Station

Il treno

“Treno in transito, allontanarsi dalla linea gialla”, il vento inizia ad soffiare e comincia a sentirsi il ruggito metallico delle carrozze che stanno per sopraggiungere. Ascolto quella voce inumana, fredda e robotica che scandisce quell’avviso e prudentemente arretro di qualche passo mentre il treno mi scorre velocemente davanti rallentando la sua corsa e offrendomi lo spettacolo delle sagome sfocate che fanno capolino dalle finestre opache per il sudiciume. Il clangore di una sirena e lo sbuffo delle porte che si aprono vomitando gente che come una colonia di ratti si espande velocemente in ogni direzione. Tra spintoni e pressioni riesco a ritagliarmi un varco e sono dentro; mi manca il respiro per l’afa e il lezzo che albergano in quella scatola di latta troppo stretta e infarcita. Mi guardo intorno, sento il ciarlare misto di mille voci che si accavallano, discorsi spezzettati che si mischiano con altri, un minestrone di argomenti di cui non riesco a seguire il filo logico. Ci rinuncio. Ficco la mano nella tasca destra del cappotto e ne traggo un libriccino, provo a leggere qualche riga, cerco di estraniarmi da quel mondo che mi opprime ma faccio una immane fatica a restare concentrato su quelle righe; il chiasso delle voci e lo stridore metallico delle ruote sui binari mi riportano continuamente alla realtà. Ad ogni stazione si recita sempre lo stesso copione: voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e gente vomitata e fagocitata. Poco a poco, mentre il treno prosegue la sua corsa lungo il serpentone metallico che passa da una galleria ad un’altra le persone al suo interno iniziano a diminuire, l’aria si fa più respirabile e fresca, ti scompiglia i capelli, ti colpisce in pieno viso e ti risveglia; il chiacchiericcio si fa più sommesso, gli agglomerati di persone iniziano ad apparire come piccole isolette di un arcipelago più che ad una distesa continentale. Ora riesco a rilassarmi, il mio corpo che prima era rigido ed in tensione ora comincia a sciogliersi; scorgo un posto lasciato vuoto, mi avvicino, mi seggo e riprendo in mano il mio libriccino fiducioso di riuscire finalmente ad immergermi nella lettura, abbozzo un mezzo sorriso di vittorioso compiacimento. Non faccio in tempo a posare lo sguardo sulla pagina che i miei occhi vengono distratti da altro. Dinanzi a me siede una ragazza, anch’essa con un libro poggiato sulle gambe strette e con una espressione sognante di beatitudine. Sembra non essere lì, sicuramente con lo spirito è altrove, vaga libera e leggera tra le pagine del suo libro giocando con le parole, rincorrendo costrutti e descrizioni fiabesche. E’ un raggio di luce che squarcia la tetra quotidianità, è bellezza nella sua accezione più pura e semplice ed è proprio la sua semplicità in un mondo così complicato che la rende così bella. Continuo ad osservarla mentre lei è tutta presa dalla lettura. Ha dei capelli color miele raccolti in una lunga treccia poggiata sulla spalla, un basco rosso che le pende sul lato sinistro, lo sguardo basso e curioso che sembra diffondere luce sotto le lunghe ciglia brune. Le sue labbra carnose e rosa si muovono di tanto in tanto come se bisbigliassero qualcosa di segreto che solo noi due possiamo intendere, sorridono a tratti per poi ritornare serie. Le sue mani sono poggiate delicatamente sulle pagine del libro, mani con dita affusolate dalle unghie rosee e lucide che sembrano accarezzare amorevolmente quello scrigno di parole. Sono completamente rapito da quella figura tanto da rimanere lì a fissarla, imbambolato e con il mio libro aperto ma orfano del suo lettore. Sembra essere sparita ogni persona in quel treno, sembra regnare il completo silenzio, non esiste più il tempo né lo spazio e fluttuiamo morbidamente come in una navicella spaziale. Non esiste che lei, il pallido astro venuto ad illuminare questa che era una sera come tante nella mia vita da triste pendolare.
Ad un tratto, come se avesse sentito il mio richiamo telepatico o come se avesse letto semplicemente i miei pensieri, distoglie lo sguardo dalle pagine bianche e lancia una occhiata nella mia direzione, proprio davanti a sé. Quella frazione di secondo sembra durare una eternità, mi sembra di vedere al rallentatore i suoi occhi che puntano verso di me e le sue ciglia che si distendono come le piume della coda di un pavone. Colgo la scintilla di luce nei suoi occhi verdi, per un breve attimo i suoi occhi si tuffano nei miei e gli sguardi si mescolano; accenna un sorriso di cortesia, quasi imbarazzato, come se tra i tanti avventori di quella carrozza avesse riconosciuto in me un’anima affine. La sua bellezza mi mette in soggezione e restituisco il sorriso senza emettere una sillaba; cosa potrei dirle, ogni frase sarebbe banale e rischierebbe di rompere quell’incantesimo. Il treno prosegue la sua veloce corsa, troppo veloce per me, perché non rallenta e mi lascia assaporare con delizia e beatitudine questi momenti? La mia musa ripone il libro in una piccola borsa di tessuto nero, con le mani si risistema la gonna sulle ginocchia e si alza in piedi. Capisco subito che sta per accadere, la prossima fermata è vicina e tra poco tutto sarà finito e ripiomberò nella grigia realtà di ogni sera. Vorrei alzarmi di scatto e prenderla per la mano, vorrei invitarla a restare ancora un po’ e poi ancora un altro po’, anche senza parlare, solo stare così come in questi minuti di viaggio trascorsi. Vorrei dirle tutto d’un fiato quello che ho pensato fino ad ora guardandola, le riverserei addosso un mare di chiacchiere, le chiederei un recapito o se prende spesso questo treno o se le andrebbe di bere un caffè un giorno di questi, tutto pur di non perdere una tale rarità.
Voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e lei che si incammina verso l’uscita. Per un secondo si volta verso la mia direzione e mi sorride ancora, come se avesse di nuovo letto tutti i miei pensieri, come se con quell’espressione mi dicesse “so cosa pensi, ho capito tutto”, come se mi dicesse addio. Sorrido amaramente per la seconda volta, poi le porte si chiudono, ritorno nel grigiore della mia carrozza, seguo la sua sagoma sfocata dal vetro lercio e opaco che si allontana per sparire dalla mia vista per sempre. Avrei potuto dire, avrei potuto fare, ma forse è stato giusto così. Come una cometa è apparsa nel firmamento della mia vita e come una cometa è andata via in un attimo lasciando una lieve scia luminosa che si dissolve nel cielo ed è subito di nuovo oscurità. Si può amare anche solo il tempo di un battito di ciglia.

o.231467

Il Gioco

E’ l’alba di un nuovo giorno. Il pulviscolo danza nella luce dei raggi solari che filtrano tra le persiane abbassate, una cappa di afa mi si appiccica addosso come una pellicola umidiccia. Sono intontito come ad ogni risveglio, resto immobile incatenato al materasso rovente mentre gli occhi mi roteano nelle orbite fissando le effigi spettrali che mi circondano nella penombra della stanza. I pensieri sono confusi, annodati come i miei capelli arruffati sul cuscino e si mescolano con gli ultimi scampoli delle visioni oniriche ed immaginifiche che sfumano e si dissolvono nell’aria soffocante. Tutto è confusione.
Piano piano la nebbia del sonno si dirada, la mente diventa più lucida, sento il corpo intorpidito che riprende coscienza di se stesso; ho un corpo…
Che ore saranno? allungo la mano che in maniera cieca cerca la sveglia sulla mensola in alto, sopra la mia testa; le sette del mattino, di già.
Anche stanotte ho combattuto; contro i sogni, contro i pensieri, contro me stesso. Tutto intorno è il solito caos di sempre, di chi non trova pace nemmeno nel sonno;il lenzuolo è aggrovigliato ai piedi del letto e penzola sul pavimento, un cuscino è in bilico sul bordo come un equilibrista sulla sua corda, tutto è precario, sospeso nel vuoto, dentro e fuori allo stesso tempo. Mi alzo e mi appoggio contro la spalliera del letto, boccheggio con il petto nudo imperlato di sudore e il contatto del ferro fresco contro la schiena umida mi dà un brivido. Sono sveglio ora, resto a fissare le piccole particelle di polvere che danzano nell’aria e intanto rimetto insieme i pezzi. Devo pensare e ricordarmi cosa è accaduto il giorno prima, devo ricordarmi chi sono, cosa sono e cosa mi ha fatto diventare quello che si sveglia ogni mattina in questo letto. Sì ecco, ora poco a poco inizio a ricordare, il sonno può essere il più forte degli anestetici, peccato duri troppo poco…
Mi alzo barcollando e zigzagando tra le macerie che giacciono sul pavimento; bottiglie, scarpe, libri; è tutto disordinato e senza nesso logico come la vita che conduco. Mi reco verso la scrivania come ogni mattina, apro il cassetto e lì dentro, riposto in un drappo rosso e logoro c’è il mio “oracolo”, una Smith & Wesson mod. 64-2 calibro 38 special con un solo colpo nel tamburo. La impugno saldamente, con la mano sinistra faccio ruotare rapidamente il tamburo che scorre rapido e ticchettante come una roulette; il silenzio della camera viene infranto dal suono dell’ingranaggio metallico, poi si ferma, tutto tace ancora una volta. E’ il momento di puntare la posta, mi gioco tutto ogni dannato giorno, ancora e ancora. Tutto dipende da questo giro di roulette; vincerò un altro giorno? godrò del lusso di altre ventiquattro ore di esistenza? ventiquattro ore in cui le combinazioni di eventi sono infinite, sono solo ventiquattro ore ma possono valere una vita intera. Uscirò di qui con la felicità del vincitore che ha sbancato al casinò, pronto ad afferrare qualsiasi possibilità mi si pari innanzi; diventerò magari ricco, incontrerò la donna della mia vita, troverò qualcosa per cui essere grato e felice, chissà quante cose possono accadere in sole ventiquattro ore. Oppure posso perdere tutto proprio ora. Se la fortuna dovesse essere a me avversa proprio oggi perderei tutto in un attimo, un boato e poi il buio eterno. Ma questa cosa è necessaria, devo meritarmele queste ventiquattro ore, non posso riceverle come se mi fossero semplicemente dovute, quante persone lì fuori le accettano senza chiedersi nulla, come se fosse un loro diritto acquisito e finiscono poi per sprecarle, nulla mi è dovuto! Quando qualcosa ti viene elargita con estrema magnanimità diventa una abitudine scontata, un qualcosa a cui non dai più valore, la tua vita non vale niente se non la vinci e se non metti sul tavolo la possibilità di perderla ogni giorno. Se ogni mattina al mio risveglio qualcuno mi donasse una banconota da cinquecento euro probabilmente a lungo andare quel denaro perderebbe per me il suo valore, lo sprecherei conscio che ogni giorno ne avrei del nuovo senza dover far nulla per meritarmelo. E mi darebbe piacere o gioia tutto questo? Forse per i primi tempi ma poi, passata la novità, tutto diventerebbe norma, apatia, noia.
Per questo è necessario che io lo faccia, che ogni mattina io impugni quest’arma e mi affidi alla dea bendata giocando; o tutto o niente, o gratitudine o morte.
Porto la pistola alla tempia, strizzo gli occhi, l’acciaio della canna è freddo e sento tutto il peso della scelta che grava nella mia mano, questa pistola sembra pesare sempre di più ad ogni secondo che passa. Il cane è alzato, il dito indice accarezza con delicatezza l’acciaio cromato del grilletto e indugia. E’ giunto il momento, “rien ne va plus”, l’indice preme deciso sul grilletto –“click” –.
Il banco vince, mi sono guadagnato la mia esistenza…anche oggi.