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Post n°1265 pubblicato il 19 Settembre 2014 da Vince198


Un buon matrimonio è quello
in cui ciascuno dei due nomina l'altro custode della sua solitudine.
Così Rainer Maria Rilke.. (Da Lettere 1897-1926 – corrispondenza del poeta e scrittore con Lou Salomè, psicanalista ed allieva di Sigmund Freud).

Ho cercato di dare un senso a questa affermazione che lascia in me qualche perplessità, guardando sia nella vita di Rilke, che, molto più modestamente, della mia, cercando di dare un significato alla parola solitudine.
Si, comprendo, cari amici, che molti di voi storceranno il naso di fronte a queste mie interrogazioni – non mi sento che un granello perduto nell’universo di fronte alla grandezza di questo poeta, tuttavia cerco di comprendere quello che realmente ho dentro e quanto possa essere di “sollievo” il partner che mi sta e a cui sto accanto da anni, cui chiedo e dono collaborazione sincera ed affettuosa più che mai in ogni momento del giorno. Per lo meno provo a diradare qualche nebbia “ostinata” in questo tema.

Guardo nella vita sentimentale di Rilke e, in questa corrispondenza, mi par di intuire che il poeta e scrittore si addentri in un mondo in cui l’amore è prevalentemente spirituale, conoscitivo, dalle fortissime implicazioni di natura estetica e filosofica. E trova in Lou Salomè – che ha quattordici anni più di lui ed è una valente psicoanalista - un importante punto di riferimento più che altro a livello di corrispondenza, per esternare quello che più lo tormenta. Da un lato la capacità di Rilke di mettere a nudo la sua personale inabilità alla vita, l’angoscia e il confronto con l’«altro» che è in lui, le incertezze e presentimenti, la possente attrazione per la gioia, l’armonia delle cose;  ma poi, inevitabilmente, prevale il sentimento di una frattura non rimarginabile tra la conquista estetica e il livello esistenziale. Un po’ come dire che ciò che si considera “bello e perfetto”, si scontra con la stessa esistenza, la vita di tutti i giorni.

Ecco, parto da un altro punto di vista: se due persone stanno insieme, si amano e decidono di costruire insieme la “casa” della loro vita, la solitudine è già alienata con questo semplice atto.
Eppure il tempo, in qualche caso, non esprime questo semplice concetto, dice che la solitudine non è quella fisica, bensì quella interiore.

L’albero su cui cresceranno foglie “sempreverdi” deve avere radici nella conoscenza di se stessi, intuire quello che la persona che ci sta vicino può donare e ricevere nella reale comprensione di quello che anima lo spirito del partner.

A questo punto penso che i discorsi di Rilke, pur viaggiando a livello filosofico e che esprimono una condizione personale di sofferenza, non sono da escludere sic et simpliciter. Siamo tutti diversi e quindi l’alienazione della solitudine risiede nella profondità del legame che unisce due persone.
A 20 anni di età o giù di lì non credo si possa conoscere tutto, magari con una certa approssimazione, però in itinere potrebbero emergere altre peculiarità tali da rendere la solitudine interiore ancor più reale e dunque difficile da superare.

Non basta, a mio avviso, avere una buona situazione economica, creare una famiglia, avere figli, sentirsi appagati da questi eventi pur importantissimi.
Guardare nel più profondo di se stessi è inevitabile per provare a togliere di mezzo qualsiasi perplessità. La semplicità di atti che costellano la vita, avere una fede che ci sorregge, possono essere un ottimo viatico (il più delle volte lo sono), ma non sempre tutto funziona a dovere, non basta per sentirsi appagati fin dentro l’anima quando rimane vivo qualche interrogativo e non riusciamo a spiegarcelo.
Tra desideri di riflessione, di angoscia, di preghiera, di attesa, di speranza..

Un abbraccio a tutti voi, amici carissimi

 

 

 

 

 

Dubbio e solitudine

 

 
 
 
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