmante, pur essendo stato scritto oltre sessanta anni fa (per l’esattezza, nel 1956). Forse è proprio l’attualità, il suo riuscirsi ad adattare ad una realtà mutata (in parte) in modo così brillante e “reale” ad avermi colpito come un pugno nello stomaco. Una finestra spalancata sul mondo dalla quale osservare le formichine brulicanti e affaccendate, sempre di corsa che altro non sono che l’Umanità. Ma chi è Jean-Baptiste Clamence se non una sorta di “superuomo”, un uomo che ha acquisito una consapevolezza, “l’uomo assurdo” camusiano, come lo era, con caratteri però diversi, Mersault. La consapevolezza acquisita da Jean-Baptiste Clamence riguarda la duplicità dell’essere umano, non a caso tra le pagine afferma nella sua delirante e spasmodica confessione che il simbolo che lo rappresenta appieno è quello del “dio Giano” definendosi anche un “attore”. E forse ruota tutto proprio attorno a questi due simboli che rappresentano quella ipocrisia che viene descritta da Camus in queste poco più che novanta pagine. L’Uomo con due facce come il Dio Giano, l’Uomo – attore, che recita quotidianamente una farsa, come la farsa recitata con una certa convinzione iniziale dallo stesso protagonista del libro. Un uomo che incarna tutte le possibili e venerate virtù umane; caritatevole, dedito alla giustizia, abile conversatore, in poche parole un perfetto filantropo inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista. Ma proprio sotto questa patina dorata, sotto questo “Velo di Maya” si nasconde il lato più “bestiale” ed essenziale dell’essere Umano; l’egoismo.
Clamence si accorge ad un certo punto della sua vita, poco prima della svolta e di mollare la professione e Parigi per trasferirsi ad Amsterdam e diventare un profeta da locanda di infimo ordine, che ogni suo gesto virtuoso nei confronti del prossimo era un modo per alimentare la propria bestia vanesia: “Quando mi interessavo agli altri era per pura condiscendenza, in totale libertà, e il merito andava tutto a me: salivo di un gradino nell’amore che avevo di me stesso”. Questo è il principio cardine di quelli che fanno beneficenza sbandierandola ai quattro venti. A chi fanno beneficenza? al povero mendicante, ai bambini che muoiono di dissenteria in Africa o a loro stessi, o meglio, al loro ego?. D’altra parte il nostro ex avvocato lo afferma con una tale chiarezza in un semplice esempio: quando aiuti un non vedente ad attraversare la strada, alla fine della traversata gli fai un cenno levandoti il cappello; quel cenno per chi è se non per il “pubblico”?. In due righe spiega esattamente il concetto che ha un che di vero anche dopo più di mezzo secolo, “così è l’Uomo, caro signore, duplice, non può amare senza amarsi”.
Ma una sera sul lungo Senna, una di quelle sere perfette, quando l’animo è pieno, soddisfatto ed appagato, ad un certo punto una risata. Questa risata sconosciuta, proveniente chissà da dove, da un soggetto non identificato rappresenta evidentemente un segno. Camus e il suo antieroe di carta non si dilungano su questo elemento che probabilmente rappresenta il punto di svolta. Sì, perchè questa risata è capace di provocare quella presa di coscienza di cui parlavamo. Cos’era? una risata di derisione da parte di una entità superiore e osservatrice che aveva capito già tutta la magagna e scherniva la duplicità dell’essere Umano? Perchè quella risata, che viene precisato non essere una risata sinistra ma cordiale, turba così tanto l’animo di Clamence che si sente quasi perseguitato? In ogni caso sembra che da quella sera, da quella risata nella notte umida parigina, la vita di Clamence inizia a cambiare: “mi sembrava di cominciare a disimparare quello che non avevo mai imparato e che pure sapevo così bene, cioè vivere.”
Da questo momento il protagonista riesce a vedere questa duplicità di cui si parlava, scorge allo specchio un “sorriso doppio” che rappresenta proprio le due facce (Giano) di Clamence che altri non è che il simbolo dell’intera Umanità. Giunto a quel punto allora decide di togliersi la maschera e gettarsi a capofitto in questa sorta di “vita estetica”, spogliandosi delle virtù e abbracciando la sua vera natura. Feste, alcol e piaceri della carne che però creano una spirale di ulteriori bisogni da soddisfare che non portano mai ad un punto di arrivo se non l’insoddisfazione: “correvo, sempre appagato e mai soddisfatto.” La spirale di bisogni preconfezionati e serviti è ciò che probabilmente rende l’Uomo l’essere insoddisfatto per eccellenza e su questo tema la letteratura e la spiritualità hanno battuto molto, dal Budda a Leopardi, passando per la filosofia di Schopenhauer, e così il consumismo dei giorni d’oggi, la dottrina che ha capito al meglio come sfruttare l’eterna ricerca di bisogni e desideri dell’Uomo per scopi di lucro. Un culto materialista, un “feticismo delle merci” che accorcia sempre più quella catena che stringe il collo, una genialata, uno strumento atto a creare schiavi; d’altra parte “non si può fare a meno di dominare o di essere serviti, ogni uomo ha bisogno di schiavi come l’aria”.
Ma l’ipocrisia si manifesta anche e soprattutto in quei rapporti umani che dovrebbero essere di puro affetto e qui scendiamo in una analisi lucida, critica ed attualissima, in una epoca come questa in cui i rapporti umani si sono deteriorati sempre più fino a perdere di significato e a svuotarsi del tutto. Parole come “amicizia” e “amore” oramai sono ultra-inflazionate. Chiamiamo “amici” dei contatti virtuali su un social e “amore” quel qualcuno che poi siamo pronti ad abbandonare il giorno dopo, proprio come i rapporti del nostro Clamence con le donne. Fugaci incontri passionali, tanto erotici quanto superficiali e senza valore. Fagocitiamo il prossimo in un atto di sensuale “cannibalismo” perchè è facile, perchè ci rende “liberi” e non impegna, perchè non siamo disposti a dare parte della nostra libertà, del nostro tempo e delle nostre forze per creare qualcosa che abbia delle basi solide. “Amori” (virgoletto per non abusare del termine anche io…) che durano il tempo di una vacanza al mare e che si spengono con la velocità in cui sono nati per stanchezza, per noia o per paura di dover fare dei sacrifici per tenerlo vivo e Dio non voglia che qualcuno debba sacrificarsi, o il fenomeno del “ghosting”, sparire pur di non costruire nulla e rimanere in una dimensione di superficialità. Vite superficiali che generano livore, rabbia, insoddisfazione, infelicità pur passando “di festa in festa” come fa il nostro profeta contemporaneo. E l’amicizia? “ho imparato ad accontentarmi della simpatia. E’ più facile da trovare e poi non impegna. L’amicizia invece è qualcosa di più complesso. E’ lunga e difficile da ottenere.” Anche in questo caso si sceglie la via della “facilità” con uno sguardo anche più diffidente nei confronti del prossimo che è pur sempre anche lui un animale egoista, “non si illuda che gli amici le telefonino tutte le sere, come dovrebbero, per sapere se non è proprio quella la sera in cui ha deciso di suicidarsi, o più semplicemente se ha bisogno di compagnia, se ha voglia di uscire.” Già, perchè anche in questo tipo di rapporto prevale l’egoismo ancora una volta, “l’amico” è colui il quale ti chiama la sera in cui “la vita è bella”, non nel cosiddetto momento del bisogno, chi vorrebbe sorreggere un simile gravoso fardello? Quindi le persone ideali sono i morti, gli amici morti, meglio se morti suicidi. D’altra parte Clamence è chiaro sul punto, “sa perchè siamo sempre più giusti e più generosi con i morti? Il motivo è semplice! con loro non ci sono obblighi”. Con i morti è facile, si indossa la maschera del pietismo, della contrizione, “negli amici vogliamo bene al morto recente, al morto doloroso, alla nostra emozione, a noi stessi”, anche in questo caso nutriamo il nostro ego con la carogna del prossimo ancora fresca. D’altra parte basti vedere come il mondo intero, ancor di più con l’avvento dei social, mostra la propria viva emozione e commozione dinanzi ad un cadavere ancora caldo. Che sia un VIP trapassato o un bambino nell’atto di attraversare il Mediterraneo, l’atteggiamento di dolore è sempre quello ed è sempre ben spiattellato sulle bacheche virtuali, per poi ritornare a parlare della prossima partita di calcio o di questo o quel reality. Perdiamo interesse con una facilità disarmante e forse è proprio la “fugacità” il tratto che unisce tutti questi temi trattati fin ora. Amori brevi, amicizie brevi e interessate, cordoglio breve; siamo la generazione dei sentimenti “fast food”, ci rimpinziamo di entusiasmi per poi vomitarli mal digeriti e preparare gli stomaci alla seconda abbuffata e così ancora senza sosta e senza trarne un reale nutrimento per l’anima.
Siamo il popolo dei “movimenti lampo”, che siano sardine, no vax, ambientalisti ecc., tutti temi da sfruttare, da fagocitare ed espellere con rapidità, passando al tema successivo, all’argomento del giorno da trattare con viva passione su Facebook per dimenticarcene il giorno dopo,
“Guerra, suicidio, amore, miseria, vi prestavo attenzione, certo, quando le circostanze me lo imponevano, ma in una maniera educata e distratta. A volte mostravo di appassionarmi a una causa avulsa dalla mia vita quotidiana. Dentro di me, però, non mi sentivo partecipe, tranne ovviamente quando in gioco era la mia liberta. Come posso dirle? Tutto scivolava via. Sì, tutto mi scivolava addosso”, tutto ci scivola addosso e non ci rimane nulla, sempre più vuoti, lasciati in una totale insensatezza dove tutto è vano, vita compresa. Da questo momento inizia la confessione dei “peccati”, dopo aver fatto un quadro delle proprie virtù, l’avvocato Clamence inizia a raccontare della sua discesa nel vizio e nella dissolutezza. La dissolutezza diviene la chiave per raggiungere l’immortalità e un uomo narcisista e vanesio non può che tendere all’immortalità, a preservare in eterno l’oggetto del proprio amore, cioè se stesso e sceglie la dissolutezza perchè non impegna e non crea obblighi. Ancora una volta la parola d’ordine è “non impegno”, quindi alcol, prostitute, tutto ciò che non ti chiede nulla in cambio, nessun obbligo e queste sono di fatto le “droghe” che ancora oggi vengono consumate da chi non vuole responsabilità da chi vuole restare in una dimensione di eterna adolescenza senza badare al futuro, nell’illusione che non pensandoci questo non arrivi mai, mentre invece gli anni passano, la gioventù anche e cosa resta se non si è dedicato del tempo e degli sforzi nella semina?
Ma qual è allora il senso di questa lunga confessione, a tratti amara, imbarazzante e senza speranza? un tentativo del nostro “eroe” di redimersi? No, non c’è redenzione, la penitenza della confessione dei propri peccati fatta agli avventori del Mexico-City ha il solo scopo di poter indossare la toga del giudice e giudicare tutti gli altri. Giudicare se stessi per poter estendere il giudizio sull’intera umanità, ponendosi su uno scranno più alto dato dalla consapevolezza delle proprie colpe. Clamence non fa altro che recitare una parte con la sua confessione (dice lui stesso nelle prime battute di essere un attore), una parte per spingere l’interlocutore a confessare gli stessi peccati o peccati peggiori al fine di dividere il peso delle proprie colpe con tutta l’Umanità. Un “falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne”; che non vi sia alcuna forma di reale pentimento o di ricerca di redenzione è chiaro,  “non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e ad usare gli altri. Ammettendo le mie colpe però posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura e poi di un pentimento squisito.”
Nella storia dell’Uomo quindi non c’è via di uscita, tutti chi più o chi meno sono condannati ad essere dei Clamence ed in una società composta da un esercito di Clamence preferisco essere “lo straniero”.

Tana liberi tutti. Storia di una pandemia.

E anche questa quarantena l’abbiamo superata. Sembrava solo ieri che questa ennesima tegola inaspettata ed imprevedibile ci cadeva tra capo e collo ed ora ecco che il peggio è passato. No, scherzo, non c’è mai limite al peggio, non vi lasciate andare a facili entusiasmi e gioie ritrovate, il peggio lo vedremo con il passare del tempo, non disperate.
In ogni caso è terminato il “lockdown”, parola oramai entrata nel gergo collettivo, tradotta come “state chiusi in casa e nessuno si farà male”. Quante volte in due mesi abbiamo sentito la frase “state a casa”? Dal politico berciante alle sentinelle sui social, un solo grido, non LIBERTA’ come in Braveheart, l’opposto, “state a casa”. Ed io ci sono stato, eccome se ci sono stato. Io ho combattuto per il mio paese al meglio, ho contribuito alla nuova rinascita, ho cooperato con le istituzioni, sono diventato un patriota, un partigiano. Come? non facendo assolutamente un cazzo!
Oh, e lo ho fatto al meglio delle mie possibilità, sono una eccellenza nell’arte sopraffina di non fare una ceppa. Il governo non ha fatto altro che rendere legge le mie abitudini di vita e questo mi ha onorato lo ammetto. Me lo immagino un domani, quando racconterò da anziano le mie gesta ai miei nipoti.

– Sapete? vostro zio da giovane ha sconfitto una pandemia
– Oh zio, dicci come, raccontacelo, quali eroiche imprese?
– Sapeste miei cari ragazzi. Ricordo ancora la marcia quotidiana che affrontavo verso la cucina ogni mattino, sfidando le intemperie delle correnti d’aria provenienti dalle finestre aperte, l’alta temperatura delle gorgoglianti acque che ribollivano mentre mi preparavo il tè, le battaglie con la GESTAPO su Facebook che monitorava gli spostamenti di ogni individuo minacciando gavettoni e strali.
– Zio e cosa facevi tutto il giorno dopo queste eroiche missioni?
– Assolutamente un cazzo miei ragazzi. Leggevo, ascoltavo musica, guardavo una marea di film o serie tv e così facendo rendevo grande il mio paese.
– Zio ma narraci di quando hanno dato via libera ai congiunti? hai festeggiato?
– oh ingenua giovinezza, zio se n’è sbattuto la minchia anche in quella occasione, tanto non aveva congiunti e personalmente ritenne una bella mazzata l’aver concesso libertà alle genti.
– Ma zio e poi? ti ricordi del 18 maggio? ci furono acclamazioni per la ritrovata libertà?
– Oh no, la gente semplicemente non sapeva che pesci prendere, qualcuno pensò che tutto era finito, altri capirono che bisognava andarci cauti.
– E quindi “andò tutto bene”? trovaste un mondo nuovo, più bello, diverso?
– Oh no cari fanciulli, il mondo rimase bello solo per due mesi circa, quando l’Uomo limitò la sua presenza, le acque si fecero cristalline, i cieli tersi e regnò la pace, poi ritornò tutto come prima. Questo cosa vi fa capire fanciulli? qual è la lezione? che l’uomo è un?…cancro. Bravissimi e la gente non cambia per una pandemia, non cambia per una guerra mondiale e non cambia per un olocausto (poi vi racconterò cos’è stato). Le persone devono mettere a tacere le loro frustrazioni e la loro mediocrità impegnandosi in battaglie inutili, in chiacchiere senza senso, odiando e concentrandosi in modo negativo sul prossimo ed è proprio per questo che nostro preciso dovere è quello di evitarle.
– E quindi cosa è cambiato?
– Assolutamente una fava, però noi asociali avemmo la nostra vittoria per una volta nella vita.

Monet: Angolo del giardino a Montgeron

La nuova alba

Il sole sorge dietro i monti dalle vette imbiancate da una strana e gelida neve primaverile e ricopre i campi umidi di brina con il suo delicato velo ambrato. Nelle campagne addormentate regna la quiete tra gli immobili alberi di pesco infiocchettati di fiorellini rosa pallido mentre uno stormo di uccelletti appollaiati tra i rami intona un canto melodioso al nuovo giorno. Un uomo imbacuccato e intirizzito dal freddo mattutino esce sul balcone, si guarda intorno mentre stringe nella sua mano la sua tazza fumante. Annusa l’aria fresca del mattino con una espressione di compiacimento; si appoggia alla balaustra del balconcino mentre ascolta il piccolo coro dei pennuti nascosti tra le fronde e distrattamente con la mano accarezza la piantina di geranio rosso, staccandone le foglie secche e accartocciate. Un altro sorso dalla tazza e un altro sguardo al di là della campagna solitaria, verso quelle montagne lontane e azzurrine. Il sole si alza nel cielo e la marea dei suoi raggi investe palazzi, terrazze, strade, ma tutto resta ancora innaturalmente silenzioso. E’ un altro giorno dormiente per il mondo, uno dei tanti di questo periodo; uno di quei giorni sempre uguali che si susseguono, consumati in casa, nelle cucine laboriose e fumanti o sprofondati nei morbidi letti o in comode poltrone mentre fuori la vita, diversa da quella che era, continua a scorrere nella maniera più naturale che esista. Le piogge continuano a lavare le strade deserte e a scorrere in piccoli rigagnoli verso le grate dove cadono in piccole cascate sonanti e gorgoglianti. Le insegne sono spente, i negozi abbandonati, nelle vetrine solo i manichini restano di guardia nella loro immobilità ferma nel tempo, come se qualcuno avesse messo in pausa la vita. I marciapiedi sono desolati e nella zona del mercato, sempre ingombra ed affollata di voci che si sovrappongono e di vita, ora c’è silenzio e si sente solo il rumore della brezza leggera che lascia ondeggiare qualche arbusto. Sul lungomare un tempo affollato dai turisti non si sente più il calpestio di mille suole, di voci o il tintinnare di bicchieri e posate dei ristoranti, ma solo il rumore delle onde che si infrangono contro gli scogli sommergendoli di spuma salmastra; anche le imbarcazioni e i pescherecci sono abbandonati come navi fantasma alla deriva in balia di Poseidone ritornato ad appropriarsi del suo regno. Le piante dei boschi fioriscono, spuntano le gemme e i fiori che emanano profumi intensi sotto un cielo più terso e silenzioso, incuranti del mondo che li circonda. I prati si accendono di un verde più intenso, i corsi d’acqua scorrono più limpidi e musicali e ogni animale, dal merlo corvino al più piccolo bruco, fa timidamente capolino dalla propria tana riconquistandosi quegli spazi naturali che gli erano stati sottratti dall’Uomo. A tutto questo pensa quell’uomo immerso nelle sue fantasticherie sul davanzale, mentre le ore del primo mattino scorrono placidamente e sul fondo della sua tazza resta solo la galleggiante posa raffreddata del tè. Quali mirabili cambiamenti e quanti ricchi e vivi dialoghi si consumano nell’assoluto silenzio della natura. E’ davvero cambiato il mondo? No, forse l’unica differenza è che ora l’Uomo fa meno rumore e ha più tempo per poterne ascoltare la voce.

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L’umanità ritrovata (?)

Mal sopporto e guardo con molta diffidenza questa presunta “umanità ritrovata” che ultimamente si sta sbandierando sui social.
Facciamo i flashmob di ogni tipo per dimostrare vicinanza e cordoglio; intoniamo l’inno italiano sventolando il tricolore, cantiamo, balliamo, facciamo baccano, tutto in nome di un “restare umani”, di un sentirsi popolo. Tutte ipocrisie dettate dal momento. Non esiste questa solidarietà umana, non c’è alcuna verginità ritrovata. Questo assembramento spirituale di facciata è la semplice risposta più banale alla paura. Non ce ne frega nulla dell’altra persona, abbiamo bisogno di sentirci vicini per placare la nostra paura, è solo un’altra manifestazione dell’egoismo umano. L’uomo fin dalla notte dei tempi si riunisce in società più per timore che per amore verso il prossimo. Ovviamente non sto certo dicendo che quanto detto vale nel 100% dei casi, in ogni contesto argomentativo ci sono le dovute eccezioni e nelle eccezioni c’è comunque un margine di relatività. Intendo dire che magari non tutti gli uomini che abitano sulla terra sono egoisti e tra quelli egoisti non tutti sono egoisti al 100%, alcuni lo saranno in percentuali diverse. Insomma, sia chiaro, non ho la presunzione di essere oggettivo (anche perché non conosco i quasi otto miliardi circa di abitanti del pianeta terra e me ne guarderei bene dal farlo). E’ più che naturale avere paura, è inutile perfino dirlo, ma il punto è come reagire alla paura. Il mezzo più facile è quello di creare una illusione confortante; la religione ci ha insegnato che se vuoi combattere la paura devi inventarti Dio e il meccanismo è più o meno quello. Ad oggi combattiamo la paura, una paura alla quale molti non erano abituati e non avevano mai sperimentato, con l’illusione di essere tutti uniti…almeno finché il pericolo resta vivo, perché dopo di ciò ognuno prenderà la sua strada, così come faceva prima. Siamo tutti uniti ma comunque in cuor nostro siamo “sollevati” che la catastrofe sia altrove, come eravamo spensierati quando era solo in Cina o quando la fame e l’ebola decimavano villaggi in Africa. Siamo uniti ma “meglio altrove che qui”, “meglio ad altri che a me” e il bello è che il ragionamento, seppur cinico, è giusto e assolve all’istinto di sopravvivenza. Ci dispiace, certo, ma “meglio a loro che a me”. Certo ho timore per me ma più che altro per la mia famiglia e in subordine per quelle persone che ad oggi combattono in prima linea questo male, ma non riesco a sentirmi più “unito” o più “italiano” di quanto fossi prima. Peso il prossimo con la stessa diffidenza e con la stessa distanza di prima, non mi interessa “abbracciare più forte” per trovare consolazione in un abbraccio momentaneo, non mi interessa cantare l’inno o mettere il tricolore alla finestra (non possiedo nemmeno il tricolore) perché non dimentico per paura cosa dovrebbe voler dire sentirsi popolo.
Si potrebbe dire che questa umanità sia genuina e non dettata in buona parte (notate sempre il mio essere relativo e mai assoluto) dalla paura, che l’Uomo ha capito. Beh, lasciatemi nutrire qualche dubbio e concedetemi una riflessione. Se domani questa epidemia cessasse e come per magia, come la manna dal cielo, calasse su di noi tanto benessere e ricchezza e salute e ogni dono possibile, gli uomini, immersi nella loro opulenza, si sbraccerebbero ancora per dimostrare a tutti i costi la loro “umanità” verso il prossimo?
A questa domanda non può darsi risposta certa e questa incertezza già mi basta come risposta e mi dimostra che il mio dubbio può essere legittimo

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La Passeggiata

Passeggiando lungo la strada acciottolata di via Vodickova, dove i palazzi in stile liberty si illuminano delle luci al neon verdi e dei colori delle insegne dei negozi e dove antico e moderno si fondono in una sola e unica creatura che è la città di Praga, perla adagiata sulle coste della Moldava, si incontra il Kino Svetozor. Sotto una pensilina che dà sul marciapiedi decorato con un mosaico dalle forme geometriche e gremito di passanti, campeggia l’insegna al neon sporca e annerita dal tempo “KINO SVETOZOR” in caratteri rossi e bianchi. Il Kino altro non è che una sala da cinema indipendente, una struttura che sembra essere rimasta ferma al periodo socialista degli anni settanta e ottanta. Entrando nella galleria inglobata all’interno di un imponente palazzone squadrato dal colore scuro ci sono una serie di negozietti, una mensa che un tempo era destinata ai lavoratori del settore industriale e che ora continua ad offrire cibo tipico come attività folcloristica per i turisti ed alcuni altri piccoli esercizi dove è possibile acquistare ogni tipo di stuzzicheria alimentare. Mentre cammino su quel pavimento di mattonelle bianche e usurate dal tempo mi perdo in mille fantasticherie mentre la mia immagine si riflette nelle teche di plexiglass dove sono esposte le locandine dei film in proiezione. Penso a quelle piccole salette cinematografiche pregne di fumo bluastro, alle poltroncine di tessuto bordeaux impregnate dell’odore del tabacco e con segni di bruciature. Sembra di vedere il fascio luminoso che proietta dall’alto le immagini sbiadite sullo schermo bianco; un mondo che oggi non ha nulla a che vedere con la modernità delle grandi sale da cinema ipertecnologiche e super accessoriate. Voglio pensare che questa sala sia rimasta ancora come un tempo, uno degli ultimi baluardi di antichità per i nostalgici avventori. E’ una tarda mattinata d’agosto non eccessivamente calda, la brezza tiepida accarezza le braccia nude e all’interno della galleria coperta si avverte da subito il fresco refrigerio. E’ l’ora in cui l’appetito inizia a farsi sentire, stimolato anche dalla lunga passeggiata mattutina. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, in ogni angolo c’è una tavola calda con la sua insegna al neon o il suo menù dai colori sgargianti che sembra chiamarti per offrirti le sue specialità; c’è un chiosco che offre specialità russe, un altro che offre piatti elaborati di cucina cinese, ma la mia attenzione è rivolta all’ Ovocny, un moderno e luminoso take away che offre spuntini semplici della cucina locale. Mi faccio strada nella ressa, tra i banconi bianchi lucenti e le vetrine stracolme di ogni tipo di pietanza, dal dolce al salato. E’ un tripudio di colori; il bruno della glassa caramellata sulle torte, il rosso acceso dei frutti di bosco e delle fragole che guarniscono invitanti pasticcini, il giallo vivo e caldo delle spremute di frutta e delle creme. Scegliere è una impresa ardua. Opto per i classici chlebicky assortiti e ritiro il mio pacchetto gentilmente preparato da una ragazza biondina e sorridente con un cappellino rosso e una maglietta a mezze maniche bianche. Le ricambio il sorriso come forma di ringraziamento e di saluto e mi incammino per la mia strada. Superata la galleria dalla volta vetrata che la fa somigliare più ad una specie di serra senza arbusti mi trovo in una piccola strettoia all’aperto, sulla mia destra un piccolo negozietto di capi d’abbigliamento alquanto kitsch. La vetrina mi sembra allestita in modo grossolano e confuso e all’interno tutto sembra tacere e i manichini stessi sembrano più inanimati del solito ed avvolti in una penombra di quieta sonnolenza. Ma ad un certo punto mi ritrovo dinanzi ad una grande porta in ferro battuto decorata da illustrazioni in bassorilievo, dinanzi a me si estende la valle dell’Eden, un giardino tranquillo, pieno di colori che luccicano ai raggi del sole caldo. Come attratto dai richiami delle ninfe che popolano quel piccolo polmone verde entro e in punta di piedi, delicatamente come per non disturbare la magia di quel luogo, inizio a passeggiare guardandomi intorno. La maestosa chiesa della Vergine della neve sovrasta l’antico giardino e lo osserva da secoli come un guardiano dalle sue alte ed imponenti finestre. Sembra di aver varcato il portale per un’altra dimensione dove il tempo non esiste più. Tutto intorno sembra risuonare la musica delle danze slave di Dvorak in quel tripudio di colori e sotto ai porticati grondanti rose rosse. Gli archi in ferro battuto laccato di bianco sono adornati di rampicanti e sembrano fantasie pittoriche di Mucha e tutto intorno è un dedalo di squadrate siepi di tasso. Perdersi in quell’isola verde è così sublime che la mente viaggia e immagina, al posto delle figure di uomini e donne adagiati pigramente sulle panchine, danzanti ballerini sui prati verdi e tra gli alberi da frutto o dietro le siepi di piante aromatiche che sprigionano afrori che si disperdono nell’aria come nuvole colorate che affrescano tele di pittori di altre e remote epoche. Uomini con cappelli a cilindro, bastoni da passeggio e folti baffi bianchi si accompagnano a dame dai vestiti pomposi e sgargianti dando loro il braccio e che diffondono un dolce e fresco profumo floreale. Sorridono gioviali e passano oltre. Una distesa di alberi come soldati schierati fianco a fianco coprono la vista dei palazzi circostanti come voler preservare quel luogo sacro dove vige il dominio della natura e delle sue creature dai molteplici colori. Attraverso gli alberi dai frutti rossi e maturi si imbocca il sentiero che conduce all’uscita. Altri pochi metri nel labirinto verde e ritorna la coscienza del tempo presente; un tram che sferraglia sulle rotaie, una macchina ferma in sosta, i soliti negozi dalle insegne al neon. Si ritorna ahimè alla vita.

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Epistole all’amata

                                                                                                                                                                                 Ducato di Napoli
                                                                                                                                                                                 A.D. X.III.MMXX

Mia diletta oltre frontiera, ti scrivo questa lettera poiché terribili ombre incombono sui nostri cuori in queste dannate ore. La nostra Illustrissima Signoria ha proclamato il suo editto, il mortifero morbo che da Oriente, sulla via della seta, si è insinuato nei nostri regni sta mettendo a dura prova i villaggi del nord e sta insediando le campagne del sud. Alcuni sono sgomenti e combattono il terrore di queste ore battendosi il petto e affidando l’anima al Padre Celeste, altri, incauti e sciagurati, per lo più progenie novella, girano pei borghi inebriandosi di vino e perdendosi nella lussuria e nel vizio. I più saggi e avveduti hanno scelto di confinarsi nelle proprie magioni e lì di attendere il passare di queste funeste ore dedicandosi alla lettura di antichi volumi o meditando a fondo. In queste ore disperate e di solitudine solo tu mia diletta mi sovvieni nel pensiero e ricordo quando io e te si andava per gli antichi borghi inebriandoci dei nostri baci e del nostro amore giammai perduto o dimentico. Ora quei baci sono svaniti e resta lo sbiadito ricordo delle tue labbra rosse come bacche di agrifoglio. Un invisibile muro separa le nostre contee nelle quali tutti sembrano subire anche l’altro morbo, quello della pazzia. E’ notizia recente che nottetempo alcuni villici del luogo muniti di torce hanno assaltato le botteghe della zona per depredarle dei generi alimentari. La paura della carestia, oltre che della presente pestilenza, si fa strada nelle loro piccole menti avvizzite e così sottraggono pane, farina, frutti e bestiame da macellare nelle loro capanne. Sono omuncoli che non sono consci del periglio che corrono spostandosi in spregio dell’editto proclamato e li vedi vagare come in preda alla confusione, dimentichi di se stessi, chiedere se botteghe sono aperte, se possono vagare di podere in podere, se possono spostarsi di contea in contea o se possono recarsi presso i luoghi in cui si amministra giustizia e altri mestieri. Scimmie, selvaggi, perdiana! Colpa di queste genti se il morbo si diffonde senza sosta e impegna dottori e stregoni fino allo stremo delle loro forze. Ma noi, mia dilettissima, dobbiamo affrancarci da questa bassa e stolta umanità, dobbiamo coltivare il nostro spirito più che mai. Non potremo vederci chissà per quanto ancora ma potremo nutrire il nostro sentimento attraverso le epistole, confortarci, tenderci una mano e confidarci in queste lunghe giornate avvolte nella nebbia. Non più intime passeggiate pei boschi e per botteghe, ma i libri saranno i nostri generi di conforto; cammineremo attraverso la Sennaja dandoci il braccio, giaceremo al caldo del camino in una rustica magione di Hemso, godremo dello spettacolo dei tetti di Parigi che si estendono dinanzi a noi a perdita d’occhio o passeggeremo sotto il fresco fogliame di un selvatico bosco sotto i raggi caldi di un bel sole primaverile, inebriati dai profumi dei fiori e ascoltando la musica delle api sciamanti.
Ci coccoleremo nel caldo abbraccio delle sinfonie che innalzeranno il nostro spirito e ci conforteranno nei momenti più disperati. Vivremo dei frutti dolci della nostra fantasia stimolata dall’arte, giacchè in questi tempi funesti l’unica cosa che possiamo fare è cercare la bellezza in ogni sua forma per non cadere negli oscuri abissi della disperazione; la bellezza fortificherà il nostro fisico e il nostro spirito, sarà l’ambrosia di cui ci nutriremo nel tempo a venire. Dobbiamo farci tanto coraggio mia amata e attendere che questo periodo di incertezze e di timori cessi per riportarci ad una nuova rinascita. Pensa quando tutto questo sarà passato e sarà solo un lontano e cupo ricordo, che immensa gioia. Saremo come affamati dinanzi ad una tavola imbandita, pensiamo a quel momento e priviamoci oggi per mangiare con più voluttà domani.
Potremo riabbracciarci ancora, scambiarci le più dolci effusioni amorose senza timore di morbi; le genti usciranno di casa con il cuore sollevato e non gravido di tenebra, sorrideranno, si recheranno ai loro affari con più spirito e tenacia di prima. Le locande si riempiranno e scorrerà vino in quantità e gli avventori si ubriacheranno felici e canteranno stornelli e melodie. Ci sarà fratellanza tra le genti, nuove amicizie nasceranno e quelle vecchie si consolideranno; le famiglie si riuniranno sotto lo stesso tetto e trionferà ovunque l’amore. Ah mia amatissima, immagino già le grandi feste che si celebreranno quando tutto sarà finito e la paura sarà svanita. Quelli che avranno scampato la pestilenza saranno grati di essere vivi e si sentiranno fortunati e innalzeranno lodi al cielo e non danneranno la propria esistenza o quella dei lor’ congiunti.
Dobbiamo riempire il cuore di queste visioni dolci e tener viva dentro di noi la fiammella flebile della speranza e pazientare ancora. Siamo messi alla prova in una epoca oscura di decadimento morale. Ora è il tempo del sacrificio ma ritorneremo a brillare e a ricostruire sulle macerie di un passato oramai vecchio, consunto e superato. Saremo l’alba di una nuova epoca.
Ti bacio le mani con ardore mia amata.
Tuo servo fedelissimo.

Station

Il treno

“Treno in transito, allontanarsi dalla linea gialla”, il vento inizia ad soffiare e comincia a sentirsi il ruggito metallico delle carrozze che stanno per sopraggiungere. Ascolto quella voce inumana, fredda e robotica che scandisce quell’avviso e prudentemente arretro di qualche passo mentre il treno mi scorre velocemente davanti rallentando la sua corsa e offrendomi lo spettacolo delle sagome sfocate che fanno capolino dalle finestre opache per il sudiciume. Il clangore di una sirena e lo sbuffo delle porte che si aprono vomitando gente che come una colonia di ratti si espande velocemente in ogni direzione. Tra spintoni e pressioni riesco a ritagliarmi un varco e sono dentro; mi manca il respiro per l’afa e il lezzo che albergano in quella scatola di latta troppo stretta e infarcita. Mi guardo intorno, sento il ciarlare misto di mille voci che si accavallano, discorsi spezzettati che si mischiano con altri, un minestrone di argomenti di cui non riesco a seguire il filo logico. Ci rinuncio. Ficco la mano nella tasca destra del cappotto e ne traggo un libriccino, provo a leggere qualche riga, cerco di estraniarmi da quel mondo che mi opprime ma faccio una immane fatica a restare concentrato su quelle righe; il chiasso delle voci e lo stridore metallico delle ruote sui binari mi riportano continuamente alla realtà. Ad ogni stazione si recita sempre lo stesso copione: voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e gente vomitata e fagocitata. Poco a poco, mentre il treno prosegue la sua corsa lungo il serpentone metallico che passa da una galleria ad un’altra le persone al suo interno iniziano a diminuire, l’aria si fa più respirabile e fresca, ti scompiglia i capelli, ti colpisce in pieno viso e ti risveglia; il chiacchiericcio si fa più sommesso, gli agglomerati di persone iniziano ad apparire come piccole isolette di un arcipelago più che ad una distesa continentale. Ora riesco a rilassarmi, il mio corpo che prima era rigido ed in tensione ora comincia a sciogliersi; scorgo un posto lasciato vuoto, mi avvicino, mi seggo e riprendo in mano il mio libriccino fiducioso di riuscire finalmente ad immergermi nella lettura, abbozzo un mezzo sorriso di vittorioso compiacimento. Non faccio in tempo a posare lo sguardo sulla pagina che i miei occhi vengono distratti da altro. Dinanzi a me siede una ragazza, anch’essa con un libro poggiato sulle gambe strette e con una espressione sognante di beatitudine. Sembra non essere lì, sicuramente con lo spirito è altrove, vaga libera e leggera tra le pagine del suo libro giocando con le parole, rincorrendo costrutti e descrizioni fiabesche. E’ un raggio di luce che squarcia la tetra quotidianità, è bellezza nella sua accezione più pura e semplice ed è proprio la sua semplicità in un mondo così complicato che la rende così bella. Continuo ad osservarla mentre lei è tutta presa dalla lettura. Ha dei capelli color miele raccolti in una lunga treccia poggiata sulla spalla, un basco rosso che le pende sul lato sinistro, lo sguardo basso e curioso che sembra diffondere luce sotto le lunghe ciglia brune. Le sue labbra carnose e rosa si muovono di tanto in tanto come se bisbigliassero qualcosa di segreto che solo noi due possiamo intendere, sorridono a tratti per poi ritornare serie. Le sue mani sono poggiate delicatamente sulle pagine del libro, mani con dita affusolate dalle unghie rosee e lucide che sembrano accarezzare amorevolmente quello scrigno di parole. Sono completamente rapito da quella figura tanto da rimanere lì a fissarla, imbambolato e con il mio libro aperto ma orfano del suo lettore. Sembra essere sparita ogni persona in quel treno, sembra regnare il completo silenzio, non esiste più il tempo né lo spazio e fluttuiamo morbidamente come in una navicella spaziale. Non esiste che lei, il pallido astro venuto ad illuminare questa che era una sera come tante nella mia vita da triste pendolare.
Ad un tratto, come se avesse sentito il mio richiamo telepatico o come se avesse letto semplicemente i miei pensieri, distoglie lo sguardo dalle pagine bianche e lancia una occhiata nella mia direzione, proprio davanti a sé. Quella frazione di secondo sembra durare una eternità, mi sembra di vedere al rallentatore i suoi occhi che puntano verso di me e le sue ciglia che si distendono come le piume della coda di un pavone. Colgo la scintilla di luce nei suoi occhi verdi, per un breve attimo i suoi occhi si tuffano nei miei e gli sguardi si mescolano; accenna un sorriso di cortesia, quasi imbarazzato, come se tra i tanti avventori di quella carrozza avesse riconosciuto in me un’anima affine. La sua bellezza mi mette in soggezione e restituisco il sorriso senza emettere una sillaba; cosa potrei dirle, ogni frase sarebbe banale e rischierebbe di rompere quell’incantesimo. Il treno prosegue la sua veloce corsa, troppo veloce per me, perché non rallenta e mi lascia assaporare con delizia e beatitudine questi momenti? La mia musa ripone il libro in una piccola borsa di tessuto nero, con le mani si risistema la gonna sulle ginocchia e si alza in piedi. Capisco subito che sta per accadere, la prossima fermata è vicina e tra poco tutto sarà finito e ripiomberò nella grigia realtà di ogni sera. Vorrei alzarmi di scatto e prenderla per la mano, vorrei invitarla a restare ancora un po’ e poi ancora un altro po’, anche senza parlare, solo stare così come in questi minuti di viaggio trascorsi. Vorrei dirle tutto d’un fiato quello che ho pensato fino ad ora guardandola, le riverserei addosso un mare di chiacchiere, le chiederei un recapito o se prende spesso questo treno o se le andrebbe di bere un caffè un giorno di questi, tutto pur di non perdere una tale rarità.
Voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e lei che si incammina verso l’uscita. Per un secondo si volta verso la mia direzione e mi sorride ancora, come se avesse di nuovo letto tutti i miei pensieri, come se con quell’espressione mi dicesse “so cosa pensi, ho capito tutto”, come se mi dicesse addio. Sorrido amaramente per la seconda volta, poi le porte si chiudono, ritorno nel grigiore della mia carrozza, seguo la sua sagoma sfocata dal vetro lercio e opaco che si allontana per sparire dalla mia vista per sempre. Avrei potuto dire, avrei potuto fare, ma forse è stato giusto così. Come una cometa è apparsa nel firmamento della mia vita e come una cometa è andata via in un attimo lasciando una lieve scia luminosa che si dissolve nel cielo ed è subito di nuovo oscurità. Si può amare anche solo il tempo di un battito di ciglia.

o.231467

Il Gioco

E’ l’alba di un nuovo giorno. Il pulviscolo danza nella luce dei raggi solari che filtrano tra le persiane abbassate, una cappa di afa mi si appiccica addosso come una pellicola umidiccia. Sono intontito come ad ogni risveglio, resto immobile incatenato al materasso rovente mentre gli occhi mi roteano nelle orbite fissando le effigi spettrali che mi circondano nella penombra della stanza. I pensieri sono confusi, annodati come i miei capelli arruffati sul cuscino e si mescolano con gli ultimi scampoli delle visioni oniriche ed immaginifiche che sfumano e si dissolvono nell’aria soffocante. Tutto è confusione.
Piano piano la nebbia del sonno si dirada, la mente diventa più lucida, sento il corpo intorpidito che riprende coscienza di se stesso; ho un corpo…
Che ore saranno? allungo la mano che in maniera cieca cerca la sveglia sulla mensola in alto, sopra la mia testa; le sette del mattino, di già.
Anche stanotte ho combattuto; contro i sogni, contro i pensieri, contro me stesso. Tutto intorno è il solito caos di sempre, di chi non trova pace nemmeno nel sonno;il lenzuolo è aggrovigliato ai piedi del letto e penzola sul pavimento, un cuscino è in bilico sul bordo come un equilibrista sulla sua corda, tutto è precario, sospeso nel vuoto, dentro e fuori allo stesso tempo. Mi alzo e mi appoggio contro la spalliera del letto, boccheggio con il petto nudo imperlato di sudore e il contatto del ferro fresco contro la schiena umida mi dà un brivido. Sono sveglio ora, resto a fissare le piccole particelle di polvere che danzano nell’aria e intanto rimetto insieme i pezzi. Devo pensare e ricordarmi cosa è accaduto il giorno prima, devo ricordarmi chi sono, cosa sono e cosa mi ha fatto diventare quello che si sveglia ogni mattina in questo letto. Sì ecco, ora poco a poco inizio a ricordare, il sonno può essere il più forte degli anestetici, peccato duri troppo poco…
Mi alzo barcollando e zigzagando tra le macerie che giacciono sul pavimento; bottiglie, scarpe, libri; è tutto disordinato e senza nesso logico come la vita che conduco. Mi reco verso la scrivania come ogni mattina, apro il cassetto e lì dentro, riposto in un drappo rosso e logoro c’è il mio “oracolo”, una Smith & Wesson mod. 64-2 calibro 38 special con un solo colpo nel tamburo. La impugno saldamente, con la mano sinistra faccio ruotare rapidamente il tamburo che scorre rapido e ticchettante come una roulette; il silenzio della camera viene infranto dal suono dell’ingranaggio metallico, poi si ferma, tutto tace ancora una volta. E’ il momento di puntare la posta, mi gioco tutto ogni dannato giorno, ancora e ancora. Tutto dipende da questo giro di roulette; vincerò un altro giorno? godrò del lusso di altre ventiquattro ore di esistenza? ventiquattro ore in cui le combinazioni di eventi sono infinite, sono solo ventiquattro ore ma possono valere una vita intera. Uscirò di qui con la felicità del vincitore che ha sbancato al casinò, pronto ad afferrare qualsiasi possibilità mi si pari innanzi; diventerò magari ricco, incontrerò la donna della mia vita, troverò qualcosa per cui essere grato e felice, chissà quante cose possono accadere in sole ventiquattro ore. Oppure posso perdere tutto proprio ora. Se la fortuna dovesse essere a me avversa proprio oggi perderei tutto in un attimo, un boato e poi il buio eterno. Ma questa cosa è necessaria, devo meritarmele queste ventiquattro ore, non posso riceverle come se mi fossero semplicemente dovute, quante persone lì fuori le accettano senza chiedersi nulla, come se fosse un loro diritto acquisito e finiscono poi per sprecarle, nulla mi è dovuto! Quando qualcosa ti viene elargita con estrema magnanimità diventa una abitudine scontata, un qualcosa a cui non dai più valore, la tua vita non vale niente se non la vinci e se non metti sul tavolo la possibilità di perderla ogni giorno. Se ogni mattina al mio risveglio qualcuno mi donasse una banconota da cinquecento euro probabilmente a lungo andare quel denaro perderebbe per me il suo valore, lo sprecherei conscio che ogni giorno ne avrei del nuovo senza dover far nulla per meritarmelo. E mi darebbe piacere o gioia tutto questo? Forse per i primi tempi ma poi, passata la novità, tutto diventerebbe norma, apatia, noia.
Per questo è necessario che io lo faccia, che ogni mattina io impugni quest’arma e mi affidi alla dea bendata giocando; o tutto o niente, o gratitudine o morte.
Porto la pistola alla tempia, strizzo gli occhi, l’acciaio della canna è freddo e sento tutto il peso della scelta che grava nella mia mano, questa pistola sembra pesare sempre di più ad ogni secondo che passa. Il cane è alzato, il dito indice accarezza con delicatezza l’acciaio cromato del grilletto e indugia. E’ giunto il momento, “rien ne va plus”, l’indice preme deciso sul grilletto –“click” –.
Il banco vince, mi sono guadagnato la mia esistenza…anche oggi.

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Sui Valori assoluti e la loro fallace applicazione empirica.

Nella vita di tutti i giorni spesso usiamo con facilità dei termini diventati di uso comune che proprio per il fatto di essere diventati tali si sono svuotati un po’ del loro intrinseco valore; tanto che oramai non ci chiediamo più cosa significano in concreto.
Mi spiego meglio. Quante volte sentiamo dire: “Io amo Tizio (o un’altra determinata cosa o persona)” oppure “non trovo giusto che…” o ancora “non è giusto”. Queste preposizioni implicano alcuni concetti fondamentali come l’AMORE e la GIUSTIZIA, due tra i più grandi valori della vita. Ma in sé, cosa sono Amore e Giustizia? che significato e che valore hanno?

Passiamo una vita a dire di amare qualcuno o qualcosa e passiamo la stessa vita a cambiare idea a riguardo, questo dovrebbe portarci a pensare che l’Amore lo interpretiamo come un qualcosa di soggettivo, mutevole nel tempo e nello spazio. Anche per ciò che concerne la Giustizia, la frase “non trovo giusto”, che spesso viene pronunciata, implica che qualcosa non appare “giusto” PER NOI, ciò implica a sua volta che abbiamo un concetto di Giustizia molto soggettivo, capace di mutar forma nel tempo e nello spazio. Anche se consideriamo l’idea di Giustizia “istituzionale”, questa non è mai assoluta, ma cambia nel tempo, al mutare della società e cambia nello spazio. Ciò che era considerato “giusto” dall’apparato statale nel 1800 non è considerato parimenti “giusto” nel 2020 e ciò che nel 2020 è considerato “giusto” in Italia, può non essere considerato tale in Indonesia.

Tali grandi valori menzionati sono poi veicolati da noi esseri umani che in quanto tali non abbiamo il dono della perfezione, pertanto, questi concetti metafisici e “ideali” si incarnano nella forma fisica umana e si traducono in realtà empirica, in esperienza.
Ma questo passaggio dal mondo delle idee al mondo fisico e concreto non è poco traumatizzante. Questo parto ha un suo travaglio e genera il suo figlio imperfetto. Diventando carne il concetto perde la sua purezza e diviene imperfetto come l’uomo.
L’Amore in sé è un concetto metafisico perfetto, il vero Amore può appartenere solo a qualcosa di assoluto e perfetto. Non a caso la teologia attribuisce questo valore a Dio (1^ lettera di Giovanni cap. 4), questi è l’unico essere perfetto in grado di provare il concetto puro e perfetto di Amore. Ma se “Dio è Amore”, l’uomo come può, nella sua imperfezione, essere Amore? “Aut – Aut”; o l’uomo è Dio o l’uomo non può sperimentare il concetto puro di Amore. Escludendo che l’uomo sia Dio (se consideriamo Dio come un parametro di perfezione, al di là della fede e del concetto religioso di divinità), dobbiamo giungere alla conclusione che l’uomo non prova Amore ma è un mero interprete di un concetto assoluto di cui non potrà mai essere portatore. Parimenti il discorso può farsi riguardo la Giustizia. Se questa è un valore assoluto che può appartenere solo ad un essere perfetto, ed anche qui la teologia lo attribuisce a Dio quale simbolo della “perfetta giustizia” (Giobbe, 37:23), noi non siamo che meri e fallaci interpreti che non possono conoscere la vera Giustizia, ma solo una sua soggettiva e parziale teorizzazione e applicazione.
Per queste ragioni l’uomo non può sperare in una esperienza totalizzante che gli sarà sempre preclusa malgrado i suoi vani sforzi. I valori assoluti non ci potranno mai appartenere e le uniche armi da affinare per combattere questo dissidio e questa nebbia che ci avvolge sono la consapevolezza e l’accettazione.

Le coppie, quelle BELLISSIME…

Oggi tratteremo un argomento di grandissima importanza e attualità: le “coppie bellissime” sui social.
Premessa obbligatoria: sui social non esistono coppie brutte e non esistono coppie medie, tutte le coppie sono categoricamente BELLISSIME, nemmeno semplicemente belle, no, BELLISSIME.
Questo è almeno quello che risulta pubblicamente sull’autostrada di bit della rete, perchè poi nel privato sappiamo che è un altro paio di maniche e sovente, quando non si è connessi, si sentono frasi del tipo: “ma hai visto con che cesso si è fidanzata Ermenegilda?” oppure “ma hai visto quel boiler della fidanzata di Ubaldo?”.
Ora non nego che ci siano coppie belle (e il fatto che non abbia usato il superlativo assoluto già è notevole), ma possibile che lo siano tutte? e possibile che l’individuo X ogni volta che si accoppia con un individuo Y diverso generi sempre una coppia “bellissima”?
Avete mai sentito dire: “Beh Vilfredo, quando ti accompagnavi con Ermelinda eravate una coppia bellissima, ora che stai con Lucilla siete solo belli/non ci azzeccate un cazzo.”. No mai. Vilfredo + Ermelinda = bellissimi come Vilfredo + Lucilla = bellissimi. Allora qual è il segreto? fosse che è Vilfredo l’astro lucente che irradia bellezza? Certo che no, è solo che (quasi) nessuno si sognerebbe di dire una cosa del genere. Questo mio discorso risulta già paradossale se ci riferiamo ad individui medi, diventa poi del tutto una presa per il culo spudorata quando il solito “bellissimi” compare come commento sotto foto di individui di improponibile bellezza; roba del tipo: “ok non sono bello io ma con te la natura ha creato una opera d’arte moderna”.
Ma come vi viene? io capisco l’affetto, la stima e anche l’ipocrisia…ma non così, non a questi livelli.
“Teso sei bellissimaaaa!!11!!”, “ma no sei tu ad essere bellissimaaaa!!111!!” (con tono di scherno, di falsa modestia e di totale mancanza di obiettività), quella roba da fiera dell’ipocrisia…che in quel caso, dato le bestie protagoniste, sembra più un circo che una fiera.
Ci deve essere una strana combinazione di tasti sulla mappa caratteri di windows che se premuti contemporaneamente generano il commento “bellissimi” o non si spiega come sia possibile che cambiano le coppie ma il risultato sia sempre lo stesso. A cosa ci si riferisce con il termine “bellissimi”? ad un concetto intrinseco e metafisico di coppia che trascende l’apparenza estetica? o si riferisce alla combinazione estetica di due individui?
Nel primo caso…che cazzo ne sai? da una foto riesci a capire che quelle due persone siano una perfetta combinazione di caratteri e personalità affini al punto tale da generare bellezza? Gente in analisi da 10 anni non riuscirebbe a dirlo di se stesso, mo arrivi tu su FB, laureato all’università della strada…
Allora forse è riferito alla forma estetica? in tal caso possiamo essere bellissimi presi singolarmente (ma facciamo i modesti su…) e invece no, quel commento spunta solo sotto le foto di coppia. Allora forse vuoi dire che siamo una bellissima unione di stili “estetici”? beh allora devo avere culo perchè sono bellissimo con tutti, pure se cambio totalmente persona e stile riesco sempre a generare una coppia bellissima.
“Bellissimi tu e Ilenia”. Ilenia: stangona da un metro e ottanta, capelli lunghi color miele, fisico statuario, culo di marmo e due tette perfette come la sezione aurea.
“Bellissimi tu e Ilaria”. Ilaria: damigiana da 52 litri di gragnano andato in aceto (stessa altezza e larghezza) baffi e basette nero corvino, pelle a buccia d’arancia (peccato sia sul viso però) e sguardo vitreo.

Cioè, fammi capire, in entrambi i casi siamo “bellissimi”? Mi stai palesemente perculando, non sempre si può essere una bellissima coppia. In certi casi, se proprio non riusciamo ad essere onesti, almeno conserviamo il buon gusto di tacere.

P.s. Chi mi commenta “bellissimi” lo blocco… 😛