Monet: Angolo del giardino a Montgeron

La nuova alba

Il sole sorge dietro i monti dalle vette imbiancate da una strana e gelida neve primaverile e ricopre i campi umidi di brina con il suo delicato velo ambrato. Nelle campagne addormentate regna la quiete tra gli immobili alberi di pesco infiocchettati di fiorellini rosa pallido mentre uno stormo di uccelletti appollaiati tra i rami intona un canto melodioso al nuovo giorno. Un uomo imbacuccato e intirizzito dal freddo mattutino esce sul balcone, si guarda intorno mentre stringe nella sua mano la sua tazza fumante. Annusa l’aria fresca del mattino con una espressione di compiacimento; si appoggia alla balaustra del balconcino mentre ascolta il piccolo coro dei pennuti nascosti tra le fronde e distrattamente con la mano accarezza la piantina di geranio rosso, staccandone le foglie secche e accartocciate. Un altro sorso dalla tazza e un altro sguardo al di là della campagna solitaria, verso quelle montagne lontane e azzurrine. Il sole si alza nel cielo e la marea dei suoi raggi investe palazzi, terrazze, strade, ma tutto resta ancora innaturalmente silenzioso. E’ un altro giorno dormiente per il mondo, uno dei tanti di questo periodo; uno di quei giorni sempre uguali che si susseguono, consumati in casa, nelle cucine laboriose e fumanti o sprofondati nei morbidi letti o in comode poltrone mentre fuori la vita, diversa da quella che era, continua a scorrere nella maniera più naturale che esista. Le piogge continuano a lavare le strade deserte e a scorrere in piccoli rigagnoli verso le grate dove cadono in piccole cascate sonanti e gorgoglianti. Le insegne sono spente, i negozi abbandonati, nelle vetrine solo i manichini restano di guardia nella loro immobilità ferma nel tempo, come se qualcuno avesse messo in pausa la vita. I marciapiedi sono desolati e nella zona del mercato, sempre ingombra ed affollata di voci che si sovrappongono e di vita, ora c’è silenzio e si sente solo il rumore della brezza leggera che lascia ondeggiare qualche arbusto. Sul lungomare un tempo affollato dai turisti non si sente più il calpestio di mille suole, di voci o il tintinnare di bicchieri e posate dei ristoranti, ma solo il rumore delle onde che si infrangono contro gli scogli sommergendoli di spuma salmastra; anche le imbarcazioni e i pescherecci sono abbandonati come navi fantasma alla deriva in balia di Poseidone ritornato ad appropriarsi del suo regno. Le piante dei boschi fioriscono, spuntano le gemme e i fiori che emanano profumi intensi sotto un cielo più terso e silenzioso, incuranti del mondo che li circonda. I prati si accendono di un verde più intenso, i corsi d’acqua scorrono più limpidi e musicali e ogni animale, dal merlo corvino al più piccolo bruco, fa timidamente capolino dalla propria tana riconquistandosi quegli spazi naturali che gli erano stati sottratti dall’Uomo. A tutto questo pensa quell’uomo immerso nelle sue fantasticherie sul davanzale, mentre le ore del primo mattino scorrono placidamente e sul fondo della sua tazza resta solo la galleggiante posa raffreddata del tè. Quali mirabili cambiamenti e quanti ricchi e vivi dialoghi si consumano nell’assoluto silenzio della natura. E’ davvero cambiato il mondo? No, forse l’unica differenza è che ora l’Uomo fa meno rumore e ha più tempo per poterne ascoltare la voce.

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La Passeggiata

Passeggiando lungo la strada acciottolata di via Vodickova, dove i palazzi in stile liberty si illuminano delle luci al neon verdi e dei colori delle insegne dei negozi e dove antico e moderno si fondono in una sola e unica creatura che è la città di Praga, perla adagiata sulle coste della Moldava, si incontra il Kino Svetozor. Sotto una pensilina che dà sul marciapiedi decorato con un mosaico dalle forme geometriche e gremito di passanti, campeggia l’insegna al neon sporca e annerita dal tempo “KINO SVETOZOR” in caratteri rossi e bianchi. Il Kino altro non è che una sala da cinema indipendente, una struttura che sembra essere rimasta ferma al periodo socialista degli anni settanta e ottanta. Entrando nella galleria inglobata all’interno di un imponente palazzone squadrato dal colore scuro ci sono una serie di negozietti, una mensa che un tempo era destinata ai lavoratori del settore industriale e che ora continua ad offrire cibo tipico come attività folcloristica per i turisti ed alcuni altri piccoli esercizi dove è possibile acquistare ogni tipo di stuzzicheria alimentare. Mentre cammino su quel pavimento di mattonelle bianche e usurate dal tempo mi perdo in mille fantasticherie mentre la mia immagine si riflette nelle teche di plexiglass dove sono esposte le locandine dei film in proiezione. Penso a quelle piccole salette cinematografiche pregne di fumo bluastro, alle poltroncine di tessuto bordeaux impregnate dell’odore del tabacco e con segni di bruciature. Sembra di vedere il fascio luminoso che proietta dall’alto le immagini sbiadite sullo schermo bianco; un mondo che oggi non ha nulla a che vedere con la modernità delle grandi sale da cinema ipertecnologiche e super accessoriate. Voglio pensare che questa sala sia rimasta ancora come un tempo, uno degli ultimi baluardi di antichità per i nostalgici avventori. E’ una tarda mattinata d’agosto non eccessivamente calda, la brezza tiepida accarezza le braccia nude e all’interno della galleria coperta si avverte da subito il fresco refrigerio. E’ l’ora in cui l’appetito inizia a farsi sentire, stimolato anche dalla lunga passeggiata mattutina. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, in ogni angolo c’è una tavola calda con la sua insegna al neon o il suo menù dai colori sgargianti che sembra chiamarti per offrirti le sue specialità; c’è un chiosco che offre specialità russe, un altro che offre piatti elaborati di cucina cinese, ma la mia attenzione è rivolta all’ Ovocny, un moderno e luminoso take away che offre spuntini semplici della cucina locale. Mi faccio strada nella ressa, tra i banconi bianchi lucenti e le vetrine stracolme di ogni tipo di pietanza, dal dolce al salato. E’ un tripudio di colori; il bruno della glassa caramellata sulle torte, il rosso acceso dei frutti di bosco e delle fragole che guarniscono invitanti pasticcini, il giallo vivo e caldo delle spremute di frutta e delle creme. Scegliere è una impresa ardua. Opto per i classici chlebicky assortiti e ritiro il mio pacchetto gentilmente preparato da una ragazza biondina e sorridente con un cappellino rosso e una maglietta a mezze maniche bianche. Le ricambio il sorriso come forma di ringraziamento e di saluto e mi incammino per la mia strada. Superata la galleria dalla volta vetrata che la fa somigliare più ad una specie di serra senza arbusti mi trovo in una piccola strettoia all’aperto, sulla mia destra un piccolo negozietto di capi d’abbigliamento alquanto kitsch. La vetrina mi sembra allestita in modo grossolano e confuso e all’interno tutto sembra tacere e i manichini stessi sembrano più inanimati del solito ed avvolti in una penombra di quieta sonnolenza. Ma ad un certo punto mi ritrovo dinanzi ad una grande porta in ferro battuto decorata da illustrazioni in bassorilievo, dinanzi a me si estende la valle dell’Eden, un giardino tranquillo, pieno di colori che luccicano ai raggi del sole caldo. Come attratto dai richiami delle ninfe che popolano quel piccolo polmone verde entro e in punta di piedi, delicatamente come per non disturbare la magia di quel luogo, inizio a passeggiare guardandomi intorno. La maestosa chiesa della Vergine della neve sovrasta l’antico giardino e lo osserva da secoli come un guardiano dalle sue alte ed imponenti finestre. Sembra di aver varcato il portale per un’altra dimensione dove il tempo non esiste più. Tutto intorno sembra risuonare la musica delle danze slave di Dvorak in quel tripudio di colori e sotto ai porticati grondanti rose rosse. Gli archi in ferro battuto laccato di bianco sono adornati di rampicanti e sembrano fantasie pittoriche di Mucha e tutto intorno è un dedalo di squadrate siepi di tasso. Perdersi in quell’isola verde è così sublime che la mente viaggia e immagina, al posto delle figure di uomini e donne adagiati pigramente sulle panchine, danzanti ballerini sui prati verdi e tra gli alberi da frutto o dietro le siepi di piante aromatiche che sprigionano afrori che si disperdono nell’aria come nuvole colorate che affrescano tele di pittori di altre e remote epoche. Uomini con cappelli a cilindro, bastoni da passeggio e folti baffi bianchi si accompagnano a dame dai vestiti pomposi e sgargianti dando loro il braccio e che diffondono un dolce e fresco profumo floreale. Sorridono gioviali e passano oltre. Una distesa di alberi come soldati schierati fianco a fianco coprono la vista dei palazzi circostanti come voler preservare quel luogo sacro dove vige il dominio della natura e delle sue creature dai molteplici colori. Attraverso gli alberi dai frutti rossi e maturi si imbocca il sentiero che conduce all’uscita. Altri pochi metri nel labirinto verde e ritorna la coscienza del tempo presente; un tram che sferraglia sulle rotaie, una macchina ferma in sosta, i soliti negozi dalle insegne al neon. Si ritorna ahimè alla vita.

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Epistole all’amata

                                                                                                                                                                                 Ducato di Napoli
                                                                                                                                                                                 A.D. X.III.MMXX

Mia diletta oltre frontiera, ti scrivo questa lettera poiché terribili ombre incombono sui nostri cuori in queste dannate ore. La nostra Illustrissima Signoria ha proclamato il suo editto, il mortifero morbo che da Oriente, sulla via della seta, si è insinuato nei nostri regni sta mettendo a dura prova i villaggi del nord e sta insediando le campagne del sud. Alcuni sono sgomenti e combattono il terrore di queste ore battendosi il petto e affidando l’anima al Padre Celeste, altri, incauti e sciagurati, per lo più progenie novella, girano pei borghi inebriandosi di vino e perdendosi nella lussuria e nel vizio. I più saggi e avveduti hanno scelto di confinarsi nelle proprie magioni e lì di attendere il passare di queste funeste ore dedicandosi alla lettura di antichi volumi o meditando a fondo. In queste ore disperate e di solitudine solo tu mia diletta mi sovvieni nel pensiero e ricordo quando io e te si andava per gli antichi borghi inebriandoci dei nostri baci e del nostro amore giammai perduto o dimentico. Ora quei baci sono svaniti e resta lo sbiadito ricordo delle tue labbra rosse come bacche di agrifoglio. Un invisibile muro separa le nostre contee nelle quali tutti sembrano subire anche l’altro morbo, quello della pazzia. E’ notizia recente che nottetempo alcuni villici del luogo muniti di torce hanno assaltato le botteghe della zona per depredarle dei generi alimentari. La paura della carestia, oltre che della presente pestilenza, si fa strada nelle loro piccole menti avvizzite e così sottraggono pane, farina, frutti e bestiame da macellare nelle loro capanne. Sono omuncoli che non sono consci del periglio che corrono spostandosi in spregio dell’editto proclamato e li vedi vagare come in preda alla confusione, dimentichi di se stessi, chiedere se botteghe sono aperte, se possono vagare di podere in podere, se possono spostarsi di contea in contea o se possono recarsi presso i luoghi in cui si amministra giustizia e altri mestieri. Scimmie, selvaggi, perdiana! Colpa di queste genti se il morbo si diffonde senza sosta e impegna dottori e stregoni fino allo stremo delle loro forze. Ma noi, mia dilettissima, dobbiamo affrancarci da questa bassa e stolta umanità, dobbiamo coltivare il nostro spirito più che mai. Non potremo vederci chissà per quanto ancora ma potremo nutrire il nostro sentimento attraverso le epistole, confortarci, tenderci una mano e confidarci in queste lunghe giornate avvolte nella nebbia. Non più intime passeggiate pei boschi e per botteghe, ma i libri saranno i nostri generi di conforto; cammineremo attraverso la Sennaja dandoci il braccio, giaceremo al caldo del camino in una rustica magione di Hemso, godremo dello spettacolo dei tetti di Parigi che si estendono dinanzi a noi a perdita d’occhio o passeggeremo sotto il fresco fogliame di un selvatico bosco sotto i raggi caldi di un bel sole primaverile, inebriati dai profumi dei fiori e ascoltando la musica delle api sciamanti.
Ci coccoleremo nel caldo abbraccio delle sinfonie che innalzeranno il nostro spirito e ci conforteranno nei momenti più disperati. Vivremo dei frutti dolci della nostra fantasia stimolata dall’arte, giacchè in questi tempi funesti l’unica cosa che possiamo fare è cercare la bellezza in ogni sua forma per non cadere negli oscuri abissi della disperazione; la bellezza fortificherà il nostro fisico e il nostro spirito, sarà l’ambrosia di cui ci nutriremo nel tempo a venire. Dobbiamo farci tanto coraggio mia amata e attendere che questo periodo di incertezze e di timori cessi per riportarci ad una nuova rinascita. Pensa quando tutto questo sarà passato e sarà solo un lontano e cupo ricordo, che immensa gioia. Saremo come affamati dinanzi ad una tavola imbandita, pensiamo a quel momento e priviamoci oggi per mangiare con più voluttà domani.
Potremo riabbracciarci ancora, scambiarci le più dolci effusioni amorose senza timore di morbi; le genti usciranno di casa con il cuore sollevato e non gravido di tenebra, sorrideranno, si recheranno ai loro affari con più spirito e tenacia di prima. Le locande si riempiranno e scorrerà vino in quantità e gli avventori si ubriacheranno felici e canteranno stornelli e melodie. Ci sarà fratellanza tra le genti, nuove amicizie nasceranno e quelle vecchie si consolideranno; le famiglie si riuniranno sotto lo stesso tetto e trionferà ovunque l’amore. Ah mia amatissima, immagino già le grandi feste che si celebreranno quando tutto sarà finito e la paura sarà svanita. Quelli che avranno scampato la pestilenza saranno grati di essere vivi e si sentiranno fortunati e innalzeranno lodi al cielo e non danneranno la propria esistenza o quella dei lor’ congiunti.
Dobbiamo riempire il cuore di queste visioni dolci e tener viva dentro di noi la fiammella flebile della speranza e pazientare ancora. Siamo messi alla prova in una epoca oscura di decadimento morale. Ora è il tempo del sacrificio ma ritorneremo a brillare e a ricostruire sulle macerie di un passato oramai vecchio, consunto e superato. Saremo l’alba di una nuova epoca.
Ti bacio le mani con ardore mia amata.
Tuo servo fedelissimo.

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Il treno

“Treno in transito, allontanarsi dalla linea gialla”, il vento inizia ad soffiare e comincia a sentirsi il ruggito metallico delle carrozze che stanno per sopraggiungere. Ascolto quella voce inumana, fredda e robotica che scandisce quell’avviso e prudentemente arretro di qualche passo mentre il treno mi scorre velocemente davanti rallentando la sua corsa e offrendomi lo spettacolo delle sagome sfocate che fanno capolino dalle finestre opache per il sudiciume. Il clangore di una sirena e lo sbuffo delle porte che si aprono vomitando gente che come una colonia di ratti si espande velocemente in ogni direzione. Tra spintoni e pressioni riesco a ritagliarmi un varco e sono dentro; mi manca il respiro per l’afa e il lezzo che albergano in quella scatola di latta troppo stretta e infarcita. Mi guardo intorno, sento il ciarlare misto di mille voci che si accavallano, discorsi spezzettati che si mischiano con altri, un minestrone di argomenti di cui non riesco a seguire il filo logico. Ci rinuncio. Ficco la mano nella tasca destra del cappotto e ne traggo un libriccino, provo a leggere qualche riga, cerco di estraniarmi da quel mondo che mi opprime ma faccio una immane fatica a restare concentrato su quelle righe; il chiasso delle voci e lo stridore metallico delle ruote sui binari mi riportano continuamente alla realtà. Ad ogni stazione si recita sempre lo stesso copione: voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e gente vomitata e fagocitata. Poco a poco, mentre il treno prosegue la sua corsa lungo il serpentone metallico che passa da una galleria ad un’altra le persone al suo interno iniziano a diminuire, l’aria si fa più respirabile e fresca, ti scompiglia i capelli, ti colpisce in pieno viso e ti risveglia; il chiacchiericcio si fa più sommesso, gli agglomerati di persone iniziano ad apparire come piccole isolette di un arcipelago più che ad una distesa continentale. Ora riesco a rilassarmi, il mio corpo che prima era rigido ed in tensione ora comincia a sciogliersi; scorgo un posto lasciato vuoto, mi avvicino, mi seggo e riprendo in mano il mio libriccino fiducioso di riuscire finalmente ad immergermi nella lettura, abbozzo un mezzo sorriso di vittorioso compiacimento. Non faccio in tempo a posare lo sguardo sulla pagina che i miei occhi vengono distratti da altro. Dinanzi a me siede una ragazza, anch’essa con un libro poggiato sulle gambe strette e con una espressione sognante di beatitudine. Sembra non essere lì, sicuramente con lo spirito è altrove, vaga libera e leggera tra le pagine del suo libro giocando con le parole, rincorrendo costrutti e descrizioni fiabesche. E’ un raggio di luce che squarcia la tetra quotidianità, è bellezza nella sua accezione più pura e semplice ed è proprio la sua semplicità in un mondo così complicato che la rende così bella. Continuo ad osservarla mentre lei è tutta presa dalla lettura. Ha dei capelli color miele raccolti in una lunga treccia poggiata sulla spalla, un basco rosso che le pende sul lato sinistro, lo sguardo basso e curioso che sembra diffondere luce sotto le lunghe ciglia brune. Le sue labbra carnose e rosa si muovono di tanto in tanto come se bisbigliassero qualcosa di segreto che solo noi due possiamo intendere, sorridono a tratti per poi ritornare serie. Le sue mani sono poggiate delicatamente sulle pagine del libro, mani con dita affusolate dalle unghie rosee e lucide che sembrano accarezzare amorevolmente quello scrigno di parole. Sono completamente rapito da quella figura tanto da rimanere lì a fissarla, imbambolato e con il mio libro aperto ma orfano del suo lettore. Sembra essere sparita ogni persona in quel treno, sembra regnare il completo silenzio, non esiste più il tempo né lo spazio e fluttuiamo morbidamente come in una navicella spaziale. Non esiste che lei, il pallido astro venuto ad illuminare questa che era una sera come tante nella mia vita da triste pendolare.
Ad un tratto, come se avesse sentito il mio richiamo telepatico o come se avesse letto semplicemente i miei pensieri, distoglie lo sguardo dalle pagine bianche e lancia una occhiata nella mia direzione, proprio davanti a sé. Quella frazione di secondo sembra durare una eternità, mi sembra di vedere al rallentatore i suoi occhi che puntano verso di me e le sue ciglia che si distendono come le piume della coda di un pavone. Colgo la scintilla di luce nei suoi occhi verdi, per un breve attimo i suoi occhi si tuffano nei miei e gli sguardi si mescolano; accenna un sorriso di cortesia, quasi imbarazzato, come se tra i tanti avventori di quella carrozza avesse riconosciuto in me un’anima affine. La sua bellezza mi mette in soggezione e restituisco il sorriso senza emettere una sillaba; cosa potrei dirle, ogni frase sarebbe banale e rischierebbe di rompere quell’incantesimo. Il treno prosegue la sua veloce corsa, troppo veloce per me, perché non rallenta e mi lascia assaporare con delizia e beatitudine questi momenti? La mia musa ripone il libro in una piccola borsa di tessuto nero, con le mani si risistema la gonna sulle ginocchia e si alza in piedi. Capisco subito che sta per accadere, la prossima fermata è vicina e tra poco tutto sarà finito e ripiomberò nella grigia realtà di ogni sera. Vorrei alzarmi di scatto e prenderla per la mano, vorrei invitarla a restare ancora un po’ e poi ancora un altro po’, anche senza parlare, solo stare così come in questi minuti di viaggio trascorsi. Vorrei dirle tutto d’un fiato quello che ho pensato fino ad ora guardandola, le riverserei addosso un mare di chiacchiere, le chiederei un recapito o se prende spesso questo treno o se le andrebbe di bere un caffè un giorno di questi, tutto pur di non perdere una tale rarità.
Voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e lei che si incammina verso l’uscita. Per un secondo si volta verso la mia direzione e mi sorride ancora, come se avesse di nuovo letto tutti i miei pensieri, come se con quell’espressione mi dicesse “so cosa pensi, ho capito tutto”, come se mi dicesse addio. Sorrido amaramente per la seconda volta, poi le porte si chiudono, ritorno nel grigiore della mia carrozza, seguo la sua sagoma sfocata dal vetro lercio e opaco che si allontana per sparire dalla mia vista per sempre. Avrei potuto dire, avrei potuto fare, ma forse è stato giusto così. Come una cometa è apparsa nel firmamento della mia vita e come una cometa è andata via in un attimo lasciando una lieve scia luminosa che si dissolve nel cielo ed è subito di nuovo oscurità. Si può amare anche solo il tempo di un battito di ciglia.

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Il Gioco

E’ l’alba di un nuovo giorno. Il pulviscolo danza nella luce dei raggi solari che filtrano tra le persiane abbassate, una cappa di afa mi si appiccica addosso come una pellicola umidiccia. Sono intontito come ad ogni risveglio, resto immobile incatenato al materasso rovente mentre gli occhi mi roteano nelle orbite fissando le effigi spettrali che mi circondano nella penombra della stanza. I pensieri sono confusi, annodati come i miei capelli arruffati sul cuscino e si mescolano con gli ultimi scampoli delle visioni oniriche ed immaginifiche che sfumano e si dissolvono nell’aria soffocante. Tutto è confusione.
Piano piano la nebbia del sonno si dirada, la mente diventa più lucida, sento il corpo intorpidito che riprende coscienza di se stesso; ho un corpo…
Che ore saranno? allungo la mano che in maniera cieca cerca la sveglia sulla mensola in alto, sopra la mia testa; le sette del mattino, di già.
Anche stanotte ho combattuto; contro i sogni, contro i pensieri, contro me stesso. Tutto intorno è il solito caos di sempre, di chi non trova pace nemmeno nel sonno;il lenzuolo è aggrovigliato ai piedi del letto e penzola sul pavimento, un cuscino è in bilico sul bordo come un equilibrista sulla sua corda, tutto è precario, sospeso nel vuoto, dentro e fuori allo stesso tempo. Mi alzo e mi appoggio contro la spalliera del letto, boccheggio con il petto nudo imperlato di sudore e il contatto del ferro fresco contro la schiena umida mi dà un brivido. Sono sveglio ora, resto a fissare le piccole particelle di polvere che danzano nell’aria e intanto rimetto insieme i pezzi. Devo pensare e ricordarmi cosa è accaduto il giorno prima, devo ricordarmi chi sono, cosa sono e cosa mi ha fatto diventare quello che si sveglia ogni mattina in questo letto. Sì ecco, ora poco a poco inizio a ricordare, il sonno può essere il più forte degli anestetici, peccato duri troppo poco…
Mi alzo barcollando e zigzagando tra le macerie che giacciono sul pavimento; bottiglie, scarpe, libri; è tutto disordinato e senza nesso logico come la vita che conduco. Mi reco verso la scrivania come ogni mattina, apro il cassetto e lì dentro, riposto in un drappo rosso e logoro c’è il mio “oracolo”, una Smith & Wesson mod. 64-2 calibro 38 special con un solo colpo nel tamburo. La impugno saldamente, con la mano sinistra faccio ruotare rapidamente il tamburo che scorre rapido e ticchettante come una roulette; il silenzio della camera viene infranto dal suono dell’ingranaggio metallico, poi si ferma, tutto tace ancora una volta. E’ il momento di puntare la posta, mi gioco tutto ogni dannato giorno, ancora e ancora. Tutto dipende da questo giro di roulette; vincerò un altro giorno? godrò del lusso di altre ventiquattro ore di esistenza? ventiquattro ore in cui le combinazioni di eventi sono infinite, sono solo ventiquattro ore ma possono valere una vita intera. Uscirò di qui con la felicità del vincitore che ha sbancato al casinò, pronto ad afferrare qualsiasi possibilità mi si pari innanzi; diventerò magari ricco, incontrerò la donna della mia vita, troverò qualcosa per cui essere grato e felice, chissà quante cose possono accadere in sole ventiquattro ore. Oppure posso perdere tutto proprio ora. Se la fortuna dovesse essere a me avversa proprio oggi perderei tutto in un attimo, un boato e poi il buio eterno. Ma questa cosa è necessaria, devo meritarmele queste ventiquattro ore, non posso riceverle come se mi fossero semplicemente dovute, quante persone lì fuori le accettano senza chiedersi nulla, come se fosse un loro diritto acquisito e finiscono poi per sprecarle, nulla mi è dovuto! Quando qualcosa ti viene elargita con estrema magnanimità diventa una abitudine scontata, un qualcosa a cui non dai più valore, la tua vita non vale niente se non la vinci e se non metti sul tavolo la possibilità di perderla ogni giorno. Se ogni mattina al mio risveglio qualcuno mi donasse una banconota da cinquecento euro probabilmente a lungo andare quel denaro perderebbe per me il suo valore, lo sprecherei conscio che ogni giorno ne avrei del nuovo senza dover far nulla per meritarmelo. E mi darebbe piacere o gioia tutto questo? Forse per i primi tempi ma poi, passata la novità, tutto diventerebbe norma, apatia, noia.
Per questo è necessario che io lo faccia, che ogni mattina io impugni quest’arma e mi affidi alla dea bendata giocando; o tutto o niente, o gratitudine o morte.
Porto la pistola alla tempia, strizzo gli occhi, l’acciaio della canna è freddo e sento tutto il peso della scelta che grava nella mia mano, questa pistola sembra pesare sempre di più ad ogni secondo che passa. Il cane è alzato, il dito indice accarezza con delicatezza l’acciaio cromato del grilletto e indugia. E’ giunto il momento, “rien ne va plus”, l’indice preme deciso sul grilletto –“click” –.
Il banco vince, mi sono guadagnato la mia esistenza…anche oggi.

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Sui Valori assoluti e la loro fallace applicazione empirica.

Nella vita di tutti i giorni spesso usiamo con facilità dei termini diventati di uso comune che proprio per il fatto di essere diventati tali si sono svuotati un po’ del loro intrinseco valore; tanto che oramai non ci chiediamo più cosa significano in concreto.
Mi spiego meglio. Quante volte sentiamo dire: “Io amo Tizio (o un’altra determinata cosa o persona)” oppure “non trovo giusto che…” o ancora “non è giusto”. Queste preposizioni implicano alcuni concetti fondamentali come l’AMORE e la GIUSTIZIA, due tra i più grandi valori della vita. Ma in sé, cosa sono Amore e Giustizia? che significato e che valore hanno?

Passiamo una vita a dire di amare qualcuno o qualcosa e passiamo la stessa vita a cambiare idea a riguardo, questo dovrebbe portarci a pensare che l’Amore lo interpretiamo come un qualcosa di soggettivo, mutevole nel tempo e nello spazio. Anche per ciò che concerne la Giustizia, la frase “non trovo giusto”, che spesso viene pronunciata, implica che qualcosa non appare “giusto” PER NOI, ciò implica a sua volta che abbiamo un concetto di Giustizia molto soggettivo, capace di mutar forma nel tempo e nello spazio. Anche se consideriamo l’idea di Giustizia “istituzionale”, questa non è mai assoluta, ma cambia nel tempo, al mutare della società e cambia nello spazio. Ciò che era considerato “giusto” dall’apparato statale nel 1800 non è considerato parimenti “giusto” nel 2020 e ciò che nel 2020 è considerato “giusto” in Italia, può non essere considerato tale in Indonesia.

Tali grandi valori menzionati sono poi veicolati da noi esseri umani che in quanto tali non abbiamo il dono della perfezione, pertanto, questi concetti metafisici e “ideali” si incarnano nella forma fisica umana e si traducono in realtà empirica, in esperienza.
Ma questo passaggio dal mondo delle idee al mondo fisico e concreto non è poco traumatizzante. Questo parto ha un suo travaglio e genera il suo figlio imperfetto. Diventando carne il concetto perde la sua purezza e diviene imperfetto come l’uomo.
L’Amore in sé è un concetto metafisico perfetto, il vero Amore può appartenere solo a qualcosa di assoluto e perfetto. Non a caso la teologia attribuisce questo valore a Dio (1^ lettera di Giovanni cap. 4), questi è l’unico essere perfetto in grado di provare il concetto puro e perfetto di Amore. Ma se “Dio è Amore”, l’uomo come può, nella sua imperfezione, essere Amore? “Aut – Aut”; o l’uomo è Dio o l’uomo non può sperimentare il concetto puro di Amore. Escludendo che l’uomo sia Dio (se consideriamo Dio come un parametro di perfezione, al di là della fede e del concetto religioso di divinità), dobbiamo giungere alla conclusione che l’uomo non prova Amore ma è un mero interprete di un concetto assoluto di cui non potrà mai essere portatore. Parimenti il discorso può farsi riguardo la Giustizia. Se questa è un valore assoluto che può appartenere solo ad un essere perfetto, ed anche qui la teologia lo attribuisce a Dio quale simbolo della “perfetta giustizia” (Giobbe, 37:23), noi non siamo che meri e fallaci interpreti che non possono conoscere la vera Giustizia, ma solo una sua soggettiva e parziale teorizzazione e applicazione.
Per queste ragioni l’uomo non può sperare in una esperienza totalizzante che gli sarà sempre preclusa malgrado i suoi vani sforzi. I valori assoluti non ci potranno mai appartenere e le uniche armi da affinare per combattere questo dissidio e questa nebbia che ci avvolge sono la consapevolezza e l’accettazione.

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Per sempre Autunno

E così ci siamo addentrati a lente falcate nel pieno dell’autunno.
Benvenuto Ottobre, il mese del dolce declino, della romantica dolce morte.
Avvolgi con le tue nebbie e brine mattutine la vita giovane, spensierata e ingenua dell’estate,
sei discreto e silenzioso con i tuoi sommessi fruscii delle foglie ingiallite
come pagine di un vecchio libro che raccontano una storia lontana nel tempo e oramai passata.
I tuoi colori bruni riscaldano dai primi freddi,
la malinconia dei tuoi cieli grigi e le lacrime delle tue piogge.
I prati morenti non risuonano più di voci gaie e di giochi,
l’oscurità procede come un lento cupo esercito che conquista spazi di luce.
Tutto lentamente si assopisce stancamente e si prepara alla futura morte.
E’ il mese della maturità e della meditazione.
Non una stagione, ma uno stato dell’anima.
Per sempre autunno.

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Il posto delle fragole di luglio: ricordi tra passato e presente.

Qualche giorno fa mi sono “imbarcato” per un viaggio che non rientrava nei miei programmi. In realtà non era nemmeno un viaggio, almeno da principio.
“Domani devo andare a fare un servizio, mi accompagni?”
“Sì va bene!” avevo risposto, nella maniera più normale o distratta in un certo senso, senza darci troppo peso insomma. Venne quel giorno, l’itinerario era breve in termini di chilometri, l’auto faceva rotta verso la zona marittima con i suoi porticcioli, il suo lungomare e le barche ormeggiate placide nella calura e nella calma di un pomeriggio di fine luglio. Quale occasione migliore per passare in quelle zone della città che uno in genere non frequenta mai, così lontane da quelle in cui si svolgono le nostre routine e nelle quali si consumano i nostri piccoli “drammi quotidiani”. Squarci e scorci di una città sconosciuta dove siamo più turisti che cittadini, ci guardiamo intorno curiosi cercando di recuperare nella memoria qualche brandello che ci ricolleghi a quella dimensione. Lì iniziò il vero viaggio. Nell’abitacolo arroventato, e complice una città intorpidita dal caldo e già abbandonata da alcune frotte di vacanzieri, la memoria si sovrappose come un velo candido ricoprendo quella distesa di asfalto a tratti malconcio e quei palazzi, ora grigi e datati, ora signorili e tirati a lustro. Le strade delle zone “bene” della città sfilavano davanti a noi e così gli svariati ricordi e racconti di epoche sconosciute e passate. Lì, in quel palazzone imponente che si staglia contro il blu delle profondità marine a ridosso del Golfo abitava un vecchio amico in un tempo in cui la città doveva essere così profondamente diversa, tanto da poter assaporare ancora nell’aria l’odore salmastro del mare che si mischiava a quello della gioventù spensierata d’altri tempi. Memorie mai vissute di ragazzi che scorrazzavano per la città e che si radunavano nelle piazze per combattere la noia delle quattro mura domestiche, che si avventuravano tra quelle vie per ingannare il tempo durante quelle lunghe giornate. Poi una serie di curve che costeggiano il paesaggio marino dall’alto e dietro di esse un altro ricordo che tende il suo agguato alla memoria. Ricordi di giovinezza, di passioni vissute con ardore, di sentimenti sbocciati che seminano effluvi dolci nell’aria. Proseguendo si giunge verso l’età adulta, il coronamento di un sogno, il sommo sacramento, il giuramento eterno che porta verso il cammino impervio disseminato di ostacoli, come una strada che comincia ad essere dissestata, piena di crepe fino a sparire in una nube polverosa che esclude ogni cosa alla vista. Persi!

Si ritorna al presente e alle villette di colore chiaro con i loro cancelli dalle punte aguzze che infilzano il manto azzurro del cielo senza una nuvola. Cambiano i volti delle persone a seconda dei quartieri, cambiano i vestiti, cambiano le persone stesse e le scenografie sullo sfondo delle quali recitano la propria esistenza. Ancora lo squarcio del mare che mescola i ricordi, i miei e i tuoi, passato remoto e passato prossimo confluiscono. Il mare scuro come pece delle prime sere insieme, sempre questo mare testimone di ogni storia presente, passata e forse futura, il dolce sapore delle prime scoperte, dei primi desideri, posso ben immaginare come doveva essere anche per te, magari è stato uguale come qualcosa senza tempo. Risalendo sempre più su e addentrandosi nel cuore della città il mare piano piano si allontana, si oscura coperto dai palazzi, dalle auto, dalla vita frenetica cittadina. L’auto si insinua in una giungla di palazzi e di cemento, balconi a ridosso di finestre, oppressione, luoghi che non conoscono calore e luce, se non quella artificiale delle insegne al neon. E’ tutta una massa informe di vita e scarichi di vetture nella quale si insinuano sporadici e lontani ricordi di fanciullezza sotto il tetto natìo che ora sembra un tetto straniero così lontano e perso nel tempo. I luoghi diventano via via più familiari e i ricordi si stratificano e si affollano; lì c’era quella trattoria con i tavoli apparecchiati alla buona, con le sue tovaglie  di carta a quadroni rossi e i bicchieri spaiati, dove potevi assaporare i piatti della cucina delle nonne, poco più avanti i teatri dove si svolgevano quegli incontri serali con gli amici. Verso il termine del “viaggio” il passato confluisce sempre più nel presente, come un fiume che si riversa nel mare mischiando le acque. Questi luoghi sono quelli del presente oltre che della memoria.
In una manciata di minuti il viaggio volge al termine; non abbiamo che attraversato qualche quartiere, percorso qualche chilometro, eppure sembra di aver viaggiato per una vita, forse è proprio così, abbiamo viaggiato per una vita.

Station

Pensieri…ESPRESSI: storie di treni e stazioni.

Vi siete mai trovati a passeggiare all’interno di una stazione ferroviaria e pensare che non vi è luogo più sentimentale e traboccante di umanità di quello? una specie di tempio spirituale laico dove si suggellano promesse e si confidano sentimenti a cuore aperto, un melting pot di energie e sensazioni che si fondono insieme e generano una atmosfera così densa che ti ci senti invischiato ad attraversarla.

Le stazioni ferroviarie sono un mondo a parte, microcosmi multietnici, nuclei brulicanti di vita con i loro riti e ritmi scanditi dagli orari luminosi sui tabelloni a led. Luogo in cui mille lingue si confondono tra loro in musiche dai molteplici accenti, i profumi locali si fondono con gli afrori etnici e le sfumature del colore della pelle abbracciano le più svariate tonalità dall’eburneo al bruno. Tutti sono impegnati e assorti nella loro febbrile attesa; c’è chi freme eccitato per il viaggio che sta per intraprendere e che lo porterà a scoprire posti nuovi, chi con soddisfazione e un pizzico di malinconia si appresta a ritornare al suo paese dopo aver fatto incetta di nuove esperienze in una terra prima sconosciuta, chi attende con impazienza di ricongiungersi ad un proprio caro o ad un amore che lo attende alla fine di quel lungo binario che separa i due cuori. Il tumulto degli animi che si agitano senza sosta tra un annuncio rimbombante e una scritta luminosa che balena veloce su uno schermo.

C’è chi siede a terra sfatto e circondato da bagagli come un naufrago, chi sonnecchia placidamente su uno zaino, chi approfitta dell’attesa per permettersi un fugace spuntino mentre prosegue il balletto dei led luminosi che alternano nomi di città, orari e numeri che si offrono come uno spettacolo pirotecnico agli occhi  contemplanti ed attenti degli astanti rivolti con il naso all’insù. Qualcuno si affretta a passo rapido con l’espressione smarrita, qualcun altro inganna il tempo procedendo lentamente e perdendosi in chiacchiere; dal bambino tenuto per mano, scosso e ridestato dal genitore che lo distoglie dai suoi stupori puerili, all’anziano che procede fiacco trascinando il peso dei suoi anni.

Passeggiare in stazione ed essere abbracciati da questo tumulto di energie è sempre una rinfrancante sensazione. Si rivivono le emozioni di vacanze trascorse, di viaggi intrapresi con entusiasmo di esperienze fatte e di zaini zeppi di ricordi. Per quei pochi minuti che consentono l’attraversamento della stazione fino all’uscita ti senti parte di un popolo senza patria, il popolo dei viaggiatori.