308. … e mentre …

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e mentre quaggiù parole
dove nascondersi
come fiumi scorrono
verso i mari del cuore

lassù volano liberi
gli usignoli nella sera dorata
e cantano sinceri come bimbi
alle prime parole

qui noi parliamo senza dire
lì dicono senza parlare

lassù
mentre
quaggiù

noi
loro
lo stesso mondo

noi
mondi sempre lontani

sillabe
piccole lettere senza alfabeto

l’abbraccio è nel tramonto
silenzioso come la verità

307. quando tu lo pensi da sempre e lo scrivi nel tuo blogghino sconosciuto; e poi leggi che lo dice una poeta premio Nobel per la Letteratura; ma se leggete i miei post dedicati all’argomento, vedete che anche Ungaretti pensava così e molti molti poeti e poete; quali post? niente link, se volete, cercateli; della poesia bisogna avere silenziosa cura

“La poesia è un dialogo a due tra chi scrive e chi legge. Metterla sotto i riflettori può essere pericoloso. È un patto a due”.

Ieri Louise Gluck, poeta, Premio Nobel per la Letteratura nel 2020, se ne è andata, dopo aver vissuto una vita intensa che ha fatto diventare materia della sua poesia.
È morta nella sua casa di Cambridge in Massachusetts. Aveva 80 anni.

305. divagazioni su Nettuno e Bologna, in un centro storico improvvisamente al buio

Nettuno emerge dal buio della notte a dominare le onde in una piazza senza onde e senza mare, ma in una città piena di canali d’acqua che, improvvisi, appaiono come torrenti le cui sponde sono case, o che rimangono sotterranei e di essi si sente solo la voce che scorre liquida e invisibile e invitante.
Nel centro storico di questa città, si susseguono spazi bellissimi, piazze delimitate da eleganti palazzi e grandi chiese: le loro facciate si innalzano al cielo nel sovrapporsi di file di mattoni di cotto rosso. Da una piazza a un’altra, magie del dispiegarsi, dell’aprirsi, del rincorrersi architettonico di forme e di stili le cui mescolanze dimostrano la bellezza delle diversità che convivono.
Forse è il buio inaspettato di questo centro storico stasera, un buio dovuto al fatto che poco più in là viene proiettato un film a cielo aperto, a cielo scoperto, a cielo incantato dalla sua luna, da cui si lascia attraversare come amante arreso e disteso, ma proteso e mai stanco.
Forse perché l’unica luce rimasta accesa proietta su un palazzo l’ombra della statua del dio Nettuno, possente e potente; e quel buio in cui è immerso sembra la profondità del suo mare, del suo regno liquido così diverso dalla staticità dei mattoncini rossi da cui è circondato. No, non va vista di giorno questa statua, né illuminata.
Il dio Nettuno va visto al buio come stasera, in questa piazza e dovunque: lui , il signore delle profondità degli abissi, con quella mano protesa al dominio, come ad arrestare onde tempeste navi draghi. Lui solo, in questa posa regale, mi sembra adesso, in questo buio, e per la prima volta per me, l’unico ad essere autorizzato a dire dove sia l” “hic” di quell”hic sunt leones” che noi umani spostiamo a piacimento delle nostre scoperte.
Forse è l’ “hic” di cui solo Nettuno può sapere, quello che cerco ogni volta che penso al “limes” che diventa “limen”, un hic di possente fluidità, nelle profondità di un’anima, della psiche, di un archetipo, non so dove; ma stasera quell’ombra di Nettuno, la sua mano capace di fermare guidare far procedere nei flutti in superficie o negli abissi, stasera qui in questo buio inatteso davanti a questa ombra ancor più inattesa, ho conferma ancora una volta che “hic sunt leones” è qualcosa di cui può dire solo una divinità; e che per noi umani è solo una convinzione, una convenzione geografica nata dal timore e non dalla curiosità.
E molti umani disegnano quel confine su un barcone che trasporta esseri altrettanto umani: la rotta di quel barcone traccia la linea oltre la quale non si vogliono avventurare quegli umani che disegnano ogni attimo confini, ignari forse che si arrogano un compito di esclusiva competenza del divino.
Ah Nettuno, chiunque tu sia, Poseidone o Nettuno o perfino ipostasi di me stessa, tu stasera con il tuo braccio proteso fermavi l’arroganza che fa ignorare i veri confini, tu signore del segreto di un “hic” che per essere fermo sa scorrere e per scorrere sa essere fermo. I leones sono gli umani che divorano le vite degli altri umani, sono quelli che di altri umani dicono ‘lasciateli morire in mezzo al mare”.
Stasera, mentre nel buio si levavano voci in tante lingue; mentre mi smarrivo e trovavo nello stesso istante, flutti e mattoni, onde e facciate di palazzi.
E tu Nettuno lo sai e lo so anch’io che se possiamo narrare il passato e il futuro è sempre e solo perché il limes si è fatto limen, e il nostro umano “hic sunt leones” può spostarsi solo se si avvicina all”hic” che tu conosci, a quell’essere e divenire di cui siamo chiamati ad avere consapevolezza, alla responsabilità che ne deriva.

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304. silenzio: semicronaca da un franturismo-frantumismo di massa

Dovunque cerco il silenzio.
Quindi, sebbene di passaggio, mi fermo.
Ad Assisi mi fermo sempre, per trovare il silenzio.
Io me lo ricordo, riempiva ogni spazio, quando, molti anni fa, ci andavo spesso: eravamo un gruppo di giovani pieni di ideali sogni speranze Vangelo. Allora non c’erano tante persone come ci sono adesso, e noi eravamo pellegrini, credenti in cerca del silenzio della preghiera e della meditazione.
Adesso sembra di vedere solo folle di turisti ingabbiati nel franturismo o frantumismo di massa; ma in realtà chi può dire cosa? Chi può dire cosa e come e chi e dove e quando e perché di tutte le persone che si muovono in questa piccola città, nelle due chiese e dovunque nel mondo?
Oggi arrivo, parcheggio, percorro la salita della stretta via e poi trovo l’ampio spazio della piazza e là in fondo svettano le basiliche, capolavoro architettonico che si innalza verso le nuvole, appena sfumato dal leggero velo formato dalle gocce di pioggerellina che scende con delicatezza.
Pranzo nel solito ristorante dalle cui vetrate vedo la Basilica superiore e poi vado nelle due Chiese, a lasciarmi avvolgere da affreschi, colori figure fissate in gesti importanti dalla pittura.
Anche oggi mi sento a casa, vedo persone che conosco o riconosco, intente a svolgere il loro lavoro; e vedo gli affreschi, con i noti santi, i vescovi, gli angeli sempre lì, immobili; ritorno a guardare l’angolo incantevole della Creazione; e mi fermo un po’, come sempre, nella Cappella della Maddalena.
Poi mi siedo, sotto le volte azzurre, e aspetto che il silenzio sperato mi avvolga. Io taccio, il mio contributo al silenzio è totale.
Aspetto.
No, non arriva.
Una voce femminile ogni tanto invita al silenzio e poi fa “sssscccchhhh” che non è proprio il classico “ssssshhhh” e sembra strano. C’è un brusio continuo di voci e sottovoci e che spesso diventa rumore. Nella Basilica Superiore oggi addirittura una suora passa l’aspirapolvere sulla moquette rossa dell’altare e vorrei chiederle di smetterla, di farlo in un altro orario e mi sento un po’ offesa, non rispettata nel mio bisogno di intimità e di silenzio e di preghiera.

Ma poi.
Dove sta il silenzio? No, non è fuori di me, non è un regalo degli altri.
Ecco, allora immagino i prati verdi che stanno nelle campagne intorno, e tutti i fiori bianchi di maggio; immagino il cielo, i boschi.
Porto dentro di me il silenzio della natura, e in me trovo un Cristo e un Francesco che stanno seduti su un sasso, accanto a una sorgente.
Non parlano, ascoltano.
Non ascoltano soltanto i suoni, ascoltano i loro visi, i loro occhi, le loro mani.
E anch’io Li ascolto così.
È un momento evangelico, incantevole.
È finalmente silenzio, il luogo dell’incontro.
E lo trovo spesso, qui ad Assisi, anche in mezzo alla folla; dopo un po’ che sto in ascolto trovo in me quel silenzio dentro cui so ascoltare: ed è anche quello uno dei luoghi sulla mappa del silenzio.

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303. libertà

https://www.treccani.it/enciclopedia/liberta

https://www.ilmessaggero.it/umbria/fucilate_quei_sette_la_vera_storia_eccidio_di_camorena_castiglione_orvieto_un_libro_di_cesare_corradini-5384017.html

302. se ti avanza qualsiasi cosa

Se ti avanza un po’ di cielo, non lo buttare via.
È solo aprile, la strada è lunga prima della notte.
Ci saranno ciliegie grano acqua, tu porta il pane, porta il silenzio, porta la tenacia di ogni stagione e il pezzetto di cielo che hai conservato.
Passo dopo passo arriva la stanchezza e arriva la meta, tu porta un po’ di cielo con te, sempre.

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299. Dino Buzzati, Il paradiso degli animali

Nel paradiso degli animali l’anima del somarello chiese all’anima del bue:
– Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?
– Lasciami pensare… Ma sì – rispose il bue. – Nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato.
– Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?
– Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.
– Millenovecentosettanta, esattamente.
– Accidenti!
– E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
– Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
L’asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
– Ma no! – fece costui – Sul serio? Vorrai scherzare spero.
– La verità. Lo giuro. Del resto io l’avevo capito subito…
– Io no – confessò il bue – Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
– Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?
– Dove?
– Giù sulla terra, no!
– Ci sei già stato?
– Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
– Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
– Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
– E il lasciapassare per me?
– Ho un cugino all’ufficio passaporti.
Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
– Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
– Ma non vedi come sono tutti contenti?
– Contenti? A me sembrano dei pazzi.
– Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
– La pagheranno, bene, immagino, – fece il bue – per un lavoro simile.
– Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
– E allora perché si sta massacrando così?
– Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
– Auguri? E a che cosa servono?
– Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
Si affacciarono, più in là, a un’altra finestra. Anche qui, gente che, trafelata, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
– Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace.
– Già – rispose l’asinello. – Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
– Ma ci credono? – chiese il bue – Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L’asinello tacque.
– E se ci ritirassimo un poco in disparte? – suggerì il bovino. – Ho ormai la testa che è un pallone… Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
– No, no. È semplicemente Natale.
– Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
– E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
– E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
– Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
– E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
– Ho idea di no – disse l’asino – c’è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.

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298. è un abbraccio, non è una prigione. Buon Natale

La macchina davanti a me l’aveva investito e lasciato lì, a contorcersi vicino al bordo della strada, ancora a rischio.
Non avevo ben capito di che animaletto si trattasse, sembrava un uccello in quel suo dibattersi sconnesso.
Mi sono fermata, avvicinata con cautela e ho visto che era un micetto, pelo scuro. Piccolo, copriva per intero la mia mano e poi un pezzetto del mio polso. In macchina, lo adagio dentro un borsone del supermercato, quello col fondo largo, e chiamo il mio veterinario. Erano le ventitré e cinquanta di un giorno dei primi di luglio, un sabato. Lui risponde, è ancora in ambulatorio, mi dice che mi aspetta. Faccio presto.
È una micetta, forse non ha un mese di vita, risulta paralizzata dalla testa in giù: ‘la ricoveriamo, vediamo come va”.
La mattina dopo: è paralizzata, conviene sopprimerla; l’ho appena salvata, rispondo, aspettiamo.
Telefonate che non dicono nulla di buono e poi, il martedì: vieni, ti dobbiamo far vedere una cosa.
Vado. Lei, minuscola e impaurita, cammina. Le è rimasta rigida la zampina anteriore destra, avanza come un soldatino. La porto fuori, nel prato antistante la clinica, e dopo un primo smarrimento, va tra l’erba e i fili verdi sono più alti di lei.
Due giorni dopo la porto a casa, inutile aspettare un’adozione che non verrà mai. Apro lo sportello della macchina, forse mi distraggo, e lei è fuori, corre come impazzita, si inoltra tra l’edera, le pervinche e scompare sotto la siepe di rosa canina: oddio, l’ho persa. No, riesco in qualche modo a prenderla, mi impegno a calmarla. Lei è impaurita: considero le sue esperienze degli ultimi cinque giorni, e chi non lo sarebbe.
In casa ho un altro micio, amoroso, anche lui non nato qui: adesso è malato e potrebbe essere pericoloso per la micetta. Così li divido, e lei la metto in camera, porta chiusa, sì isolata dal mondo. Ha tutto ciò che le serve. Ma io parto la mattina presto e arrivo la sera tardi, stanca e triste, mia madre è ricoverata in un ospedale di un’altra città e, seppur salvata, mi è stato detto che la sua vita è appesa a un filo e che ogni secondo potrebbe andarsene .
Quando arrivo, accudisco la piccola micetta, ancora impaurita. Poche cose, quelle necessarie, anche per proteggerla dai rischi di un contatto mio con l’altro micio.
Intanto si sono scoperti tra loro, i due felini, e si scrutano e annusano attraverso la porta chiusa. Poi arriva il momento giusto, apro la porta, si guardano, e diventano fratello e sorella. Lui micione amoroso; lei micia con bel caratterino diffidente e avventuroso, preferisce stare un po’ distante dagli umani.
So che a lei non ho profuso carezze, non l’ho abbracciata, non mi sono fatta annusare e leccare: ero stanca, certo, e prudente, ma avevo mancato di responsabilità e accudimento.
Comincio, piano piano. Il cammino dura ancora, Lorenz direbbe: e certo, per forza!
Ora lei dorme anche con me, un po’ distante, in fondo al letto, ma sempre più spesso mi si mette accanto o sopra e si addormenta anche così. Ora l’accarezzo e lei si mette a pancia all’aria e distende le zampine in alto, come nuotasse nell’aria. Ora si fa abbracciare e sosta un po’ in quell’abbraccio e poi si prende più spazio e allora, in quel momento mentre apro le braccia, le dico: è un abbraccio, non è una prigione, stai tranquilla; e le chiedo ancora una volta scusa per quella mia mancanza iniziale di contatto.
Li amo, lei e lui: sono la fonte della mia creatività linguistico -amorosa che non ho altre occasioni per esprimere; sono i momenti di contatto amoroso e fiducioso reciproci; sono le presenze vivaci silenziose simpatiche che riempiono il mio spazio intimo. Con loro e con me, vivono anche alcune piante da interno, e tutti insieme con-formiamo una casa di diversificate vite.
Nel silenzio, a luci soffuse, sarà questo il mio Natale, con un piccolo presepio e un piccolo albero e un piccolo cuore di lucine.
Lontano da quegli insulti consumistici di prodotti oggetti e luminarie che sempre più vengono chiamati “Natale”, in una crescente follia umanoriferita che ci attrae verso baratri bui attraverso corridoi illuminati e seducenti.
La fiducia, non l’inganno.
L’ amore, non l’inganno.
La fiducia, l’amore.
Stai tranquilla, piccolo essere di questa Terra, a me affidato per apparente caso, stai tranquilla, è un abbraccio.

BUON NATALE ❤️

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297. quella farfalla che batte le ali a Miami e quella pioggia che poi cade a Pechino

Eventi anche molto distanti incidono direttamente sulla nostra vita.

Come il tuo sorriso, per esempio, che abbraccia anche parti del mio cielo e allora qui splende il sole.
Come il ricordo del regalo di tanti anni fa, mammabella, quella lana del mio tono di giallo preferito, che tu invece avevi per scherzo descritto in altro modo, e in quello scherzo io trovo ancora tutto l’amore che c’è ancora da scoprire.
Come il ricordo del tuo abbraccio sotto la pioggia, babbobello, protetti entrambi da un ombrello e dal racconto che facevi, inventando avventure sotto il ticchettio musicale delle gocce.
Come il fiore che immagino sboccerà mentre aggiusto il seme dentro la terra e poi innaffio con l’acqua che ci vuole, né più né meno, l’ho imparato dai mughetti, dalle rose, dalle querce, dagli ulivi, dal prato.
Come questo momento in cui scrivo, vicino e distante, evento fatto di una contemporaneità di eventi, tutta da imparare.
Quella farfalla, questa farfalla; quella pioggia, questa pioggia.
La pioggia che profuma di ali di farfalla; il battito d’ali che odora di pioggia.
E tu che sorridi, e la bambina che si stupisce e sogna, e il fiore che sboccerà, e il costante presente che è e diventa.

Batti le tue ali farfalla; e tu pioggia cadi dolcemente.
E tu, sorridi, non smettere mai, nel mio cielo arriva un raggio di sole.
Mammabella, fai quello scherzo e regalami quella lana dal colore del ‘mio’ giallo; babbobello, raccontami le tue parole sotto l’ombrello: nulla è finito della vostra dolcezza.
Seme, il tuo movimento sotterraneo ti trasforma in fiore incessantemente.

Eventi anche molto distanti.
E nel tempo e nello spazio.
Sensazioni.
Possibilità.
Potenzialità.

Ascolto il tuo sorriso, dorato sotto la neve, come il potente e severo inverno che conserva e protegge la vita: quel piccolo seme diventerà fiore grazie anche al tuo sorriso.
Guardo mia madre che lentamente tira fuori dalla borsa la lana che volevo: quel fiore si colorerà grazie anche a quello scherzo amoroso.
Sento l’abbraccio di mio padre e gioisco dentro la sua voce modulata che inventa un gioco sotto la pioggia: quel fiore crescerà e vivrà tutto il suo tempo grazie anche a quella protezione creativa.
Io sono e divento, e quel fiore saprà ridiventare seme che diventerà nuovo fiore.

E tutto questo battere d’ali e di vita ispirerà chissà quale pioggia quale sole quale sorriso quale sorpresa quale protezione.

Batti le tue ali, farfalla.
E racconta cosa ti ha ispirato a battere le tue ali.

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296. caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale,
ti scrivo per la prima volta, perché io mi sono rivolta sempre a Gesù Bambino; però penso che Lui sia particolarmente impegnato su più fronti (e “fronti” non è una parola che uso per caso) e, siccome credo che col tempo vi siate conosciuti e diventati anche amici, vista la vostra intelligenza e il vostro cuore, e che collaboriate attivamente, scrivo a te per chiedere un regalo.
Lo chiedo a te anche per delicatezza verso Gesù Bambino, che me lo immagino un po’ rattristato da questa cosa che ora ti dico. Dunque… Io sono cresciuta tutta casa e chiesa, lo sai, e tutta casa e chiesa e preghiere. E tutta casa e chiesa e preghiere e santini.
È così, ognuno ha la propria storia, e lo sai bene tu che la tua te l’hanno stravolta e ti hanno imparentato con la Coca Cola.
Allora, i santini sono piccoli fogli che, su un lato, hanno disegni di santi o di Dio o della Madonna e una preghiera sull’altro. Queste preghiere non erano quasi mai di pura adorazione e includevano quasi sempre richieste di grazie; però prima della richiesta, c’erano frasi in cui si diceva che chi chiedeva la grazia non meritava nulla e quindi ciò che eventualmente riceveva era tutto un favore amoroso dato dal santo, a cui ci si rivolgeva come intercessore, e insomma tutto comunque veniva da Dio, per il suo immenso amore.
Questa cosa che noi non meritiamo nulla e che tutto è un dono di Dio a prescindere, veniva poi anche ripetuta nei catechismi, nelle prediche, insomma era una bella s-formazione, tanto che poi ti esce fuori anche un ministro dell’istruzione (minuscole volute, caro Babbo Natale) che ci dice che è necessario umiliare per educare e poi ci dice che intendeva umiltà e poi ricorre a una strada etimologica per incartare la sua strategia (dis)educativa.
Caro Babbo Natale, lo sai che al catechismo ci dicevano che siamo figli di Dio? Una cosa fantastica! Però poi ci dicevano anche questa cosa che era scritta nei santini, e cioè che per nostra natura non meritiamo nulla.
Ecco, Babbo Natale, ti sarai accorto anche tu che il mondo economico invece ci dice che meritiamo tutto, e ci fa sentire un tantino meglio di come ci sentiamo pensando che non meritiamo nulla, e di questo se ne approfitta, e anche tanto.
Ma siamo sempre lì, caro Babbo Natale. Nemmeno il mondo dell’economia nutre una grande stima verso gli esseri umani, perché ci ritiene sì meritevoli, ma di prodotti, e i prodotti li produce proprio quel mondo e gran parte di essi serve alla sua sopravvivenza.
E poi ti sarai accorto che in tanti altri mondi veniamo ritenuti meritevoli: quello medico, per esempio, quando ero piccola piccola ci voleva curare; ora, però a dire il vero, un po’ meno, ci vuole lasciare senza soldi, proprio niente, nemmeno per comprare il pane, se non siamo ricchi.
Eh, sì, diciamo che il mondo dell’economia, dei soldi, insomma quel mondo lì, ha una grande capacità di conquista. Hai presente quante volte e in quante pubblicità ci sentiamo dire “tu vali” solo per farci comprare cose?
Caro Babbo Natale, come ti dicevo, al catechismo eravamo nominati “figli di Dio”. A me faceva un grande effetto, pensavo a questo Grande Babbo che era Babbo anche del mio babbo e della mia mamma, e dei nonni e delle nonne, e degli zii, insomma, un Grande Babbo di tutte le persone del mondo. E se non era Fede questa, dimmi tu cosa era. Un po’ ti aiuto io: era Amore, era Fiducia, era Appartenenza, era anche un po’ di Orgoglio, di quello buono.
Per molti anni hanno convissuto in me questi due aspetti: sono Figlia di Dio e non merito nulla, mi sembrava normale.
Poi è subentrato un “ma”: tu lo sai cosa combina un “ma”, si gira indietro per far guardare avanti, e allora, pur non sapendo da dove proveniva quel “ma”, gli aspetti che convivevano in me furono esprimibili con “sono Figlia di Dio, ma non merito nulla”.
Poi si aggiunse un punto interrogativo alla fine della frase, e tu lo sai bene cosa combina un punto interrogativo, è come uno stop, fa come il punto esclamativo, ma in un modo che ti invita a proseguire, e la frase cominciò a esprimere un dubbio: “sono figlia di Dio, ma non merito nulla?”.
E così cominciai a convivere con un ossimoro esistenziale, e tu lo sai quanto mi affascinano gli ossimori poetici e meno quelli esistenziali, lo sai, vero?
Ecco, Babbo Natale, puoi fare qualcosa?
Io ci ho provato, ho scritto preghiere, anche belle, prive di ogni riferimento al non meritare nulla, colme di questo senso dell’essere Figli di Dio e “degni” di tanto, di tutto. Ma erano mie, non dei teologi accreditati, o addirittura di santi e di sante. Erano preghiere mie, di lode o di richiesta in quanto figlia, cose personali, insomma.
Permane tuttora, però, questo fastidio doloroso del non meritare e che non mi si lega proprio con l’essere figli di Dio.
Fra l’altro, e non è poco, non so cosa ne pensi Dio, lui parla per interposte persone, le quali non sempre esprimono correttamente il suo pensiero, te lo ricordi quel “Dio lo vuole!” per giustificare guerre e stermini vero? Ecco. Però Gesù, quando era già grande, non mi sembra abbia detto questo, a leggere le cose che hanno scritto di lui. Mi sembra invece che certi concetti siano venuti dopo, mi sembra, eh, te l’ho detto che mi sento frullata dentro un ossimoro esistenziale e questo non giova alla chiarezza.
E allora mi rivolgo a te, che sai volare nel cielo con le renne e in una sola notte distribuisci regali ai bambini e anche agli adulti di tutto il mondo, qualora te lo chiedano. Visto che sai fare questo, dovresti essere esperto di problem solving, anzi, penso che il problem nemmeno ti si ponga, tu sei proprio tutto versato sul fronte del solving.
Per favore, portaci un po’ di chiarezza e di felicità, regalandoci fin nel profondo la convinzione che siamo meritevoli per ciò che siamo, e che siamo proprio speciali e che riceviamo i doni proprio per questo, e che Dio ce li fa – quando ce li fa – non solo per il suo infinito amore (al quale, peraltro, dovremmo arrivare umiliandoci, secondo il criterio di quelle preghiere di cui ti dicevo prima), ma proprio anche e solo perché ce li meritiamo. Ci ha fatto Lui, o no? E che avrebbe fatto, avrebbe deciso di creare omuncoli e donnucole?
No, anzi, si dice che eravamo belli e felici e poi l’abbiamo combinata grossa e Lui si è arrabbiato, e noi abbiamo cominciato ad avere problemi, solo per la nostra disubbidienza si dice, non anche per l’arrabbiatura di Dio e per la sua conseguente punizione.
Caro Babbo Natale, esperto di solving, portaci in regalo un po’ di chiarezza, un po’ ci coerenza e di congruenza.
Sai, potrebbero cambiare molte cose come conseguenza di un agire di umani che si sentono meritevoli. Se ti senti meritevole, ti senti partecipe, non solo fruitore di qualcosa che ti viene dato per grazia ricevuta.
Tu forse non vedi film , ma se ti capita guarda Kingdom of heaven, è una storia molto interessante e il personaggio Baliano è esempio di un essere umano meraviglioso, gli hanno costruito una storia personale proprio bella.
Lui all’inizio del film è un fabbro e poi scopre di essere figlio di un grande cavaliere, da cui a sua volta viene nominato cavaliere. A un certo punto si trova a difendere Gerusalemme dall’esercito del Saladino. Ha pochi uomini, da cui è amato e stimato; la situazione è disperata, tutti potrebbero morire. Prima dell’ultimo scontro, Baliano esercita la sua autorità e nomina cavaliere tutti coloro che stanno combattendo insieme a lui, innalzandoli non solo al suo livello, ma alla piena dignità di se stessi, proponendo un’appartenenza e una partecipazione alla pari. E’ un bel momento , te lo assicuro, anche commovente, e questo permetterà un esito di salvezza e di sopravvivenza e di libertà per tutti.
Caro Babbo Natale, ti prego, portaci questa nuova dimensione dell’esistere e del vivere.
Io pensavo che appena mi arriva questo tuo bel regalo lo porto subito a far vedere a Gesù Bambino, tanto lui nel Presepe continua a starci fino all’Epifania. E credo che farà un bel sospiro di sollievo, perché forse così quando sarà grande non dovrà nemmeno più morire sulla croce, perché se diventiamo consapevoli dell’essere Figli di Dio mica mandiamo a morire nostro fratello Gesù, perché mica facciamo più le cavolate che facciamo da esseri che si sentono di non meritare niente!
E poi , su, la dobbiamo far finita di rimpicciolirci affinché la grandezza di Dio appaia chiaramente. Ma ci pensi? Lui, Dio intendo, ha bisogno di questo? Lo sappiamo che è onnipotente, onnisciente onnipresente e tanto altro. Anche Lui lo sa. E tanto basterebbe. E’ forse qualcun altro che, per scopi tutti suoi, ha bisogno di dirci che non meritiamo nulla?
Caro Babbo Natale, ti ringrazio in anticipo, so che mi ascolterai.
Ti auguro Buone Feste, tu ne sai organizzare di bellissime.
Un abbraccio e ancora grazie.
Malù

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294. maestri

LECTIO MAGISTRALIS

Se mi vedessero stare in piedi
immobile, in mezzo
ai miei fiori, come
in questo istante,
penserebbero che
sto tenendo loro una lezione. Invece
sono io che ascolto
e loro che parlano.

Lì, in mezzo a loro,
mi insegnano la luce.

(NIKIFÒROS VRETTÀKOS, La filosofia dei fiori, 1988 – Traduzione di Gilda Tentorio)

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293. sul viaggio: il mondo piccolo dei ricordi, il mondo grande delle mappe

Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe,
l’universo è pari al suo smisurato appetito.
Com’è grande il mondo al lume delle lampade!
Com’è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!
Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull’infinito dei mari:
c’è chi è lieto di fuggire una patria infame;
altri, l’orrore dei propri natali, e alcuni,
astrologhi annegati negli occhi d’una donna,
la Circe tirannica dai subdoli profumi.
Per non esser mutati in bestie, s’inebriano
di spazio e luce e di cieli ardenti come braci;
il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
cancellano lentamente la traccia dei baci.
Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s’allontanano come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire,
e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!
I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!

Charles Baudelaire

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libro mondo

292. tutto, ogni

LEV TOLSTOJ, Anna Karenina, Incipit, 1877
Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Traduzione di Leone Ginzburg, Torino, Einaudi, 1993

PAUL AUSTER, Il paese delle ultime cose, p. 40, 1987
Tutte le cose deperiscono ma non in ogni parte di ogni cosa, almeno non nello stesso tempo.
Traduzione di Monica Sperandini, Parma, Ugo Guanda Editore S.p.A., 1992

LA PRIMA ROSA  FIORITA APRILE 2011 (2)
La prima rosa fiorita, 2011

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Mappa illustrata, Dalston Stoke, Newington, Londra

291. e di te?

E di te, improvvisa stella mai vista prima? Luce offuscata da desideri altrui, attese e pretese d’altri, ruoli fraintesi?
Di te, a te come si può dire qualcosa se nessuno ti ha vista nel tuo splendore oscurato, stella lontana che hai cercato in tutti i modi di illuminare le nostre costellazioni con la tua vita e i tuoi ricordi, con i tuoi desideri di bellezza ed eleganza, con le fatiche quotidiane risolte col garbo della saggezza e della prudenza?
A te, come rivolgersi adesso, che solo da poco vediamo la tua lucentezza?  Adesso nulla, niente, i pluriversi ti hanno accolta nella loro grandezza e noi rimaniamo in silenzio  a confrontarci con l’egoismo che non ci diede tregua, con i diritti che inalberammo separandoli dai nostri doveri.
Mamma, adesso a te solo questo silenzio colmo di uno stupito amore; e la scoperta di te a cui, insieme al naturale perdono da chiedere comunque a ogni essere umano, rivolgo la richiesta di un perdono speciale, la richiesta della capacità di un perdono reciproco e so che tu comprendi bene questa mia preghiera.
Mamma, madre: questo tuo nome che è riferito al nostro rapporto te lo dico in tutte le lingue, in tutte quelle che sappiamo anche senza saperlo, in tutte le lingue di ogni tempo di ogni spazio, di ogni cuore.
Madre, scoperta nel dolore e nella lontananza come terra nuova dopo lunghi viaggi di smarrimenti; madre ora io ti percorro da esploratrice che rinarra al mondo la tua vita, ricchezza forse  sconosciuta anche a te stessa, ma completamente donata e seminata a tuo modo, senza interruzione, a tutti noi, spesso caparbiamente chiusi nelle nostre esperienze, conformate di giudizio, anch’esso spesso ignaro a noi stessi. Quindi, di te cosa dire? Intanto è a te che dico grazie, che ripeto perdonami, che ti chiamo continuamente per non perderci nell’illusione di ciò che chiamiamo tempo e spazio.
Mamma parole nuove da trovare.
Mamma che ancora insegni a vivere.
Madre infinita.

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289. e così ho contato i pasti che tu hai preparato …

(Cosa ha nutrito il cibo preparato dalle nostre madri? Cosa ha riparato e protetto la casa costruita dai nostri padri?
Ha davvero nutrito, riparato, protetto questo far diventare normale una guerra nucleare? )

Mi serviva una pentola grande, sai per uno degli incontri con le amiche e gli amici, quello della marmellata di mele che abbiamo fatto tutti insieme, si, quello.
Sono venuta a casa tua, ricordavo che ne avevi una proprio grande.
Mentre guardavo i tuoi attrezzi da cucina è arrivato improvviso lo stupore da un non voluto confronto con gli strumenti che si vedono nei video in cui si spiegano le ricette.
“Come hai fatto?” ti ho chiesto come se te lo avessi potuto chiedere. “Come hai fatto con il tuo ‘set’ così basico? Come hai fatto con questi strumenti tipici delle cucine semplici, anche un po’ povere?”
E così ho contato i pasti che tu hai preparato da quando ti sposasti. I tre pasti principali, senza contare merende, seconde colazioni, preparazioni di marmellate, pesche sciroppate, sottaceti, sottoli, dolci, succhi di frutta, pelati, pizze, e altre delizie tue. Tutti gli anni finché hai potuto cucinare, compresi gli anni bisestili, fanno una somma di decine e decine e decine di migliaia di pasti principali.
Poche pentole, il passabrodo, il passatutto, i mestoli di legno di tre misure, la pentola smaltata riservata per la crema pasticcera, due teglie rotonde, due rettangolari.
Decine di migliaia di pasti. E tu, una cuoca eccellente.
Ti vedo mentre guardo queste pentole e conto questo enorme numero di pasti principali.
Mentre qualche radio o giornale o televisione avalla progressivamente l’abitudine al pensiero di una guerra nucleare.
Mentre penso anche al babbo che costruiva case e curava l’orto, e tu cucivi e cucinavi. E mi penso, cresciuta dentro un mondo famigliare che costruiva, faceva forme, nutriva.
Mammabella, babbobello quanti grazie ancora vorrei dirvi, mentre anche il mio tempo passa e illumina angoli che nascosti non erano, erano purtroppo non ancora visti.
Millemila, Ennemila, Multimila Grazie per le domande che ancora sorgono nello svelarsi ulteriore e continuo del vostro pacifico mondo.
Pacifico, costruttivo. Voi avevate vissuto una guerra, voi lo sapevate cos’era.
Va bene così, il vostro tratto di pace lo avete costruito. L ‘esempio è costituito da chi lo dà e da chi se ne fa erede per farne dono a sua volta.
E bastano poche pentole, e anche i pochi ingredienti di una cucina semplice e sana.
Mamma, come facciamo a dire che per fare mondo non bisogna mica essere per forza in cima a chissà quale piramide di notorietà e di record?
E va bene, non lo diciamo, hai ragione.
Facciamo mondo, e basta. Che c’è tanto da fare.

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288. “Ogni uomo, ogni donna soffre nell’avere una sola vita, una identità, un paese, una lingua, un sesso, una carriera. Il romanzo […] è l’arte che permette a ciascuno , autore o lettore, di sfuggire alla propria vita.”

ALFIO SQILLACI, Dello scrivere di sé. Fiction e autofiction. Un’analisi parziale.

Il tema è capitale in ogni letteratura, ed è intricatissimo. Di chi possiamo parlare se non di noi stessi quando ci accingiamo a scrivere? “Parliamo tanto di me”, intitolava spudoratamente un suo libro Cesare Zavattini. È la domanda che si pone chiunque abbordi la fiction, dall’ammiraglio in pensione a Luigi Pirandello: debbo o non debbo “raccontarmi” mentre racconto? E come? Deponendomi, esponendomi, interponendomi, trasponendomi, nel racconto della storia d’altri? O viceversa, parlando di altri mentre parlo di me, ossia allargando l’orizzonte sul mondo a partire dal mio angolo visuale?

C’è la scelta della dissimulazione onesta. Chateuabriand in “Mémoires d’ outretombe”, ha enunciato mirabilmente il principio: « On ne peint bien que son propre cœur, en l’attribuant à un autre». Sì, funziona così: si proietta in un personaggio ciò che noi siamo, ma anche, attenzione, ciò che “non” siamo e che “vorremmo” essere: funzione ottativa quest’ultima del personaggio e della letteratura da tenere sempre in evidenza. Io sono goffo, bruttino e indeciso a tutto? (Stendhal, definito “cet idiot” da Flaubert). La mia vita è un inferno? Eccomi proiettato in un giovane splendente, amante appassionato, ricco di charme e di una vita spericolata. Stendhal sta a Julien Sorel quanto Alfred Hitchkock a Cary Grant. Il personaggio così creato avrà un po’ di sé, di autonoma e fantastica vita propria, ma anche un po’ di me. Io sono dentro di lui e lo agisco come un burattino. Essendone il suo dio creatore egli agirà secondo le mie intenzioni soggettive che farò sì, con l’intreccio, che divengano le sue, oggettive per così dire, tali ossia dal punto di vista della logica compositiva e della coerenza interna del racconto (c’è un terzo in commedia infatti: il lettore, che verifica e giudica, che se la beve o non se la beve).

Ogni uomo, ogni donna soffre nell’avere una sola vita, una identità, un paese, una lingua, un sesso, una carriera. Il romanzo (il racconto cinematografico) è l’arte che permette a ciascuno, autore o lettore, di sfuggire alla propria vita, ai limiti della propria esistenza. L’autore gode della libertà di inventarsi le vite immaginarie che intimamente desidera. Il lettore, per parte sua, identificandosi nell’eroe, compie lo stesso lavoro di sdoppiamento… di identificazione attraverso la proiezione.
Sia Madame Bovary che Julien Sorel che Gonzalo Pirobutirro “c’est moi”. Datemi una maschera e vi mostrerò il mio volto. “Vero” volto?

Ma di chi in verità parliamo quando parliamo di noi, quando diciamo “io”? «L’io, io! Il più lurido di tutti i pronomi!…», i pronomi sono pidocchi del pensiero, sbottava Gadda nella “Cognizione”. L’Io tradisce. E il fatto che la voce narrante venga dal suo interno non è garanzia di verità. Cosa sappiamo del nostro Io? Leibniz, il filosofo amato dal cognitivo Ingegnere brianzolo, precisava nella “Monadologia” e “Discorso di Metafisica” che solo Dio ha un «concetto completo» dei singoli «io», di Paolo o Giovanni che siano. Ossia di tutta la serie completa di atti e fatti! Paolo o Giovanni non sono riassumibili come la voce “Alessandro Magno” in un lemma di enciclopedia. Sotto la voce “Alessandro Magno” infatti non troverò un registro completo di tutto ciò che ha fatto Alessandro, ma soltanto informazioni che il redattore della voce avrà considerato essenziali per distinguere Alessandro Magno da altri personaggi storici. Immaginiamo però che sia Dio stesso a redigerne la voce. Solo lui potrebbe darci tutto Alessandro, la serie completa di tutti i suoi atti e fatti, darcene la sua “ecceitas”, il suo “possibile contingente” e il suo “necessario assoluto”, il suo noumeno e fenomeno, la sua essenza e la sua storia, il suo io sincronico e diacronico.

Ma noi, che pure diciamo “io”, non abbiamo un “concetto completo” di noi stessi. E in più, essendo venuti dopo Freud e Pirandello, abbiamo piuttosto certezza della rifrazione del nostro io, della presenza nascosta del nostro sotto-io (l’Es), dell’incombenza del Super-io, della sfaccettatura dei nostri piani di coscienza, del nostro essere e apparire per noi e per gli altri, della prismaticità dell’io. Sappiamo col brianzolo Ingegnere, che l’io è come un Club, dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono. E perciò, come i redattori dell’enciclopedia di noi stessi, procediamo alla “selezione epica”, spigoliamo tra i fatti della nostra vita, fra i nostri tanti io. Ci consoliamo con l’aglietto di piccoli fatti che tentiamo di illuminare col significato della nostra storia romanzata, con lo sguardo lungo e ricognitivo su noi stessi; che è l’unico modo, però, di dare forma, coerenza e significato alla nostra intera esistenza.

C’è chi, tuttavia, temendo l’inganno del riassunto e della selezione epica si adatta a ripercorrere ogni giorno i fatti della propria vita, come fa qui Stendhal, o come farà nelle oltre 17 mila pagine del suo “Journal” Amiel. Fatica sprecata, ché seppur larga, dettagliata, minuziosa, di “estrema sintesi” dopotutto si tratta. Direbbe Julio Iglesias (pardon!) in quella valigia – il romanzo –tutto il nostro passato non ci può stare…
Solo il romanzo insomma potrà dare il concetto completo e il senso di una vita: che si tratti de “Il rosso e il nero” o della “Cognizione del dolore”. Non redigendo un diario, ma scrivendo un romanzo possiamo dire chi siamo: nella menzogna del romanzo c’è la nostra verità.

(Appunti parziali. Il testo intricatissimo e complicatissimo di riferimento per gli studiosi e i lettori curiosi è il libro di Philippe Lejeune “Le pacte autobiographique” scritto e riscritto in quasi 50 anni. La prima edizione è del 1975, il mio ebook del 1996, ma ce n’è un’altra edizione più recente in circolazione).

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287. è arrivato il babbo

È una frase di altro tempo; non so se si usa ancora, allo stesso modo in cui si usava quando le mamme lavoravano in casa,  quando ero piccola, in una realtà di piccolo paese.
Una frase-orologio, che scandiva il tempo nei modi altri in cui veniva scandito quando ero piccola, si, e lo ero in un piccolo paese, sì.
Una frase che univa, che completava la giornata; e diceva molte cose: che si stava per cenare e che era sera e dava inizio alla notte.
Diceva la mia felicità, l’interezza della mia protezione, la voce del babbo nelle stanze della casa, il profumo del suo lavoro.
Tutto cambiava e si rinnovava quando la mamma diceva quella frase. O quando, a volte, la dicevo io.
Ogni sera, quell’orologio d’amore.
È arrivato il babbo, che aggiusta le cose rotte, che si dedica all’orticino nonostante sia stanco, che canta con la sua bella voce, che non si siede a tavola se prima non si è tolto gli abiti da lavoro, che è pensieroso, che ha un dolore, che mi indica le costellazione nel cielo e nel suo libro di astronomia dalla copertina blu scuro, che sfoglia gli atlanti, che costruisce presepi da favola, che “fa” la settimana enigmistica insieme alla mamma seduti intorno al tavolo della cucina, e io li guardo e la cucina si fa mondo più grande di quello disegnato sugli atlanti.
È arrivato il babbo, ci completiamo.
Il babbo, che tre giorni prima di morire mi chiede “per favore” se posso fargli cambiare posizione, allungando le braccia verso di me; e io gli rispondo che in quel modo si farebbe male e gli propongo un altro modo: e lui dice “no, che cosi ti fai male tu”, perché il babbo arriva anche tre giorni prima che lui muoia in mezzo a tante sofferenze e a tanta generosità.
E che cosa strana scrivere qui di quella frase forse desueta, per me ora sicuramente lontana nel tempo e nello spazio, a echeggiare di galassia in galassia, perché, comunque, le parole amorose non si perdono, vanno a viaggiare nell’uni-pluri-verso, che per questo è infinito.
E te lo immagini un pianetino giovane o un sole vegliardo o una stella lucente quando sentono giungere dal buio dello spazio la frase “è arrivato il babbo”?!
C’è festa da quelle parti, per tutto quello che di buono abbiamo seminato qui, specialmente quando arriviamo, e arriviamo sempre perché lo abbiamo promesso; e se non arriviamo più è perché non abitiamo più questa terra, questa dimensione, questa cucina, questo piccolo paese; e se non arriviamo più è perché ci siamo sempre, finalmente possiamo esserci sempre, in altra forma.

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286. senza più nostalgia

Avrò nostalgia del Grande Carro e di Cassiopea, così come ho nostalgia adesso di quei momenti in cui mio padre mi insegnava a riconoscere quelle stelle nel cielo notturno, che sembrava girare sopra il piccolo spazio della piazzetta dove abitavo?
Avrò nostalgia come ho adesso di quando, io piccola in braccio al babbo, stavo col viso in su, tra la sua voce e il suo abbraccio, e mi sembrava di navigare seguendo la bussola del suo dito che, sebbene segnato dal suo lavoro manuale, diventava per me un ago dorato che indicava la giusta direzione da seguire?
Ci sarà nostalgia lì dove non sappiamo se ci saremo, ma vorremmo esserci portandoci tutti i battiti del nostro cuore, tutti; e tutte le emozioni e tutti i sentimenti; e le carezze date e ricevute; e le foglie guardate e sfiorate; e l’acqua, e il pane, e le risate con gli amici; e le passeggiate?
Ci sarà nostalgia dell’essere nati e di aver terminato l’esperienza che chiamiamo vita?
Chi dice di sapere afferma che no, che ci sarà pienezza, forse un immenso presente colmo di tutto, proprio di tutto.
Anche del Grande Carro, allora? E della voce di mio padre?
E di te, mamma? Ci sarà la fine del tuo dolore per essertene andata via lontana da noi? Ci sarà la fine del mio dolore per la tua perdita, la fine del mio dolore per il modo in cui te ne sei andata? Potrò riposare nel tuo sorriso diventato luce e piccoli arcobaleni?
Se ci sarà qualcosa, ci sarà anche l’incredibile occasione che chiamiamo vita, quella che abbiamo vissuto, proprio la stessa e contemporaneamente trasformata dall’ Amore?
Avremo coscienza?
Babbo, mi indicherai altre stelle che da qui non possiamo vedere?
Mamma, ti spegnerai serenamente tra le nostre braccia, come avresti desiderato?
Avremo nostalgia?

O non l’avremo più, finalmente?

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285. sé: post girovagante e anche serissimo :-)

QUESTO POST È UN MIO PERSONALE DIVERTISSEMENT ED È MOLTO  PROBABILE CHE SIA ALTERATO IL SENSO GLOBALE DEL TESTO DA CUI TRAGGO I BRANI. CHISSA’.

TESI E CONCLUSIONI DEL TESTO DA CUI SI ESTRAPOLANO I BRANI DI QUESTO POST, NON SONO DEDUCIBILI DA QUESTI STESSI BRANI CHE, NON AVENDO CITATA LA FONTE,  SI CONFIGURANO INFATTI COME BARCHETTE SMARRITE IN UN GRANDE MARE, SENZA COORDINATE E SENZA CONTESTO E NON SERVONO PER COMPRENDERE IL  SIGNIFICATO CHE L’AUTORE HA DATO LORO, INSERENDOLI NELLA COMPLESSITA’ DELLA SUA OPERA.

IL POST, CHE SI SOFFERMA SUL CONCETTO DEL SÉ E SI PRESENTA SENZA  FONTE ALCUNA, È UN POSSIBILE SUGGERIMENTO DI RIFLESSIONE SU ALCUNI PUNTI:
. L’AFFERMAZIONE “IO SONO COSÌ, IO SONO QUESTO, IO SONO QUESTA”
. LA CIRCOLAZIONE DI FRASI DI CUI NON VIENE CITATA LA FONTE,
‘SUBLIME’ ABITUDINE DI UNA CONTEMPORANEITA’ SENZA LEGAMI E
CONTESTI E PRIVA DELLA CAPACITÀ DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ
. L’INTERPRETAZIONE RISPETTO AL TESTO TOTALE, E  CHE UN POST COSI’ PROPOSTO TENDEREBBE A
SUSCITARE, MA CHE SI CONSIGLIA DI NON FARE 🙂
. ALTRO 🙂 🙂

” […]
Questa è dunque l’operazione compiuta da Locke a metà del XVII secolo: stabilendo l’io come riflesso della propria coscienza, aveva reso la persona, che ne era il supporto, un soggetto materiale dei diritti e dei doveri al lavoro sottomesso alla legge di Dio. Fare della persona un soggetto costituiva un doppio rovesciamento: da un  lato, si trattava di ancorare la personalità al corpo (la testa) di un solo individuo, titolare dei diritti e dei doveri; dall’altro si trattava di circoscrivere questi diritti e questi doveri all’interno di un sfera del proprio, governata dalle esigenze della cura del sé. L’individuo, come lo concepiva Locke, era un lavoratore che attraverso il suo contributo personale al miglioramento dato da Dio, riceveva come ricompensa la capacità di rivendicarne i frutti e la consapevolezza che questa rivendicazione era fra i suoi diritti.
Questa figura dell’individuo, però, se  poteva apparire come all’apertura di un nuovo orizzonte di libertà, in realtà realizzava il contrario: improvvisamente, dato che in quanto persona doveva essere trattato come soggetto, l’individuo veniva ridotto al sostrato materiale, che era il suo corpo. Lungi dal diventare i padrone di se stesso, l’individuo che si cura del suo sé diventava il soggetto di tutto ciò che era in grado di agire sul suo corpo, diventava una cosa  soggetta a un proprio che era sempre quello di un altro, cioè il padrone della legge che organizza la devoluzione dei diritti e dei doveri.”
[…]
Del resto Locke non ne fece mistero: il suo obiettivo principale nel definire il self come movimento proprio della coscienza era quello di assicurare che le condizioni per cui un individuo poteva essere detto identico a se stesso potevano essere finalmente determinate.
[…]
Lungi dall’inaugurare il concetto di individuo libero e sovrano, Locke -come la maggior parte dei suoi contemporanei- propose uno scenario filosofico che autorizzava l’annullamento di ogni  libertà e sovranità nella pura e semplice sottomissione alla propria identità, e quindi a se stesso.
[…]
Il paradosso inaugurato da Locke è dunque il seguente: è nel momento in cui il sé si scopre come un’entità propria che esso scompare come soggetto della sua stessa identità – e dunque soggetto di coloro che ne detengono il potere di definire le coordinate perché hanno il controllo sul corpo che ne forma il sostrato.
[…]
Nella storia della modernità occidentale, numerose istituzioni hanno accompagnato questa metamorfosi della persona in soggetto, istituzioni che avevano l’obiettivo di stringere ulteriormente il nodo dell’identità, intesa come condizione necessaria per l’esercizio di una forma di capacità, sia essa giuridica che politica. La prima di queste fu l’istituzione del nome, che da segno di identità legato alla genealogia in epoca romana assunse gradualmente lo stato di garante dell’identità,
[…]
La Rivoluzione, le diverse restaurazioni e le Repubbliche la confermarono: la questione dell’identità era diventata abbastanza seria da richiedere l’attuazione di ciò che poteva provarla, ovvero stabilirla.
[…]
L’idea di istituire documenti di identità per tutti i cittadini di una data nazione è emersa solo gradualmente – cioè nel momento in cui, alla fine del XIX secolo, la questione di cosa sia una nazione sembrava essere diventata la domanda più importante che le autorità responsabili potessero porsi.
[…]
Avere un’identità è sempre stata una condizione dell’esistenza; essere se stessi si basa sull’avere una personalità […]. Ciò significa che esistere significa soprattutto nell’esistere per le autorità che hanno il potere di riconoscere se un individuo è qualcuno o nessuno – o meglio: se un individuo è effettivamente la persona stessa, la persona che dice di essere, ma di cui non si può dire che lo sia veramente. Non c’è quindi identità personale se non è provata;
[…]
La firma, ma anche la fotografia, l’antropometria e più tardi le impronte digitali: questo fu il repertorio elaborato nel corso degli anni dai primi responsabili dei primi servizi di “identificazione” delle varie forze di polizia dell’Occidente, per garantire la loro missione. L’obiettivo era quello di far confessare agli individui, anche contro la loro volontà, chi fossero ovvero quale nome poteva essere usato per collegare i vari tratti dell’identità che erano rilevanti per stabilirla, che venivano poi raccolti in un unico incartamento.
[…]
Alcune di queste caratteristiche erano antiche (lo stato civile, la data di nascita, ecc.); altre erano nuove, come per esempio la nazionalità, e tutte finirono per produrre le identità che pretendevano di provare: per molto tempo, nessuno avrebbe pensato che appartenere all’autorità di una nazione potesse far parte del ‘sé’. L’identità moderna è anche questo: una performance amministrativa.
[…]
La celebre tesi di Taylor in Le radici dell’io secondo cui ogni ontologia porta in sé l’insieme dei valori che permettono a un individuo di situarsi nel mondo, si dimostra quindi corretta, ma in un modo che il filosofo canadese non aveva previsto: quello del carattere poliziesco dei valori in questione. L’ontologia non è il discorso dell’essere; è il discorso del dover-essere – il discorso dell’incarnazione materiale, nel corpo, della volontà di controllo che le grandi categorie filosofiche di sé, di persona o di soggetto comportano. Essere è essere registrati; prendersi cura di sé, come è ormai consuetudine in Cina, preoccuparsi del ‘credito sociale’ che condiziona la capacità di ogni individuo di muoversi, di acquistare una proprietà o anche di trovare un lavoro – essendo l’identità una testimonianza automatica della virtù. Essendo il mio stesso che mi è proprio, il sé è anzitutto il proprio dell’insieme dei tratti la cui composizione singolare mi designa e che permette di provare che sono proprio io, che il mio io è davvero il mio sé, che è davvero il se stesso del sé-in-persona. Il discorso della cura di sé, lungi dal costituire l’orizzonte di una sorta di padronanza dell’individuo stesso, è l’organizzazione specifica, da parte di ogni individuo, della resa di questa padronanza di fronte a coloro che circoscrivono il valore dei tratti che definiscono il sé – dall’aristocrazia greco-romana ai padroni del lavoro del capitalismo contemporaneo. non c’è differenza, da questo punto di vista, tra la morale antica cara a Foucault, il pensiero del self sviluppato da Locke e gli esercizi di crescita personale […]: tutti non hanno mai avuto altro obiettivo che la concentrazione dell’individuo all’interno dei limiti del soggetto. In ogni caso, prendersi cura di sé assume di volta in volta l’aspetto di una modalità di esercizio della disciplina, quella di un corpo da cui ci si attende che si comporti in un certo modo, regolato fino ai dettagli in apparenza più intimi. Per dirla in un altro modo, la cura di sé è l’investimento totale dei corpi da parte di una  preoccupazione per l’identità o la medesimezza sotto forma di una specie di servizio militare; un addestramento al servizio di ciò che si è arrogato il potere di decidere, di riconoscere chi è chi, chi è il sé. Quando Louis Althusser, in un celebre testo dedicato agli  ‘Apparati ideologici di Stato’, evocava il riflesso del voltarsi quando si sente dire ‘Ehi tu, laggiù’, non diceva altro: l’ ‘interpellazione del soggetto’ che ha luogo quando si viene chiamati è in effetti una sottomissione. Non c’è alcun soggetto se non l’interpellato.

Niente testimonia meglio questo allineamento tra il sé e la polizia del nuovo genere letterario che è apparso recentemente nel mondo della crescita personale: quello dell’anticrescita personale, dei manuali per non doversi più prendersi cura di sé e finalmente accontentarsi di ‘essere se stessi’.
[…]
E’ vero che, per Freud, la distinzione all’interno del soggetto delle tre istanze dell’Io, dell’Es e del Super-Io […] doveva portare a qualcosa di simile a un ordine coerente. La meccanica delle nevrosi che distribuisce le incomprensioni e le contraddizioni inconsce tra le diverse istanze della topica del soggetto è una meccanica spiegabile, per cui è sempre possibile conferire un significato, anche se oscuro, alle transazioni intime con le quali ciascuno cerca di cavarsela come meglio può. Ma questo orizzonte di coerenza o consistenza implica anche l’assunzione di una tesi decisiva: che guardare il soggetto umano come un che di compatto ha come unico risultato quello di ignorare il modo in cui sono distribuite le forze che cercano di imporgli il loro posto.
[…]
Ciò che la psicoanalisi ha rivelato è che se l’Io non è più padrone in casa propria, è perché una serie di altri padroni hanno preso il suo posto, tirando i suoi fili da luoghi che resteranno per sempre inaccessibili.
[…]
Lo scenario proposto da Freud era quindi paradossale: da un lato, offriva a coloro che lo avrebbero seguito la possibilità di liberarsi da secoli (o persino millenni) di pensiero sul ‘sé’; ma dall’altro, faceva poco più che sostituire una fortezza con un’altra. Essere un soggetto implicava sia una liberazione dalla prigione dell’essere, sia il riconoscimento che questa liberazione era essa stessa solo un momento in un processo più ampio di radicamento delle vite degli individui nel territorio contraddittorio della psiche.
[…]
Credere di essere ciò che si è, insegna la psicoanalisi, significa smarrirsi nella madre di  tutte le illusioni; in realtà, non si è ciò che si è; si è ciò che non si è – un non-sè, un non-io, un non-essere che segna il fallimento abissale di tutti i tentativi di sottoporre il sé a un regime di esercizio. Da questo punto di vista, la psicoanalisi è il contrario assoluto di qualsiasi forma di crescita personale, sia che si inserisca nell’orizzonte delle pratiche d ‘cura di sé’ care a Foucault, sia in quello del self-help […] Lo sviluppo di un essere umano non è lo sviluppo della sua persona, ma lo sviluppo della sua assenza – o comunque della sua frattura in tutta una serie di istanze sulle quali è inutile pretendere di esercitare un qualsiasi controllo.
[…]
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Forse la seguente lezione: che, per una serie di  pensatori che vengono dopo la psicoanalisi […], anche se considerato come merda, cacca, carogna o porcheria, ci deve essere un soggetto in quanto condizione logica del vero. […] Il soggetto è una necessità.
[…]
Senza l’effetto del soggetto, è impossibile attribuire una dimensione di verità all’effetto che emerge; è impossibile collegare ciò che appare e ciò che questo apparire comporta, ciò che accade e le conseguenze di ciò che accade; senza l’effetto del soggetto, la verità resta senza effetto tout court. Perciò è possibile dire che  -in assenza dell’altro- il soggetto è l’effetto del vero – e quindi che il vero, se è vero, trova il su destino nella ‘porcheria’ con cui è fatto, poiché in quanto soltanto effetto, il soggetto è tutto ciò che la persona produce in effetto: il soggetto è l’effetto che fa il vero. […] considerare il soggetto come l’effetto dell’evento sembra poter condurre soltanto qui: nel circolo logico dell’effetto che è l’effetto di ciò che fa.

Di questo anello logico che forma un nodo tra le dimensioni dell’essere, del soggetto, del sé e della verità, è senza dubbio Lacan che ne ha proposto ancora una volta la definizione più rigorosa, sotto forma di una citazione inaspettata alla fine del suo famoso saggio […]: ‘Nel ricorso da noi privilegiato del soggetto al soggetto, la psicoanalisi può accompagnare il paziente fino al limite estatico del ‘Tu sei questo‘ [‘Tu es cela‘], in cui gli si rivela la cifra del suo destino mortale: ma non sta al solo nostro potere di esperti in quest’arte il condurlo al momento in cui comincia il vero viaggio.’
[…]
Tu es cela‘, ‘Tat twam asi‘: questa frase è il mantra ripetuto alla fine di ogni verso di una parte decisiva della  Chāndogya Upaniṣad dove il grande saggio Uddalaka Aruni spiega a suo figlio Svetaketu le lezioni più importanti da meditare per raggiungere finalmente jñāna, la conoscenza.
[…]
Ora, secondo i testi della tradizione vedanica, la più seria, la più pericolosa di queste illusioni, quella da cui ogni brahman deve guardarsi se vuole un giorno raggiungere la realizzazione dell’ātman non è altro c he il sé.
[…]
Eppure ātman può anche essere tradotto come ‘sé’ – ma a differenza del sé che ci farebbe rivolgere lo sguardo verso noi stessi, verso il nostro interno la nostra esistenza, il ‘sé’ coinvolto nell’ ātman è un sé dell’esterno, un’esteriorizzazione del sé.
[…]
Perché è con questo che dobbiamo riconciliarci: con la dimensione dell’impossibile che attraversa tutte le ossessioni che il pensiero occidentale non smette di custodire – e di cui le tradizioni dell’estremo Oriente, che siano l’induismo, il buddhismo o le grandi scuole cinesi e giapponesi, non ne hanno mai avuto bisogno.
[…]
sulla base dell’affermazione incauta che il soggetto è davvero il soggetto, che il sé è il sé, l’io è l’io e l’essere è l’essere, e che basta accettarlo. Solo che questo è proprio ciò che è inaccettabile – è ciò che resiste a tutti i nostri tentativi più o meno volontari, più o meno consapevoli di ‘accettare’ ciò che siamo, poiché non siamo nulla che possa essere accettato. Come Uddalaka spiegò a Svetaketu, non ha senso perdere tempo cercando di risolvere l’enigma di ciò che siamo, poiché siamo soltanto quell’enigma – solo l’asi – il ‘così’ che, nella sua semplicità, segna il luogo della nostra impossibilità. Essere impossibile: questa potrebbe essere una definizione accettabile dell’essere in quanto attraversa sia l’ontologia psicoanalitica che l’orizzonte vedantico della conoscenza – essere impossibile, come quando diciamo di un bambino che non riesce a stare fermo che è ‘veramente impossibile’. Di fatto, il soggetto è colui che non sa stare al suo posto – o meglio, colui che, per stare al suo posto, nel suo luogo, nel suo topos, smentisce che si tratta di un luogo in senso stretto, ovvero uno spazio in cui starebbe come un proprietario sta su una terra su cui possiede dei diritti. Il luogo del soggetto è sempre altrove, da qualche altra parte; non è un  luogo proprio, ma al contrario il luogo di uno spossessamento
[…]
Ancor più del luogo di un”estasi’ che rivelerebbe la “cifra” del soggetto, è possibile parlare di una liberazione dal suo attaccamento permanente a quello che sarebbe il suo luogo proprio – che si chiami ‘sé’, ‘coscienza’, ‘io’ o ‘merda’. Questa liberazione, inoltre, è già avvenuta; il soggetto non è mai prigioniero del suo caput, come voleva Locke (e tutti coloro che, dopo di lui, pretendevano di relegare il sé al cervello, più di quanto lo fosse dei movimenti della sua coscienza – o del lavoro che ci aspettava che facesse. L’idea di lavoro, che Locke considerava come l’orizzonte di realizzazione dell’individuo che poteva rivendicare come  proprio ciò che ne risultava, è un’idea che non ha altro scopo se non quello di inscrivere il corpo della persona nello spazio di imperfezione richiesto dalla polizia dello sviluppo personale. Come ci ha ricordato Mark Alizart, c’è un legame sostanziale tra l’affermazione del valore del lavoro e il  perseguimento di un programma di riforma dei corpi – il programma di riforma nato con la rivoluzione evangelica e che  ora trova la sua sintesi nel workout, nella ginnastica come lavoro. Dietro la cura di sé, si nascondeva infatti il lavoro del sé – in quanto il lavoro è l’unica pratica riconosciuta capace di legittimare un proprio […] Istituendo il ‘Tu sei questo’ vedico come termine ad quem della rivelazione psicoanalitica, Lacan ha spazzato via questo orizzonte di perfezionamento attraverso il lavoro
[…]
Contrariamente a quanto voleva il famoso apoftegma nietzschiano (tratto da Pindaro) i pensatori cinesi non si preoccupavano di ‘diventare ciò che sono’, quanto piuttosto di essere ciò che diventano – cioè di dissolvere ciò che è possibile dire dell’essere nelle circostanze del divenire. Forse dovremmo anche andare oltre e sostenere che il cuore del pensiero cinese dell’oblio di sé, al contrario del  pensiero greco della cura di sé, consiste nello stabilire che non c’è altro orizzonte possibile per l’individuo se non quello di essere il divenire tout court
[…]
Piuttosto che parlare di ‘essere’ chiunque, dovremmo parlare di ‘può-essere’ chiunque, così come Nicola Cusano, a metà del XV secolo, parlava di possest per designare la possibilità di tutto così come si trova implicato in Dio.
[…]
E’ possibile dire che c’è un ‘può-essere’, e che questo può-essere, dispiegandosi ovunque, si dispiega indifferentemente in qualsiasi cosa – sebbene sia proprio questa indifferenza a garantire che qualsiasi cosa sia ogni volta qualcosa.

C’è un può essere chiunque: per quanto possa sembrare strano, per quanto possa sembrare deludente, questa è la massima che riassume nel modo più esaustivo ciò che accade quando ci si libera dal sé in favore di una pratica di incontro che si svolge interamente nelle circostanze. Improvvisamente, il linguaggio ereditato da quasi due millenni di storia del pensiero svanisce come un brutto sogno: no, non siamo mai ‘stati’ una persona; no, non abbiamo mai ‘avuto’ un sé; no, non abbiamo mai avuto a ‘disposizione’ una coscienza. L’unica cosa che siamo sempre stati o che abbiamo avuto è ciò che ci rende soggetti – nel doppio senso che i poteri hanno bisogno di un soggetto per dispiegare i loro strumenti, e che è anche come soggetti che si rende visibile l’inesistenza del luogo dove quei poteri pretendono di operare. Dal pensiero greco alla psicoanalisi, la storia dell’interesse della filosofia per ciò che costituirebbe il proprio di ogni persona è dunque la storia di un’autodistruzione organizzata – l’autodistruzione del soggetto che, dalla sua posizione di soggezione, osserva i  poteri passargli accanto.
[…]
Solo il potere è interessato a lavorare sul sé o agli esercizi del sé, perché solo il potere ha bisogno degli esseri performanti – cioè di soggetti che soddisfano la disciplina di un perfezionamento che li  pone per sempre sotto il controllo di padroni che  hanno la capacità di decidere i criteri di questa perfezione. Il diventare può-essere chiunque, invece, non richiede nessun esercizio, nessun lavoro, nessuna condizione; del divenire è possibile programmare soltanto l’incondizionalità, il fatto che ci sarà divenire e che starà a chi lo attraversa accompagnarlo o dargli un senso. Tale accompagnamento, tuttavia, è colmo di potenze che speta a ciascuno esplorare senza sapere bene dove porteranno, ma sapendo che condurranno da qualche parte, che questo ‘da qualche parte’ non sarà altro che il richiamo di una qualche altra parte, sempre altrove.

E’ proprio questo richiamo che la storia dell’identità ha costantemente cercato di rendere inudibile, da quando il sé si è imposto a scapito di tutte le altre istanze, di tutte le altre strategie, che avrebbero potuto preservarne l’insistenza, la presenza, la risonanza. Considerando che la posta in gioco del sé era, nel movimento della coscienza, qualcosa come l’identità di un individuo considerato come persona, Locke ha lasciato in eredità a questa storia uno strumento del potere di cui stiamo solo cominciando faticosamente a liberarci.
[…]
Nella logica dell’identità, si ha solo un’identità identica a coloro che la condividono – quindi non si ha alcuna identità, si è, dal punto di vista delle qualità, solo una copia perfetta di tutti coloro che, pur rivendicandola come propria, condividono questa qualità. Il discorso dell’identità è un discorso di clonazione:
[…]
L’ontologia è insostenibile: è il luogo di una contraddizione permanente, che essa è capace di risolvere solo se accetta di aprirsi alla comprensione che ‘essere’ ha senso soltanto nel dislocamento operato da un verbo copulativo – e non nella marchiatura dell’identico. Se l’operazione dell’essere è l’operazione della copula, allora l’essere è la categoria insostenibile su cui si infrange ogni possibile identità, ogni  possibilità di somiglianza, a favore di una fluttuazione generale che poggia sul divenire, sugli incontri e sulle circostanze. Essere è divenire, perché l’essere non è mai essere -mai del tutto, mai nel modo sognato da chi ritiene che l’idea di essere permetterebbe loro di definire le linee di demarcazione che determinano gruppi più o meno costituiti, di cui sarebbe possibile, per coloro che ne possiedono la chiave, dire la verità.
[…]
Dobbiamo dunque farla finita con noi stessi, perché dobbiamo farla finita con tutto ciò che poggia sull’idea che saremmo qualcosa per garantire che non siamo qualcos’altro, che non cominciamo a vagare fuori dai cardini ontologicici che formano le frontiere politiche del possibile.
[…]
Nulla è impossibile, infatti, tranne ciò che è irragionevole
[…]
Nulla è impossibile, tranne l’impossibile.”

porre attenzione anche a certe trasmissioni televisive
che fanno passare come sinonimi ‘identità’ e ‘lavoro svolto’

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https://www.repubblica.it/venerdi/2021/12/03/news/gravino_viaggi_da_fermo_mappe_terra_vuota_nobody_lives_here-328702600/

https://www.touringclub.it/notizie-di-viaggio/la-rinascita-degli-atlanti-dodici-titoli-da-non-perdere-tra-mappe-e-bandiere/immagine/2/antica-mappa-cinese

282. ci si rivede, per Caos

Toh, ci si rivede.
Cioè, sono io che ti rivedo. Per caso, come sempre.
Appena uscita da un negozio, faccio qualche gradino su una scala che sta lì accanto e ti vedo uscire da una porta che affaccia su uno spazio che è quasi una piazzetta (tutti questi articoli indeterminativi la dicono lunga, vero?). Vai di fretta, poi ti fermi, guardi alla tua sinistra, e riparti di corsa; hai qualcosa in mano.
Io sto ferma sul gradino da quando ti ho visto uscire dalla porta, ti guardo e sono stupita dal Caso, dal Destino, da Dio: si divertono, loro, chiunque siano, e dovunque siano, con le loro maiuscole obbligatorie e le loro presenze potenti ma sempre inafferrabili. O, almeno, abbiamo deciso così, noi esseri umani; cioè, lo hanno deciso quelli che, tra noi, si sono messi a pensare a osservare e poi a scrivere “è così, è cosà”, e tutti gli altri dietro.
Ah, dimenticavo. E’ stato aggiunto anche un Livello Energetico, che non è quello per cui paghiamo la bolletta, è una cosa che sta dalle parti della Psiche, dell’Anima, dello Spirito: c’è una certa varietà di collocazione, i lavori sono ancora in corso. E c’è un Livello di Attrazione, di Risonanza tra le Anime, insomma cose così.
Tutto questo per dire “guarda un po’, e chi se lo aspettava?!”: io sono qui per caso, una sosta, uno sprazzo; no, figurati se adesso ti dico di quale sprazzo, d’altronde siamo tutti di passaggio, no? dovunque, comunque sempre, di passaggio, lo sai bene, tu sei maestro in queste cose; molto di passaggio, per la mia esperienza. Però la fedeltà, la sincerità, l’amore, c’erano sempre nelle tue parole, ci mancherebbe, lo ricordo bene: rendono molto affascinante il passaggio, lo scivolare via, andarsene.
Queste cose le dico adesso, mentre scrivo e  ripenso a quel mono-incontro, eh sì, ti ho incontrato e ti ho visto solo io. Fossi stato un’altra persona, ti avrei chiamato, corso incontro, sorriso abbracciato; “come stai? come stai?”.
In quel momento, quando ti ho visto, a dire il vero, lo avrei fatto anche con te, ti guardavo sorpresa, ma anche con tenerezza e affetto. In quel momento c’era solo desiderio di amicizia, fiducia, amore. Ma siamo di passaggio, lo hai dimostrato.

Continuo il mio girettare, il pensiero di te vela ciò che dovrei vedere.
Però.
Poi.
A metà di un’altra scalata che sto scendendo, ti rivedo. Stai entrando di corsa in una piazza, hai in mano un oggetto rettangolare, sembra grigio, lo guardi e poi guardi davanti a te, alternativamente. Vai di corsa, come prima.
Chi cerchi?
Scendo lentamente, ma quando esci dalla mia visuale non mi volto verso la piazza, non guardo che direzione prendi. Tu non hai conosciuto la mia discrezione, non hai la minima idea di quanto io sappia farmi da parte. Siamo di passaggio.
Forse per questo ti vedo due volte mentre mi trovo sulle scale. Le scale non sono luoghi di sosta, sono di passaggio, servono a unire piani diversi.
Ecco: il Caso, il Destino, Dio, il Livello Energetico, quello di Attrazione e chi più ne ha più ne metta, mi stanno ricordando questa cosa dell’”essere di passaggio”, è importante.
Invece, dove ti sei fermato e chi ami lo hai detto al mondo. Da altre parti, diciamo.
E nonostante tutto, per un po’ penso che stai cercando me, che mi hai visto in qualche modo. Ma che non mi vedi mentre mi cerchi. Destino, Caso, Dio, Energia, Attrazione, cosa state facendo? Solo Caos.
Le scale, siamo di passaggio …
Ma io ti vedo dall’alto, entrambe le volte. Ha un significato anche questo? E chi lo sa? Io so solo che ogni tanto bisogna alzare gli occhi, se non verso il cielo, almeno verso le scale.
Continuo a camminare, sperando i tuoi occhi su di me. Che follia!
E’ solo Caos, tutto questo. Né Caso, né Destino. Tantomeno Dio. Energia ed Attrazione se ne sono andate da tempo, se mai ci sono state in te.
Continuo a camminare. Il mondo è tanto grande. E così lo Spazio e il Tempo. Coloro che pensano e osservano e poi scrivono, dicono così, bisognerebbe fidarsi.
Intanto è Caos.
Cioè quell’attimo prima dell’Amore.
Che verrà.
Tranquillo, non tra me e te.
L’Amore, quello che spiegherà anche questo incontro, e perché ti vedo due volte entrare in uno spazio largo mentre io sono sulle scale, e perché corri, e chi cerchi, e perché te ne sei andato via dalla mia vita, e perché te ne sei andato via dalla tua.

E’ Caos, bisogna fidarsi. Anche questo lo dicono quelli che pensano e osservano e poi scrivono.
Altrimenti ci saremmo trovati di fronte, tu ed io, vicini, col cuore semplice e dolce e libero a dirsi “ciao, come stai?”. Come due esseri umani adulti, maturi.
Ma siamo Caos. Stai tranquillo, lo siamo tutti. “Adulti” è una parola grossa, forse avrà un senso in futuro, forse.
Adesso ci aggiriamo per scale e piazze, chi lentamente, chi correndo.
Caos. Come quando si dice “Toh, ci si rivede”, per Caos.

Comunque, c’è sempre da ricordare che qualcuno direbbe

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E io sarei anche d’accordo.

https://it.wikipedia.org/wiki/Caos_%28mitologia%29

https://lauracanali.com/portfolio-item/caoslandia/

https://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/pietro-greco/ricerca-della-complessita-caos/aprile-2013

 

 

281. questo è un blog :-) … e … a rivederci :-)

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“Questo non è un blog”: iniziai così questo spazio virtuale. Un divertimento: divertĕre ‘volgere altrove, deviare’.
🙂

Questo è un blog.
Non è un diario intimo.
Non è una lettera scritta al più intimo e fedele degli amici (o alle amiche).
Non è una confessione.
Questo è un blog.

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Si configura senza ombra di dubbio e dichiaratamente come una narrazione.
Narrazione  come selezione di fatti. Selezione dovuta alla scelta di chi scrive, ai tempi in cui è calato, al tipo di spazio virtuale che occupa.
Narrazione come invenzione di fatti.
Narrazione come unione di invenzione e fatti ‘reali’.

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Questo è un blog.
E’ un gioco.
E’ un tentativo di esercizio di scrittura.
E’ un tentativo di esercizio di riflessione.
Vorrebbe contribuire a sottolineare l’importanza della consapevolezza e della responsabilità.
Con ogni mezzo.
Anche proponendo tutti i post come pura invenzione.
Come narrazione.

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Vorrebbe contribuire ad ampliare sguardo, percezione, pensieri, sensibilità.

Cosmo

In tutti i miei blog precedenti, in uno spazio in alto a destra, sotto il titolo “Accordi e Armonie” scrivevo, tra l’altro:
“[… ]  L'”io” come soggetto narrante non si identifica necessariamente con me. Riferimenti a persone o fatti reali sono puramente e ‘artisticamente’ casuali. E’ un gioco di scrittura che, come ogni scrittura e ogni gioco, nasce dal darsi una regola. […]”

Scrive Rosa Montero, nel ‘Post scriptum’ alla fine del suo delizioso libro “La pazza di casa“: ‘Tutto quello che racconto in questo libro a proposito di altri libri o altre persone è vero, cioè corrisponde a una verità documentata, ufficialmente verificabile. Ma temo di non poter dire altrettanto per quanto concerne la ma vita privata. Perché ogni autobiografia è fittizia e ogni fiction è autobiografica, come diceva Barthes.”

 

Mi piacerebbe che questo blog e tutti i precedenti fossero stati letti rispettando il mio intento.
Purtroppo non sempre accade che gli scritti vengano intesi in modo corrispondente al senso proposto da chi scrive.
Invece di prendere il senso offerto suggerito e condiviso, i testi a volte vengono letti come espressione di fatti personali, intimi, privati.
Ma nulla autorizza i lettori a credere questo. Nessun testo, nessun video.
Chi scrive sa bene quanto e come chi legge spesso tenda ad identificare autore e scrittura, specialmente i meno … ‘adusi’ … alla letteratura, o alla storia, insomma alle forme, le più varie, di narrazione, di racconto.

Questo è un blog.
E’ coerente?
E’ contraddittorio?
E’ invenzione.
Il soggetto narrante ‘io’ potrebbe essere, nella realtà, completamente diverso dal soggetto ‘io’ che scrive. ‘Io’ che scrivo potrei pensarla diversamente da ciò che scrivo, ed esercitarmi qui nella capacità di sostenere e argomentare il contrario di ciò che penso. Esercizio d’altronde praticato per allenare le capacità argomentative da ben altri e più colti ‘io’ dell’io che scrive.

Questo è un blog.
Questo blog è un esercizio di scritture, come tutti i miei precedenti.
Chi ama scrivere sa cos’è un esercizio di scrittura. Sa cosa significa creare i personaggi, renderli plausibili e coerenti. Sa cosa significa creare il mondo in cui far muovere i personaggi. Sa cosa significa architettare una storia.
Sa la distanza e contemporaneamente l’immedesimazione necessarie per costruire un romanzo, un racconto.
Sa il piacere profondo dell’invenzione letteraria.
Sa le avventure narrative e gli esperimenti in cui si tuffa senza remore.
Può un blog prefigurarsi come un tentativo di racconto?
I post come capitoli, per esempio.
Un modo nuovo.
Un tentativo.

Anche questo è un modo per suggerire l’importanza della consapevolezza.

Se, attraverso questo che ‘è un blog’, si sia riusciti a suggerire ciò che accade nell’ultima scena del delizioso film “Un incantevole aprile”, allora il senso del blog è rispettato e raggiunto.
Chi scrive racconta che prima amò il libro di Elisabeth von Armin e poi, allo stesso modo, il film, che ritenne fedele al romanzo.
Ma chi scrive?
Una persona reale?
Un personaggio?
🙂

Questo è un blog.

 

re-, ri- … a seguire, verbi a scelta 🙂

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RAMETTI NUOVI - LA SPERANZA DEL CUORE

a ri-vederci :-*

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280. di consapevolezza e libertà … “il transito terrestre” …

Fiocca la neve leggiadramente
sui cesti delle fioraie: imbianca
le giunchiglie e le viole,
le fresie magre, venute
dai paesi del sole.
A guardarle si pensa
dei tanti destini errati
che dolgono
per le vie della terra
ed un furore nostalgico serra
per le vie d’oro dell’anima
a cui neve non giunge.
ANTONIA POZZI, Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio, a cura di Elisa Ruotolo,
ed. Interno Poesia, 2019

 

Seguo un corso di arte sacra. Quest’anno si parla di Morte Giudizio Inferno e Paradiso nelle opere d’arte della Diocesi. Un relatore parla dei “Novissimi”, le cose ultime (Morte; Giudizio particolare e universale; Inferno; Paradiso) e si fa guidare dal Catechismo della Chiesa Cattolica e da passi dei “Testi Sacri”. E’ un sacerdote molto colto, e molto bravo nell’esporre. Ci ricorda ancora una volta che l’arte è stata una forma di catechesi. Sottolinea in un passaggio, riguardo ad alcune opere del passato, che rappresentavano la “teologia del tempo”, che spesso veniva usato “un linguaggio secolare” affinché le persone potessero comprendere al meglio il messaggio cristiano.
Questi concetti diventano come sedili di pietra su cui mi fermo: toccano un altro dei punti che sono per  me motivo di riflessione.

La circostanza (o il disegno di qualcuno) di essere nati in un tempo invece che in un altro. In una famiglia invece che in un’altra. In una nazione invece che in un’altra. Qualcuno, non ricordo chi, ha detto “gettati nel tempo”: è un’espressione che non amo, già ne ho parlato in questo blog, ma in qualche modo descrive il nostro trovarci in situazioni, anzi, in sistemi e tempi di vita che non abbiamo scelto.
In quei contesti maturiamo e/o non maturiamo, cresciamo o no; abbiamo l’opportunità di diventare consapevoli e responsabili e, quindi, liberi oppure no.
Ho sempre pensato ai miliardi di persone esistite nelle varie epoche, appartenenti ai diversi ceti sociali, alle visioni del mondo che si sono succedute nei secoli, alle nostre visioni del mondo, alle convinzioni, alle credenze, ai valori, agli stili di vita …
E mi chiedo: quante possibilità ha ognuno di noi di crescere realmente? Quanto le situazioni in cui siamo “gettati” permettono di crescere in consapevolezza e, quindi, di essere liberi?
Mi pervadono tenerezza e dolcezza e, a volte, malinconia, nell’immaginare le nostre vite “in un tempo”, “in quel tempo”; con quelle idee e non altre, con quell’educazione e non altra. Lì, in quel periodo … le nostre vite così casuali, e se anche non casuali, così tenacemente alla ricerca di un senso anche quando questa ricerca non è palese né voluta.

Le parole del relatore mi toccano nel profondo. “Teologia del tempo” … quella teologia ha conformato idee, comportamenti che poi, nel tempo, sono cambiati perché è cambiata la teologia … idee, comportamenti, vite “in balia” dei tempi … idee sbagliate, comportamenti che poi si sono rivelati sbagliati, da correggere … “ma che colpa abbiamo noi?” recitava una canzone tanti anni fa …
Che colpe possono aver commesso quelle vite in balia dei tempi, che colpe commettono quelle vite non evolute in consapevolezza e coscienza?
Giudizio particolare e universale? Inferno? Paradiso?
Tre anni di studi di teologia, una frequentazione cristiana assidua piena convinta per la maggior parte della mia vita … e non ho ancora una risposta. Sento le vite, le sento, nel volgere dei giorni, dentro tempi storici e luoghi che possono precludere ogni apertura spirituale.

E allora faccio la domanda al relatore. E conosco la portata della mia domanda, ne so le implicazioni. “Proprio per questo nostro essere ed esistere nel tempo, nei tempi limitati e caratterizzati; per queste nostre vite mai complete nel tempo, non dovremmo essere tutti salvati?”
Tra tutte le domande ricevute, il relatore definisce ‘interessante’ la mia. E si avvia a rispondere. Parla delle particolarità e dei limiti dei tempi, sì. E poi sento che sta per accadere, sento che sta per dire la parola fatidica, eccola arriva: ‘libertà’, ‘noi siamo esseri liberi, possiamo scegliere’. Va avanti ancora per un po’ e conclude, da buon oratore, con una frase ad effetto: “Dio non condanna per un no, ma salva per un sì.” Sorrido e lo ringrazio. Vorrei continuare, ma non voglio togliere spazio ad altre domande di altre persone.

Rimango con le mie domande.
Può essere davvero libera una vita così? Può davvero ‘decidere’ ‘in libertà’?
Di quale libertà parla la teologia del tempo, di questo nostro tempo, per esempio?
Esiste una libertà senza consapevolezza?

Riporto qui due parole scritte nel post n.210, giusto per non ripetermi, anche se mi ripeto queste domande da sempre …
“La consapevolezza: sapere chi sono io, sapere il mondo, sapere  la relazione tra me e il mondo …
E la libertà: libertà di, libertà da, libertà per, libertà con …
Consapevolezza e libertà vengono scritte e affermate a gran voce dappertutto. Sono altrettanto vissute?
Legàmi e intrecci tra consapevolezza e libertà.
Esiste la libertà senza consapevolezza? E la consapevolezza senza libertà? Non c’è libertà senza consapevolezza e non c’è consapevolezza senza libertà.
C’è prima la libertà o c’è prima la consapevolezza?
La consapevolezza e la libertà raggiunte fanno cadere ogni narrazione, ogni interpretazione, ogni mappa; perfino ogni descrizione, perché anche una descrizione è una forma di interpretazione. Questa condizione è raggiunta dagli illuminati, dai risorti di cui sentiamo parlare nei miti, nelle religioni: è una condizione d’arrivo di un  lungo cammino.
Quindi, prima di quella mèta, prima di aver fatto anche un solo passo in quel cammino, possiamo onestamente parlare di libertà e di consapevolezza?”

Spesso mi sento che sto abbracciando l’intera umanità, di prima, di adesso, di dopo. Un abbraccio di infinita dolcezza per ogni passo ogni respiro ogni lacrima ogni sorriso. Un abbraccio di tenerezza per ogni errore, per ogni incertezza, per ogni ferrea e sbagliata convinzione.
Non avremmo voluto così, se avessimo potuto scegliere. La libertà si configura come re-azione, come risposta, ed è già tanto.
Ma rimane ancora come domanda.

Diventare Esseri Consapevoli è il Nostro Compito. Questo ci rende Esseri Liberi.

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