Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
Il Novellino (di Anonimo)
Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)
I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Bacco in Toscana (di Francesco Redi)
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Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
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Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)
Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
POETI ROMANESCHI
C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)
Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)
Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)
Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)
Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)
La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)
Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)
Nove Poesie (di Trilussa)
Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)
Poesie romanesche (di Antonio Camilli)
Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)
Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)
Quo Vadis (di Nino Ilari)
Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi di Ottobre 2014
Post n°571 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
XXXVIII. Poi che mi dié natura a voi simile Dunque credete me cotanto vile, Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io Non contenda rea sorte il bel desìo, che pria che l'alma dal corporeo velo si scioglia, sazierò forse mia brama.
XXXIX. Amore un tempo in così lento foco Poscia sdegno e pietate a poco a poco Ma 'l ciel né sazio ancor (lassa) né stanco e con sì acuto spron mi punge il fianco,
XL. Qual vaga Filomela, che fuggita er'io da gli amorosi lacci uscita, Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!) quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
XLI. Felice speme, ch'a tant'alta impresa De bei disir in gentil foco accesa, Dolce, che mi feristi, aurato strale, pro mi sia grande ogni più grave danno, XLII. S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade, ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
XLIII. Se ben pietosa madre unico figlio Se scaltro capitano in gran periglio, S'in tempestoso mar giunto si duole Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
XLIV. Se forse per pietà del mio languire vago augellino, e meco il mio martìre pregoti per l'ardor che sì m'addoglia, e cantando gli di' che cangi voglia,
XLV. Ov'è (misera me) quell'aureo crine Ove son quelle luci alte e divine Ove suonan l'angeliche parole, Ove luce ora il vivo almo mio sole, Tullia d'Aragona |
Post n°570 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
'N'antr'occasione Quanno che la tua vita l'hai bbuttata, Ricordi quanno 'sta cratura è nnata? Sei stato pure 'n omo de successo, solo per un momento da cojone. Valerio Sampieri |
Post n°569 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
Li carciofoli a' la giudia Quattro carciofoletti a' la giudia Io benedico Sare e Samuelli E me ne faccio certe padellate Quanno a' la fine, poi, me sento sazzio, Antonio Spinola (1882 - 1952) |
Post n°568 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
XXXV. che se pur sono in voi pure l'interne voglie, e la vita al vestir corrisponde, non uom di frale carne e d'ossa immonde, ma sete un voi de le schiere superne. Or le finte apparenze, e 'l ballo, e 'l suono, chiesti dal tempo e da l'antica usanza, a che così da voi vietati sono? Non fora sanà, fora arroganza torre il libero arbitrio, il maggior dono che Dio ne dié ne la primiera stanza. XXXVI. Ad Emilio Tondi Siena dolente i suoi migliori invita a lagrimar intorno al suo gran Tondi, al cui valor ben furo i cieli secondi, poscia invidiaro l'onorata vita. Marte il pianger di lei col pianto aìta, morto 'l campion, cui fur gli altri secondi; io prego i miei sospir caldi e profondi, ch'a sfogar sì gran duol porgano aìta. So che non pon recar miei tristi accenti, a voi, messer Emilio, alcun conforto, che fra tanti dolori il primo è 'l vostro. Ma 'l duol si tempri; il suo mortale è morto; vive 'l suo nome eterno fra le genti: l'alma trionfa nel superno chiostro. XXXVII. Se veston sol d'eterna gloria il manto quei che l'onor più che la vita amaro, perché volete voi, gentil mio Naro, render men bella con acerbo pianto quella lode immortale e chiara tanto, di cui mai non sarà chi giunga al paro del valoroso vostro fratel caro, che morendo portò di morte 'l vanto? Scacciate 'l duol e rasserenate il volto; e le unite da lui nemiche spoglie sacrate a lui, che già trionfa in cielo, E da questo mortal caduco velo più che mai vivo, omai libero e sciolto, par ch'a seguirlo ogni bell'alma invoglie. Tullia d'Aragona |
Post n°567 pubblicato il 27 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
XXXII. Voi ch'avete fortuna sì nimica, Muzio gentile, un'alma così amica Visse gran tempo l'onorato amore E se nel volto altrui si legge il core,
XXXIII. Fiamma gentil che da gl'interni lumi poi che con l'alta tue luce m'allumi E con la lingua fai che 'l rozo ingegno, io spero ancor a l'età tarda farsi
XXXIV. Spirto gentil, che vero e raro oggetto se di pari n'andasse in me l'affetto Sol dirò, che seguendo la sua stella, e la mia, ch'ora è teco insieme unita, Tullia d'Aragona |
Post n°566 pubblicato il 27 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
Er Diddittì |
Post n°565 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
Riporto ancora un episodio da "I martiri di Belfiore: letture patriottiche per giovinetti italiani" di Francesca Zambusi Dal Lago, G. Franchini, Verona, 1900. Carlo Poma è oggi noto, tristemente direi, perché a lui è intitolata la Via nella quale, quasi 25 anni fa, fu consumato un delitto tuttora irrisolto. Carlo Poma fu un patriota e quella che segue è la sua storia. Sulle ginocchia materne si formano gli eroi. Carlo Poma, valente in medicina e chirurgia, sagrificato dagli Austriaci a Belfiore, nacque a Mantova l' anno 1823 il sette dicembre, e fu spento pure nel fatal sette dicembre del 1852. Gli fu padre il giudice Leopoldo Poma, consigliere di Tribunale, uomo riverito per rettitudine, dottrina, e patriottici sentimenti. Sua madre fu la illustre Anna Filippini, donna di antica virtù, e di cui non saprebbesi se più ammirare l' altezza della mente o quella del cuore. Morto di crudel morbo l' anno 1836 ai figli ancor teneri il genitore, ella si strinse più fortemente alla numerosa giovane famiglia, e con essa abbandonò il luogo natio, per recarsi in Pavia a compiervi l' educazione dei figli maschi. Ritornò a Mantova quando Carlo, il minore di tutti, aveva già côlta laurea in medicina e chirurgia. Salito ben presto per il suo merito in alta fama, venne invitato a prestare la generosa opera sua nel patrio ospitale, quel santo albergo degli umani patimenti. E tanto intelletto di amore egli vi pose, che dir solevasi, avere per i suoi malati il cuore di un padre e le viscere di una madre! Di ciò sia prova, che spento egli già da tanti anni, la sua memoria benedetta viene colà tramandata di bocca in bocca, e ai visitatori del pio luogo si mostrano con reverenza le stanze che esso occupava, i suoi libri e quanto ancora di lui parla al cuore degli infelici, che la sua carità sapea confortare! Le azioni del medico Carlo Poma erano improntate di quell' ardore disinteressato, che distinguer deve i seguaci di quell' arte che più accosta l' uomo a Dio. E quando stanco delle fatiche del giorno, cercava riposo fra le pareti domestiche, divider soleva le brevi ore fra le amorose accoglienze della pia genitrice, e l' occuparsi in severi o più ameni studi. Profondo conoscitore delle scienze naturali, trasfonder sapeva ne' suoi giovani allievi, col sapere, lo zelo di giovare all' umanità sofferente, onorando in pari tempo la patria. Seguace del poetico genio materno era buon poeta come buon prosatore, e bene istrutto in varie lingue straniere. Tutto ciò congiunto a un illibato carattere, lo faceva ricercato in ogni più culto ritrovo, e in lui posero ben presto fidanza i più atti patriotti italiani. Eravamo al 1850, epoca delle cospirazioni per iscacciare d' Italia lo Straniero. Si formarono, come sopra dicemmo Comitati, e questi divisi in Circoli, ognuno de' quali presieduto da uno de' più forti nostri campioni. Carlo Poma veniva a ciò destinato. Scopertasi la congiura e per la colpevole debolezza di alcuni anche il nome de' compromessi, si passò tosto agli arresti. Era una notte buia, buia, e Carlo immerso in profondo sonno, sognava di rivedere la madre, che tornar doveva col nuovo giorno dalla campagna. Fra il terrore della desolata famiglia, veniva strappato dalle braccia de' fratelli e condotto alle prigioni della Mainolda, da cui poscia al castello di S. Giorgio. E là rinchiuso in umida stanzaccia, dalle mura insudiciate, il soffitto a vôlta, ove la curva incominciava dal pavimento a fare di quell' antro un vero soggiorno di morte! Soli arredi, un duro pagliericcio, due olle una per l' acqua, l' altra per le immondizie. A sei ore del mattino vi entravano due soldati con un secondino, slucchettavano la finestruola togliendone per pochi istanti le impannate. Il prigioniero, impedito dalle catene di sollevarsi da solo, si faceva da essi prestare aiuto, e correva a bevere da quell' abbaino qualche boccata d' aria, di cui sentiva irrefrenabile il bisogno. Sparite le guardie, rimaneva là solitario per ore e ore, a misurare il tempo che lo avvicinava all' eterno! … La madre di Carlo, all' improvviso annunzio della carcerazione del figlio, non mandò pure un lamento, perchè le spie dei carnefici non si pascessero delle lagrime materne. Nel segreto però della vedova stanza, schiacciata, i giorni e le notti, sotto un pensiero unico, desolante, non ebbe più momento di pace! … Dal suo cuore stillava sangue, ma ella trovava pur nondimeno parole di speranza per il suo prigioniero! E che non immaginava a confortarne la solitudine? … Le quante sere, fratelli e amici passavano e ripassavano sotto le cupe vôlte di quel suo carcere, facendo penetrare alle sue orecchie le sospirose lor voci! E beata più ancora quella relitta se ascoso fra le pieghe di qualche veste al prigioniero concessa, poteva fargli giungere un solo fiore! … Era poi una festa per tanti cori, se per ingegnosi ritrovati del chimico carcerato, egli riusciva a imprimere su di una camicia riportata alla famiglia, i suoi confidenti caratteri, sfuggiti a profano sguardo. E queste preziose memorie, gelosamente custodite dall' amor de' parenti, con altre de' compagni sagrificati, sono ora glorioso retaggio di tutto un popolo! Come onda incalzata dall' onda, pensieri e affetti del condannato si combattono entro il suo cuore, e ne fanno strazio. La terra e il cielo, il mortale e l' eterno, tutto a un punto gli si affaccia! … Se a chi versa in pericolo della vita, pur confortato dalla speranza che mai non abbandona, è doloroso il morire, che non sarà mai di chi nella pienezza della vigoria, vede avvicinarsi ineluttabile l' ora suprema? E questa non confortata dal sorriso d' amici volti, ma fatta più cruda dal ceffo rude del carnefice! … Quando tutti aspettavano la grazia sovrana, fatta sperare ai prigionieri politici, ecco piombare come folgore sentenza di morte su vile patibolo, a Carlo Poma e quattro compagni suoi. Invano nobili matrone si portano in Verona ai piedi di Radeschi, e ne tornano sconosolate! Chè la settantenne madre del Poma, affranta più che dagli anni dai patimenti, nel più crudo di un rigido verno, vuole trascinarsi a Vienna ai piedi dell' augusta Regnante, che pur essa è madre, a implorare dalla sua intercessione la vita del figlio! … Ahi, non sapeva la misera che i despoti non hanno un cuore! Giunta a Trieste, le si ingiunge di rifar la sua via, e quando a Mantova ella ritorna … non trova più che un cadavere! … E il derelitto figlio, ottenuto di rivedere i suoi cari, non vide fra essi la madre, ch' era in cima dei suoi pensieri, il sogno delle sue notti, il sospiro de' numerati suoi giorni! … Lei sempre chiamava, e benedicimi diceva, che io voglio morire di te degno! Tu con l' esempio e col precetto mi inspirasti la religione del dovere, la carità per gl' infelici, l' amor del lavoro, e tutto il poco che io sono, a te sola lo debbo! Tu fosti sempre un libro aperto per i figli tuoi, che furono le sole tue gioie, e ahi me misero, che con la mia morte ne fo' il tuo martirio! Perdono, o madre, chè se io volli far libera l' Italia a prezzo della mia vita, non macchiai le mie mani dell' altrui sangue, ma come meglio seppi, salvai da morte il mio stesso nemico! Carlo, era di que' forti caratteri che col sagrificio di loro medesimi, cercavano educare il popolo alla virtù. Voleva la concordia degli animi, che sola dar poteva alle moltitudini quella forza morale, a cui nessun despota saprebbe resistere. Confidava sopratutto nel progredire dell' idea, che qual fiume giù giù scende, e a poco a poco s' ingrossa, finchè supera ogni argine, e tutto trascina nel vorticoso suo corso. Rammentava i primi albòri di libertà, il 21, 31, 48. Vedeva gli antesignani del nostro politico risorgimento, andar carponi fra le tenebre, poi a capo chino e finalmente sollevare le fiere teste alle forche di Belfiore! Da ciò intravedeva non lontana la libertà e l' unione d' Italia, sotto un Re italiano! Tradotto, dopo la condanna, dal Castello di S. Giorgio al Confortatorio di S. Teresa, chiese di un amico sacerdote, che gli fosse a canto nel duro passo. A questo pietoso confidò tutto sè stesso, e l' ultimo bacio per la pia genitrice che andrebbe a precedere in paradiso! Quel giorno e molti altri appresso, furon giorni di italiano lutto! I cittadini di Mantova, scontrandosi per via, si salutavano con un sospiro. Un tristissimo caso rese più straziante il transito dei cinque, dal Confortatorio di S. Teresa a Belfiore. Fatalmente la casa dei Poma era posta in contrada larga, a cui il funebre corteo passar doveva vicino Da una finestra spalancata si udì un orribile grido: era di una sorella del Poma, a cui fino a quel giorno si era lasciato sperare nella grazia sovrana! Alla nota voce, Carlo abbrividì, venne meno! … Ma un de' compagni gli susurrò all' orecchio che tutta Italia era a' suoi martiri intenta, e tornò nel martire la virtù sopita! Nè più il commossero, il rullar de' tamburi, le stridule voci delle guardie, nè quella dell' auditore che sotto le forche rilesse la sentenza di morte. Carlo Poma, fu dalla sorte destinato a essere l' ultima vittima, e così quest' anima pietosa agonizzò non una, ma cinque volte. Le sue estreme parole furono: Signore, vi raccomando la madre e la patria mia! --E la madre? … Il suo immenso cordoglio, compresso al di dentro, scavò più profondo un abisso in quel delicato suo cuore. Visse anni di una vita peggior che morte! Si strusse invano nell' ansia brama di portare lagrime e fiori sul cenere del figlio! Nel suo dolore senza speranza, invidiava alle molte madri, meno di lei sventurate, cui ogni giorno novello avvicinava all' istante di veder libero il prigioniero! … Insopportabili le divennero que' luoghi testimonî delle sue gioie materne, e che echeggiare or parevano dei gemiti del figlio suo! Si ritrasse a vivere in un suo recinto, nel silenzio de' campi, ove sfogare lontana da umano sguardo la piena del materno dolore! Il 15 giugno 1863, stanca dell' umano patire, volò al suo martire in cielo! --Deh, che le inenarrabili angoscie di tante itale madri, non tornino infeconde a questa patria con tanto sangue redenta, e risollevando lo sguardo alle forche di Belfiore, duri virtuosa e forte, sotto lo scettro del magnanimo Re italiano, all' ombra della gran Croce Sabauda! |
Post n°564 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
"I martiri di Belfiore: letture patriottiche per giovinetti italiani" è il titolo di un libro pubblicato nel 1900 (G. Franchini, Verona), scritto da Francesca Zambusi Dal Lago, nata nel 1827, morta in data imprecisata. Il libro è composto da vari episodi che narrano le vicende tragiche di altrettanti patrioti. Ho trovato molto bello l'episodio relativo a Tito Speri, che esalta sentimenti ormai sconosciuti. "Biondo era e bello e di gentile aspetto." Brescia, la nobile e generosa Brescia, posta alle falde di un colle ameno, e il cui territorio bagnato da più fiumi è fertilissimo, fu sempre terra di sensi patriottici, e l' anno 1849 con la forte sua resistenza, sostenne l' onore della causa italiana, avvilita dalla fatale caduta di Novara. In tanto sorriso di cielo, da non ricchi ma onoratissimi parenti, nacque Tito l' agosto del 1825. Morto a lui il padre mentre era ancor giovinetto, rimase alle cure della vedova madre, che a sopperire agli scarsi suoi economici mezzi, raddoppiò di zelo, e con l' assiduo lavoro delle sue mani potè educare il figlio ne' belli studi, a cui fin da fanciullo si mostrava inclinato. Oh, è ben vero che sulle ginocchia materne si formano gli eroi; e così Tito all' esempio della pia madre, donna di generoso sentire, crebbe in virtù e in senno, e divenne giovane ancora, l' idolo de' suoi concittadini e di quanti lo conoscevano. D' indole nobilissima, di cuore aperto, di umore il più lieto, facile della parola, aveva fibra delicata ma energica, animo cavalleresco, mediocre statura, bruno il colorito, alta la fronte, neri e scintillanti gli occhi, biondi i capelli, rara la barba al mento. Era pur forte del braccio, agilissimo delle membra, e gentile ne' spigliati suoi modi, vero tipo bresciano Lo svegliato ingegno gli traluceva de tutta la persona. Nel 1848 subito dopo le famose cinque giornate di Milano, corse ad arrolarsi nella guardia cittadina, e combattè di poi nella Compagnia dei giovani lombardi. L' anno 1849 dopo le sventure di Novara, si fe' l' anima degli insorti Bresciani, e in quelle gloriose dieci giornate di rivoluzione di un popolo, che altamente sentiva l' offeso onore italiano, egli pareva convertito in un antico eroe, mentre guidava i suoi alla difesa, impedendo loro ogni atto men che generoso contro il nemico. Ma quando vide inutile, anzi dannosa ogni ulteriore resistenza, fu lui stesso a inalzare bandiere bianca, gridando: Entrate, ma non per amore, per forza! … Caduta Brescia, molti de' suoi emigrarono, ma non però Tito, perchè ci aveva la madre! … Fu ella medesima che in nome dell' estinto padre glielo impose, quando s' accorse che il rimanere poteva essergli fatale. Andò Tito prima nella Svizzera, e poi a Torino ove venne adoperato nella pubblica istruzione. Passato qualche tempo non seppe resistere al desiderio di rivedere la madre, e fidan do anche forse nell' amnistia promessa dall' Austria, tornò in patria, ove l' improvviso ritorno fe' sospettare ai malevoli della sua fede politica. Le ingiuriose insinuazioni furono schianto a quell' anima d' eroe, che dolente di non poter nulla operare a prò della patria, si chiuse nei geniali suoi studì e diede fuori poesie, drammi, romanzi, preparando inoltre documenti per una storia d' Italia dell' ultimo secolo. Ma la sospettosa polizia austriaca, che avversava gli ingegni svegliati, da cui vedeva sorgere i debellatori del suo dispotismo, nol perdè mai d' occhio, e dopo fatti parecchi arresti, la sera del 26 giugno 1852, mentre Tito era fuori della propria casa lo fece prigione, senza pur concedergli di dare un addio alla madre sua! Amici pietosi ne portarono alla poveretta il desolante annunzio, e ella ebbe a dire: il core me lo presagiva! … oh, potessi almeno vegliare al suo capezzale, giacchè egli da qualche giorno è febbricitante! … Poi nel terrore di una perquisizione, abbruciò le carte del suo Tito, privando forse la patria letteratura di pagine preziose. Ma chi non l' avrebbe fatto? Il prigioniero aveva infatti la febbre, e ciò nondimeno venne tradotto la stessa notte nel luttuoso castello di Mantova. Al passare, egli disse, sotto la orribile vôlta, al salire di quelle eterne scale, sulla soglia della porta fatale che si rinchiuse dietro i miei passi, allo stridore dei duri catenacci, fra quelle sentinelle del colore di morte, all' essere spogliato di tutto il mio, e là solo, senza più un sorriso di volto amico, non credetti di poter sopravvivere. E--madre, madre--gridava nel delirio della febbre: Madre ove sei che non soccorri il tuo povero figlio? … Gettato su duro pagliericcio, schifoso per molti insetti, il male di Tito si andò aggravando e fe' temere della sua vita. Fu allora che un pietoso sacerdote ottenne di apprestargli un buon letto, beneficio che non dimenticò più mai! Passati però quei primi giorni d' infermità e di morale abbattimento, come il leone che scuote la chioma e torna ardito, il prigioniero forte della propria intemerata coscienza, ridivenne tranquillo, anzi gioviale, e si fe' l' amore di quanti l' avvicinavano. Fra le torture del duro carcere, trovava parole di conforto per la desolata sua genitrice, e nelle amorose lettere le insinuava di confidare nella sua innocenza, proibendole di scendere a preghiere con l' inimico per la sua salvezza. Dopo lunghi giorni di terrori e di speranze, ad arte alimentate dall' oppressore per tener calme le popolazioni, improvvisamente si pronunciò sentenza di morte su vile patibolo, contro il conte Carlo Montanari di Verona, il parroco Grazioli del Bergamasco, e Tito Speri di Brescia! I primi momenti dopo la condanna sono i più terribili per i condannati! Come in una visione loro si affacciano le gioie della famiglia, i baci materni, le speranze dei primi anni, le angoscie del distacco, lo strazio dell' ultimo irrevocabile addio! … La lugubre cella di Tito invece parve da quel giorno convertita in un asilo di pace.--Guai--egli diceva, all' uomo senza fede! egli non compirà giammai opera generosa, perchè solo il pensiero di una vita futura può fare gli eroi! … E quanto più si avvicinava l' ora dell' estremo supplizio, più si ingigantiva il suo coraggio, e pareva cittadino men della terra che del cielo! Dal ferreo Castello di S. Giorgio venne con gli altri condannati tradotto nella lugubre stanza di Santa Teresa, e di là alla valle dolorosa di Belfiore! Giunta l' ora di morte, si vestì Tito come a festa, e sereno in volto, gentile negli atti, seguì i due compagni sul palco, non del disonore ma della gloria. Quando i tre eroi apparvero sui carri de' condannati, le accorse genti ammutolirono, e piegando il ginocchio dinanzi ad essi, altamente li riconobbero per i loro salvatori! A Belfiore si scambiarono, il Montanari, il Grazioli e lo Speri, un pietoso fraterno sguardo, e questo chiese in grazia di essere appiccato l' ultimo, per risparmiare ai compagni la lunga agonia. Subito dopo lo strazio di veder cadere dalle forche le mutilate spoglie de' due martiri cari, si tolse il fazzoletto dal collo e lo consegnò al fido sacerdote che gli stava a lato, pregando di darlo per sua memoria all' ingegnere Cavaletto, con cui aveva nel carcere stretta la più cordiale amicizia. Indi pose il collo sotto il capestro, e al rude tocco di quello la sua fronte allibbì, ma non il suo coraggio che non venne mai meno. Come gli uomini, i celesti per l' orrore si copersero il volto! Oh, se que' tanti che oggi cangiano la libertà in licenza insegnando al popolo di calpestare ogni freno, per tutto sagrificare alle proprie disordinate passioni, pensassero alle migliaia di vittime per noi immolate, oh no, che non si farebbero carnefici di una patria, con tanto sangue redenta! Si cessi una buona volta di tutto promettere alle accecate moltitudini per nulla poi mantenere. Non si incoronino di falsi diritti, ma loro s' insegni a osservare i propri doveri. Pongasi un argine alle irrompenti maree che minacciano straripare dagli argini crollanti di una società corrotta e corruttrice. Poveri e ricchi, siam tutti fratelli; doni a larga mano il ricco parte dei cumulati tesori; lavori il povero, chè nel lavoro è la vera felicità, e un vincolo d' amore indissolubile stringa le genti della libera Italia! |
Post n°563 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
XXVII. A Benedetto Varchi Varchi, da cui giammai non si scompagna il coro de le Muse, e ch'a l'affanno com'a la gioia, a l'util com'al danno, sempre avete virtù fida compagna; qual monte, o valle, o riviera, o campagna, non sarìa a voi più che dorato scanno: se come fumo innanzi a lei sen vanno gli umani affetti, ond'altri più si lagna? O perché errar a me così non lice con voi pe' i boschi, com'ho 'l core acceso, de l'onorate vostre fide scorte? Ch'avendo ogni pensiero al cielo inteso, vivendo viverei vita felice, e morta sperarei vincer la morte. XXVIII. Allo stesso Varchi, il cui raro e immortal valore, ogni anima gentil subito invoglia, deh! perché non poss'io, com'ho la voglia, del vostro alto saver colmarmi il core? che con tal guida so ch'uscirei fore, de le man di fortuna, che mi spoglia d'ogni usato conforto: e ogni mia doglia cangerei in dolce canto, e 'n miglior ore. Ahi! lassa, io veggio ben che la mia sorte contrasta a così onesto e bel desire, sol perché manch'io sotto l'aspre some. Ma s'a me pur così convien finire, la penna vostra almen, levi il mio nome fuor degli artigli d'importuna morte. XXIX. Allo stesso Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo, quel che sol di virtute è ricco e adorno, quel che col suo splendor un lieto giorno chiaro ne mostra a l'uno e all'altro polo: quel sete Varchi voi, quel voi che solo, fate col valor vostro oltraggio e scorno a i più lontan, non ch'al vicin d'intorno; ond'io v'ammiro, riverisco e colo. E di voi canterei mentre ch'io vivo, s'al gran soggetto il mio debile stile, giunger potesse di gran spazio almeno. O pur non fosse a voi noioso e schivo questo mio dire, scemo e troppo umile; che per voi renderassi altero e pieno. XXX. Allo stesso Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati, sieno al bel gregge tuo, dolce pastore vero d'Arcadia e di Toscana onore, più chiaro fra i più chiari e più pregiati; se tanto in tuo favor girino i fati, che mai tor non ti possa il dato core Filli, né tu a lei tuo santo amore, onde vi gridi ogni uom saggi e beati: dinne, caro Damon, s'alma sì vile e sì cruda esser può, ch'essendo amata renda invece d'amor tormenti e morte. Ch'io temo (lassa) se 'l tuo dotto stile non mi leva il dubbiar, d'esser pagata di tal mercede, sì dura è mia sorte. XXXI. Allo stesso Dopo importuna pioggia s'allegrano i pastor, quando 'l sereno ciel si discopre lor di stelle pieno; e dopo 'l corso de l'instabil luna, ne l'apparir del sole, gioisce ogni animal che brama il giorno; e l'alto Dio lodar ben spesso suole, dopo l'aspra fortuna, spaventato nocchier al porto intorno; e 'l Varchi è al suo ritorno seren, sol, porto: e chi ha d'onor disìo, si rallegra, gioisce e loda Iddio. I primi 21 sonetti de "Le Rime di Tullia d'Aragona" sono reperibili sul blog Bibliofilo Arcano, in vari post sotto il tag Tullia d'Aragona. In questo blog sono stati pubblicati altri cinque suoi sonetti |
Post n°562 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
I quattro seguenti Sonetti di Tullia d'Aragona sono dedicati ad Ugolino Martelli. XXIII. Ad Ugolino Martelli Mentre ch'al suon de i dotti ornati versi, fate d'Arno suonar l'ampie contrade, cantando insieme a più ch'ad una etade con le virtù, ch'a voi sì amiche fersi, a me, caro Martel, sono tanto avversi i fati, ch'ogni ben dal cor mi cade: e per occulte, solitarie strade, vo' lagrimando il dì che gli occhi apersi. Tal che del pianto mio, del mio languire, languisce e piagne ogni sterpo e ogni sasso, e le fiere e gli augelli in ogni parte. Voi mentre affligge me l'empio martire, deh! consolate lo mio spirto lasso, così vostre eterne e onorate carte. XXIV. Allo stesso Più volte, Ugolin mio, mossi il pensiero per risonar con la zampogna mia, vostra rara virtute e cortesia, poggiando al ciel col bel suggetto altero. Ma, lassa, invan m'affanno (o destin fero) che roco è 'l suono, e la mia sorte ria, sì dietro a i miei dolor tutta m'invia, che levarmi da terra, unqua non spero. Cantino altri di voi tanti pastori, che pascon le lor gregge a l'Arno intorno, a cui le Muse, a cui fortuna è amica; io s'unqua al mio felice stato torno, non pur non tacerò miei santi ardori, ma voi sarete mia maggior fatica. XXV. Allo stesso Ho più volte, Signor, fatto pensiero di risonar con la zampogna mia, di te il valor e l'alta cortesia, salendo al ciel presso al soggetto altiero. Ma, lassa, invan m'affanno, o destin fiero, che roco è 'l suono, e mia fortuna rìa, sì dietro a miei dolor tutta m'invia, che levarmi di terra indarno spero. Cantin di te tanti gentil pastori, che pascon le lor greggie al Po d'intorno, a cui le Muse, a cui fortuna è amica: forse il mio Mopso ancor, fatto ritorno, farà sentir non pur suoi bassi amori, ma tu sarai la sua maggior fatica. XXVI. Allo stesso Ben sono in me d'ogni virtute accese le voglie tutte, e gli spirti alto intenti; ma 'l poter e l'oprar sì freddi e spenti, ch'io mi veggo aver l'ore indarno spese. Onde non lodi no, ma gravi offese mi son le rime vostre, e però tenti vostr'alto stil, fra tante e sì eccellenti, mille di lui cantar più degne imprese. Ben può celar il ver finta bugia, a qualche tempo, o 'n qualche loco, o parte: ma non sì ch'ei non vinca, e 'n sella stia, dunque per più secura e corta via, rivolgete, Ugolin, tanta vostra arte, ch'in altrui molto, in me poco sarìa. Tullia d'Aragona |
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il 25/12/2023 alle 09:06
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